Make America Trump Again

Nonostante una crisi (economica, istituzionale, sociale) che si trascina in forma plateale da 15 anni, il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi pare cogliere di sorpresa stampa e commentatori in tutto l’Occidente.

Alle latitudini in cui viviamo, la propaganda sembra definitivamente naufragata nella assuefazione ad un “business as usual” incapace di cogliere contraddizioni e fratture sistemiche da guerra civile che da più di un lustro si agitano nel ventre statunitense.

Proviamo, dunque, a fissare alcune riflessioni esterne a questi angusti steccati ideologici.

1) Il sentimento – presuntamente – comune

Da quando Kamala Harris ha rilevato la staffetta democratica dalle mani di un Biden smarrito nella propria demenza, i sondaggi della maggioranza tra stampa ed emittenti televisive hanno riportato un testa a testa tra i due candidati che le urne hanno smentito con una platealità del tutto inedita.

Questo ennesima cantonata degli istituti demoscopici, imporrebbe una riflessione sullo stato degli strumenti di costruzione e diffusione del consenso operanti nelle nostre società che, quanto meno, non vanno più considerati affidabili, con tutto quello che ne consegue a livello di partecipazione e gestione, da parte dei comunisti, a campagne elettorali costruite da e condotte su media che paiono vivere in un universo parallelo a quello della società “reale”.

2) Contraddizioni e riposizionamento politico del capitale statunitense

Il primo Trump, nel 2016, vinse la corsa alla Casa Bianca con l’appoggio della cosiddetta “old economy” – manifattura metalmeccanica residuale dei 30 gloriosi, filiera industriale delle energie fossili –; 8 anni dopo, l’endorsment ricevuto dal soggetto più istrionico dell’economia tech statunitense, Elon Musk, sembra essere stato determinante sia per il finanziamento della campagna elettorale sia per spingere il “personaggio Donald Trump”.

È quindi evidente che almeno una parte di capitale attivo nei settori più elevati della produzione, ha fiutato più garanzie per i propri profitti in Trump piuttosto che nel liberalismo incarnato dai democratici.

Questo può suggerire che il cosiddetto “friend shoring”, con annesso disaccoppiamento delle odierne catene globali del valore, sia giunto al capolinea, almeno per come è stato postulato dall’amministrazione Biden che, in buona sostanza, auspicava un processo morbido di superamento della globalizzazione in voga dagli anni ’90.

Tale scenario, nei fatti, non si è verificato, perché il tentativo di disarticolare le filiere produttive ha sottostimato, da un lato, la complessità delle filiere stesse, dall’altro l’assertività dei soggetti economico/statuali che si intendeva marginalizzare, Cina in primis, ma in forma diversa anche la Russia.

Dobbiamo quindi attenderci una precipitazione, financo bellica, della competizione statunitense sullo scacchiere globale per arginare il declino economico USA?

È presto per dirlo, ma l’ipotesi è certamente verosimile e gli scenari che si prospettano davanti a noi andrebbero sondati anche circa l’orizzonte temporale in cui è plausibile che la situazione peggiore – terza guerra mondiale non più “a pezzi” – possa manifestarsi.

3) Politica estera e tendenza alla guerra

Su quest’ultimo aspetto va detto che non servono particolari doti analitiche per considerare come praticamente certa l’intensificazione dell’impegno statunitense nella destabilizzazione violenta del proprio “cortile di casa” con Cuba, Venezuela e Nicaragua direttamente nel mirino della nuova amministrazione Trump. Con l’acuirsi della contrapposizione contro chi, a diverso titolo, non si inserisce nel solco previsto dagli USA (Colombia, Messico, Bolivia, Honduras).

Speculare valutazione si può fare per il Medio Oriente, dove è quasi certo che Netanyahu troverà una robusta sponda alla propria agenda genocida di tutti quei soggetti rei di non essere allineati agli interessi sionisti, quindi non solo il Popolo Palestinese ma il cosiddetto Asse della Resistenza al completo.

Più ambigua, invece, ci pare la sorte del fronte ucraino perché, da un lato gli Stati Uniti hanno scommesso un capitale materiale e politico così elevato su Kiev da non potersi permettere un’uscita di scena come quella consumatasi a Kabul nel 2021, dall’altro perché le velleità di rimodulare per irrobustire l’orizzonte del friend shoring, impongono alla nuova amministrazione Trump di tentare una riedizione dell’agenda Nixon nel rinnovato proposito di separare la Russia dalla Cina.

La criticità di questo obiettivo è che ai tempi di Nixon gli USA avevano delle valide carte da giocarsi con la Cina, oggi paiono estremamente a corto di offerte che possano interessare o essere accettate dalla classe dirigente del Cremlino.

La questione ucraina chiama in causa anche quelli che saranno i rapporti dei prossimi 4 anni tra le due sponde dell’oceano Atlantico.

L’UE, infatti, non si è ancora ripresa dallo stordimento che gli USA le hanno assestato con lo schiaffo ucraino (apertura di un ampio conflitto convenzionale sulla soglia di casa, rottura dei proficui rapporti energetici con la Russia e arruolamento forzato nella guerra commerciale con la Cina) e un rilancio dell’irrigidimento statunitense nei confronti degli interessi degli “alleati” nel consesso NATO, certamente stresserà i tentativi di autonomizzazione in atto nel Vecchio Continente, in particolare da parte di Germania – sul lato economico – e Francia – sul lato geostrategico. Rischiando comunque di perdere, in caso di disimpegno, la sponda nei territori orientali della UE.

4) Il rapporto con la classe lavoratrice.

Fin qui abbiamo parlato di rapporti conflittuali in seno al capitale statunitense e tra quest’ultimo e quelli degli altri paesi (anche occidentali).

Tuttavia, risalta pure dalla cronache elettorali di queste ore, Trump ha raccolto un inaspettatamente robusto sostegno anche da parte dell’elettorato statunitense che “lavora per vivere” e negli ultimi 15 anni ha maturato una inimicizia endemica nei confronti di quanti, invece, vivono di rendita (quasi sempre legata all’alta finanza).

Trump si è dimostrato maestro nel comunicare incisivamente a tutti quei soggetti e non basta derubricare la questione a ignoranza e misoginia del WASP o redneck medio. Quanto meno non dovremmo accontentarci di questa lettura auto consolatoria in Italia, se qualcosa abbiamo imparato e capito da 20 anni di involuzione culturale, sociale e istituzionale cavalcata e spinta dal “fenomeno” Berlusconi.

Resta comunque il fatto che al secondo mandato il M.A.G.A. non potrà restare slogan elettorale, ma dovrà sostanziarsi in qualcosa di tangibile per i sopracitati lavoratori. E qui rientra in campo il discorso accennato al paragrafo 2 in merito al “firend shoring” che va arricchito con ulteriori valutazioni.

Dobbiamo quanto meno ipotizzare che Trump è risultato diverso – e probabilmente per questo ha vinto – rispetto a tutti i democratici e parte dei repubblicani suoi concorrenti interni, perché postula una reinternalizzazione entro i confini statunitensi non solo dei settori produttivi apicali (l’alta tecnologia sostanzialmente) ma anche di parte consistente della manifattura che ha fatto la fortuna della classe lavoratrice statunitense nei cosiddetti “30 anni gloriosi”.

Il nodo intorno a questo obiettivo travalica le criticità che la strategia di friend shoring dell’amministrazione Biden si è trovata davanti.

Il rilancio della manifattura “classica” implica, infatti, affrontare almeno tre fattori su cui gli USA hanno accumulato un ritardo enorme rispetto alle economie concorrenti (segnatamente ai capifila dei BRICS+):

1) le infrastrutture, che cadono a pezzi e sono concettualmente obsolete (si pensi alla predominanza del trasporto interno fondato su aerei e camion mentre il trasporto ferroviario è fermo al secolo scorso);

2) la formazione della classe lavoratrice in crisi acuta a causa di un sistema educativo totalmente privatizzato quindi dai costi proibitivi e, nell’alta formazione, prevalentemente orientato agli studi economico-finanziari classici al posto delle scienze “dure”;

3) l’efficienza e concorrenzialità dell’apparato produttivo, che attualmente si regge su un mix di mercato del lavoro deregolamentato e povero, e costi energetici contenuti che però si riverberano in disastri ambientali sempre meno gestibili determinati dall’estrazione – fracking – e combustione delle fonti energetiche fossili.

Al momento il punto 3 è stato “tamponato” con una feroce concorrenza interna al blocco occidentale – prevalentemente a danno della UE – mediante massicci sussidi pubblici erogati grazie al vantaggio competitivo di cui gode il dollaro nei confronti delle altre valute il che consente, alla classe dirigente statunitense, di drenare capitali dal resto del mondo semplicemente agendo sul tasso d’interesse agito dalla Federal Reserve.

Anche questa, però, pare una soluzione di corto respiro, da un lato perché dalla UE non si “saccheggiano” produzioni a elevato valore aggiunto, dall’altra perché il vantaggio esclusivo del dollaro è sempre meno tollerato dal mondo non occidentale ed i prodromi di un tentativo di superamento dello status quo si sono visti al recente vertice di Kazan, dove i BRICS+ hanno iniziato a delineare i contorni di uno strumento di pagamento alternativo al dollaro per i commerci internazionali denominato BRICS Pay.

Sulla base di quanto fin qui esposto risulta evidente che, al netto di tutte le criticità che non vanno sottostimate o nascoste, l’elezione di Trump al soglio della Casa Bianca potrebbe determinare una accelerazione delle contraddizioni del modo di produzione capitalista verso cui i comunisti devono farsi trovare pronti sia nell’analisi teorica, sia nella conseguente identificazione di prassi politiche all’altezza dei tempi che viviamo, quindi inevitabilmente nuove.

Genova City Strike