Palazzina LAF

Nell’odierno contesto cinematografico italiano Palazzina LAF è un prodotto atipico per diversi aspetti.

Perché prende le distanze dalle produzioni di “impegno civile” intrise di buoni propositi che troppo spesso si diluiscono in narrazioni manichee; perché sulla base di questo si inserisce nella nuova fecondità che da alcuni anni sta caratterizzando il cinema italiano, segnatamente quello di genere, ma soprattutto perché, al posto di parlare genericamente di “lavoro”, parla esplicitamente di lavoratori e padroni, facendo nomi e cognomi.
A partire dall’ILVA di Taranto dei Riva, in quegli anni – siamo nella seconda metà dei ‘90 – da poco subentrati alla proprietà pubblica dell’IRI.
Non è una cosa da poco in un Paese in cui il dibattito pubblico subisce una moderazione soffocante ed esplicita perché non bisogna disturbare chi fa impresa.

L’esordio alla regia di Riondino, quindi, si smarca dalle formule di pellicole come 7 minuti o Il capitale umano mostrandosi più interessato all’esperienza artistica di Elio Petri, in particolare, all’inclinazione del regista romano di non fare sconti ad alcun soggetto ed ambiente descritto nei suoi film e spesso rappresentato con toni marcatamente sopra le righe (come in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto).

Palazzina LAF, dunque, sul palcoscenico mostruoso dell’immenso stabilimento siderurgico e della consunta periferia tarantina, illumina un momento essenziale dei decenni smarriti, quegli anni ‘90 in cui la società italiana vive sulla propria pelle l’affastellarsi di una serie impressionante di criticità sistemiche:

  • la sconfitta storica del movimento comunista internazionale che lascia la classe operaia orfana di riferimenti teorici e valoriali avanzati in grado di metterla al riparo dalla derive reazionarie di un individualismo becero ed ignorante, di cui è intriso il soggetto di Caterino Lamanna interpretato con intensità da Riondino;
  • la deflagrazione della classe dirigente (il Basile interpretato da Germano), che non più “limitata” dall’esistenza di un modello di sviluppo antitetico a quello capitalista, si abbandona senza remore a predazioni economiche e soprusi ferini contro i lavoratori (culminanti nel “reparto confino palazzina LAF” che costituisce il cardine di tutta la narrazione) dando forma a un quadro che ha un solo denominatore comune, la desolazione;
  • l’incalzante crisi economica e industriale prodotta dall’unione tra apertura internazionale dei mercati e dismissioni delle partecipazioni statali. Un combinato disposto che in quegli anni registra la sconfitta del sindacalismo confederale, di cui la pellicola mette in risalto l’incapacità di leggere i riassetti produttivi e farvi fronte con una proposta alternativa e di lotta, ma soprattutto di fare argine nei confronti della derive centrifughe tra lavoratori che a mezzo demansionamento, precipitano nell’atomizzazione tra operai e impiegati e poi tra presunti scansafatiche e dediti al proprio lavoro, cioè all’interesse aziendale, anche quando i turni sono scadenzati dai morti sulle linee produttive.

Non ci sono mostri ed eroi in Palazzina LAF, ma una crisi di civiltà che 25 anni fa riusciva ancora a trovare un precario puntello nell’azione della magistratura, un elemento che oggi dobbiamo invece considerare del tutto normalizzato.
Lo dimostra la stessa storia vera a cui il film è più che ispirato: il processo per mobbing (il primo in Italia) a carico dei vertici Ilva di allora, dopo 8 anni di procedimento nei tre gradi di giudizio produce condanne a 1 anno e 6 mesi per Emilio Riva e 1 anno e 8 mesi per Luigi Capogrosso, non un gran che considerando il danno subito dai 79 lavoratori oggetto del confinamento nella Palazzina LAF.

Questo era il 2006. Oggi, 18 anni dopo, gli sfruttati di questo Paese sono ancora in attesa che dal processo per la strage del Ponte Morandi di Genova escano delle responsabilità al primo grado di giudizio…