Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. (V. I. Lenin, Che fare?)
Come salta immediatamente agli occhi la “questione Ucraina” e più in generale la “questione guerra” sono bellamente ignorate da gran parte del “movimento antagonista”. Quest’ultimo, o almeno una sua corposa parte, l’ultima volta che ha preso la parola sulla guerra lo ha fatto schierandosi apertamente dalla parte sbagliata ossia andando a rimorchio delle forze imperialiste intervenute in Libia. Sulla Siria la tentazione di entrare a far parte, entrando dallo scalone “umanitario”, della coalizione anti Assad c’è stata ma l’intervento deciso di Russia e Cina ha fatto velocemente decadere tanto le velleità interventiste delle forze imperialiste Occidentali quanto i diversi supporti “umanitari” all’intervento. Sull’Ucraina, invece, una cortina di ferro è calata sopra il cosiddetto movimento antagonista. Per quanto attenti alla pubblicistica dei vari organi di agitazione e propaganda “antagonisti”, abbiamo potuto constatare il più completo disinteresse nei confronti di tale questione. Allo stesso tempo quanto sta accadendo in Iraq, dove in realtà si sta giocando una partita decisiva nella ridefinizione degli assetti imperialistici internazionali e dove, non diversamente da quanto accade in Ucraina, l’imperialismo statunitense sta costruendo il proprio retroterra strategico in vista di una non improbabile partita finale con Russia e Cina, sembra essere qualcosa che non ci riguarda. Eppure non occorre essere degli specialisti in geopolitica per comprendere che lo smembramento dell’Iraq e dell’instaurazione del Califfato rientrano, almeno per adesso, in un progetto di cooperazione a medio termine tra USA e Arabia Saudita. Ciò che in Iraq si sta consumando è la reiterazione, al fine di destabilizzare Iran e Siria, del medesimo patto scellerato consumato a suo tempo in chiave anti URSS in Afganistan.
Per altro verso, non occorre essere degli strateghi di professione per comprendere come, in Iraq e in Ucraina, si stia attuando a passi veloci quel progetto di accerchiamento della Russia che sembra essere, nell’immediato, il progetto politico e militare dell’imperialismo statunitense. In altre parole il mondo è già in guerra e questa, sempre più velocemente, si sta avvicinando ai nostri fortini i quali, in realtà, nel momento in cui è stato rimosso il “muro” e con questo il sistema bipolare sancito dagli esiti della Seconda guerra mondiale, hanno cessato di essere tali. Se, in linea di massima, per tutta un’arcata storica la guerra non doveva lambire i territori interni alla NATO e al Patto di Varsavia, con il venir meno di quest’ultimo tutto è tornato a essere in gioco. Per di più, e qua sta il vero nocciolo della questione, a fronte del venir meno di uno degli attori di quel patto geopolitico che ha fatto da sfondo a un’intera arcata storica, ciò che ha reso incandescente la situazione internazionale è stato il sopraggiungere della crisi sistemica del modo di produzione capitalista. Dentro questa crisi, la guerra, più che un’opzione possibile appare sempre più come la tendenza oggettivamente irreversibile. Lo scenario politico obbiettivo è questo, nessuno lo può eludere.
L’avanzata islamista in Iraq, nei confronti della quale gli USA e la stessa UE si mostrano a dir poco compiacenti, preannuncia una non secondaria escalation della questione siriana e un non improbabile coinvolgimento diretto dello stato iraniano. Di colpo, attraverso il Califfato, gli USA potrebbero avere mano libera in Siria e porre l’Iran in condizioni tali da veder pesantemente ridimensionata la sua postazione di potenza regionale.
Attraverso la rimozione dell’attuale governo siriano Arabia saudita e USA avrebbero sia il pieno controllo del Medio Oriente – l’acquisizione dell’Egitto appare un dato di fatto e non per caso gli investimenti militari in questo stato hanno avuto una repentina accelerazione – ma, soprattutto scaccerebbero, ed è questo a conti fatti il “cuore politico” del progetto strategico coltivato intorno alla Siria, definitivamente la Russia da una zona di importanza strategica fondamentale. Tutto ciò mentre, con le operazioni in Ucraina, gli USA porterebbe a compimento il progetto di isolamento politico e militare della Russia sul versante occidentale. Ma la destabilizzazione e lo smembramento dell’Iraq avrebbe effetti non secondari anche a est. L’instaurazione del Califfato sarebbe qualcosa di più che una spina nel fianco per l’Iran. Il Califfato, al quale non mancherebbero mezzi e uomini, potrebbe portare un attacco mortale all’eretico stato iraniano e farlo crollare o, per lo meno, ridurne alquanto potenza e influenza. Non è infatti improbabile che, uomini e armi del Califfato e relativi “invisibili” supporti internazionali, obblighino l’Iran a una guerra di logoramento in grado di minarne pesantemente stabilità e prestigio. In questo modo, oltre a eliminare uno stato decisamente avverso, gli USA compirebbero un ulteriore balzo verso il completo isolamento e accerchiamento della Russia, raggiungendo, per di più, lo scopo di portare un colpo non secondario al “Patto di Shanghai” del quale l’Iran, non meno della Russia, ne è membro particolarmente attivo. Ma incrinare il “Patto di Shanghai” significa colpire anche la Cina e tutto ciò che ne consegue.
Anche a uno sguardo superficiale, pertanto, non può sfuggire come lo scenario politico internazionale offra temi concreti perché la tendenza alla guerra debba essere assunta come cuore del politico dell’attuale fase imperialista, invece che essere bellamente ignorata. In tutto ciò, palesemente, il nascente polo imperialista europeo non sta a guardare. In Ucraina la sua compartecipazione al golpe nazista è stata palese e ulteriormente rinforzata attraverso le politiche inclusive nei confronti del nuovo regime ucraino. In Siria l’imperialismo europeo si è posto addirittura come principale artefice dell’intervento mentre, sull’Iraq, mantiene una posizione di aperta neutralità anche se, a più riprese, ha puntato il dito più che sui fondamentalisti, sul governo in carica caldeggiando, di fatto, lo smembramento dell’Iraq.
Questo solo per citare i fatti di maggior consistenza ai quali possono essere aggiunti tutta una serie di “fatti minori” quali l’ennesima operazione di pulizia etnica compiuta dal sionismo a danno della popolazione palestinese, un’operazione che è ben distante dall’avere obiettivi locali ma si inserisce indirettamente nella preparazione dell’attacco alla Siria; la continuazione del conflitto in Libia trasformata in una terra di nessuno dove tutti cercano di accaparrarsi, con ogni mezzo necessario, il massimo delle risorse energetiche locali; per arrivare alla serie infinita di “piccoli” interventi armati lungo tutto il Continente africano da parte delle più svariate consorterie imperialiste. Ce n’è abbastanza per affermare che l’imperialismo e le sue politiche di guerra offrono materiali non secondari per l’agitazione e la propaganda delle forze rivoluzionarie. Di tutto ciò, però, nella pubblicistica dell’arcipelago antagonista non vi sono che poche tracce e ancora meno sono le iniziative politiche con al centro l’aggressione imperialista all’Ucraina, la tendenza alla guerra che la crisi dell’imperialismo fa nuovamente albeggiare della quale, tra l’altro, l’aumento esponenziale delle spese militari ne rappresenta un’esemplificazione non proprio irrilevante. Di fronte a tutto ciò è calato un sostanziale muro di silenzio.
Paradossalmente esiste una sorprendente continuità, anche se diversamente declinata, tra i media di regime e quelli antagonisti. I primi focalizzano sguardi e interessi su eventi di cronaca di natura prevalentemente famigliare con gli immancabili istinti pruriginosi a sfondo sessuale; i secondi fissano l’attenzione su quell’insieme di micro-eventi, di natura prevalentemente locale, i quali, di colpo, diventano l’ombelico del mondo. Ad accomunarli è, in sostanza, un’attenzione pressoché assoluta per il localismo e le sue dinamiche al pari di una decisa insofferenza per tutto ciò che rimanda alla politica. Mentre il mondo sta prendendo fuoco, i media di regime non trovano nient’altro di meglio che scrivere su qualche amante diabolico e gli altri su un qualche evento assolutamente periferico. Ora, che una classe politica in piena putrefazione come quella italiana, già se osserviamo l’informazione di regime francese abbiamo un panorama ben diverso, produca un’informazione di questo tipo non deve meravigliare più di tanto. Retroterra coloniale della UE, l’Italia non può che avere un’informazione appropriata al suo ruolo. Scandali, gossip e poco più. Meno chiaro ed evidente il motivo per cui tale pochezza si presenti anche tra le file dell’antagonismo. Meno chiaro il motivo per cui “particolarismo” e “localismo” finiscono con il caratterizzare informazione, pubblicistica e azione di gran parte di quelle forze che si considerano radicalmente antagoniste allo stato delle cose presenti. A fronte di ciò qualche domanda appare legittimo farsela.
A ben vedere, tutto ciò, non è altro che il frutto di una rinuncia che, molto sinteticamente, può dirsi come l’accantonamento di qualunque discorso incentrato sulla politica e il politico. Palesemente gran parte di ciò che si definisce movimento antagonista sembra essere imprigionato all’interno di una dimensione che, per usare un termine classico della teoria leninista, rimane imbrigliata nelle pastoie dell’economismo o, più prosaicamente, dell’immediatismo. Una dimensione che, per sua natura, non può che delegare qualunque ipotesi storico/politica alle classi dominanti considerate, di fatto, le uniche legittimate oltre che capaci ad affrontare la complessità propria di ogni formazione economica e sociale.
Al proposito può considerarsi paradigmatico ciò che si è messo in moto in previsione del vertice europeo dell’11 luglio a Torino sulla questione della disoccupazione giovanile. Da mesi, su quella scadenza, è stato focalizzato lo sguardo e l’interesse di gran parte del cosiddetto movimento antagonista il quale, per altro verso, si è mostrato sostanzialmente disinteressato a tutto ciò che rimandava a una dimensione direttamente politica. Scorrendo gli appelli del “controvertice” è facile notare come la questione della guerra, direttamente connessa alla messa in forma del Polo imperialista europeo, non trovasse alcuno spazio, così come, la stessa identificazione della UE in quanto costituente Polo imperialista, risultasse sostanzialmente ignorata. Sullo sfondo, animi bellicosi a parte, non vi era altro che una logica oggettivamente riformista la quale, a conti fatti, non faceva altro che ipotizzare una diversa declinazione delle politiche di austerità attraverso il varo di politiche sociali meno prone ai diktat estremi del neoliberismo. Arrivando al dunque, sullo sfondo del movimento antagonista, non riemergeva altro che il vecchio sogno keynesiano come se, tale modello e la sua reiterazione, fosse il semplice frutto di una volontà politica e non il punto di approdo di un’esigenza oggettiva storicamente determinata oggi non reiterabile. Una visione idealistica della storia e della politica la quale, a conti fatti, può bellamente ignorare le condizioni storiche e materiali entro le quali opera e agisce. Di fronte alla crisi, allora, scegliere un’opzione piuttosto che un’altra diventa solo un problema di “volontà” nei confronti della quale, il mondo materiale, diventa un’appendice di poco conto.
I frutti amari del postmarxismo, con conseguente abbandono del materialismo storico e dialettico come unica scienza in grado di leggere il presente e soprattutto il divenire, proprio sul terreno della praxis si mostrano per intero. L’esergo posto come incipit del nostro testo non è stato per nulla casuale. La confusione teorica e ideologica che aleggia dentro ciò che si rappresenta come movimento antagonista è grande e, in quanto avanguardie comuniste, non possiamo sottrarci al dovere di combattere, anche sul piano della teoria, le argomentazioni di coloro i quali, oggettivamente, rappresentano un punto di vista piccolo – borghese. Prima di affrontare questo passaggio occorre chiarire un nodo che, se lasciato a se stesso, rischia di alimentare ancor di più i malintesi e le ambiguità che, l’ala sinistra della piccola – borghesia, alimenta tra quote non minimali di subalterni che, da questa, sono attratti. Questo nodo è la questione della violenza.
Indubbiamente una delle attrattive, forse la maggiore, messa in atto dalle aree antagoniste è una certa predisposizione al conflitto di piazza. In questo modo costruiscono, almeno “idealmente”, una certa continuità con quanto, in alcuni casi, si è dato spontaneamente negli ultimi tempi a livello di massa. Indubbiamente, il riot è stata una delle forme di insubordinazione di massa praticata, con una certa intensità, da quelle aree sociali contro cui più forti e avanzate sono le pratiche di neocolonialismo poste in atto dalle classi dominanti tanto locali, quanto europee. Parigi, Atene, Roma, Londra, tanto per citare i luoghi dove questa insorgenza sociale si è manifestata con maggiore radicalità raccontano esattamente come il riot sia diventato qualcosa di profondamente radicato in quote non proprio secondarie di subalterni. Ma, una volta constatato ciò, va anche rilevato come queste pratiche siano ben lontane dall’essere in grado di ribaltare, o anche solo modificare, concretamente i rapporti di forza tra le classi. Nessuno di questi, infatti, è stato in grado di incidere in qualche modo sulla messa in atto delle politiche imperialiste portate avanti dalla UE. In Francia la realtà ci racconta che, tra i subalterni, a farsi maggioranza politica sono i movimenti di ispirazione islamica tra i proletari di pelle scura e i neofascisti del FN tra quelli di pelle bianca. In Grecia la penetrazione neonazista di Alba Dorata dentro i quartieri popolari è un dato di fatto mentre di tutta quella potenzialità rivoluzionaria espressa dalle masse salariate e subalterne all’interno di innumerevoli scioperi generali e conflitti di piazza non proprio irrisori non si ha più notizia. Tutta quella radicalità o tace o si è lasciata catturare dentro un’ ipotesi neosocialdemocratica e riformista. In Italia il governo Renzi, nonostante le aspettative che il 15 ottobre romano aveva fatto nascere, non trova un avversario politico in grado di contrastare i suoi progetti, mentre in Inghilterra è l’estrema destra xenofoba, razzista e fascista a catalizzare, tra gli strati bassi della popolazione, l’opposizione al governo reazionario e conservatore. In poche parole la pratica del riot non ha sedimentato politicamente nulla. La sua azione si è consumata tutta all’interno dell’evento e della sua esposizione mediatica senza lasciare dietro di sé alcun germoglio politico. Tutto ciò testimonia almeno un fatto: la violenza, di per sé, non è un elemento in grado di caratterizzare un movimento politico. Assumere la violenza come dato politico principale significa cadere nella trappola violenza/non violenza entro cui, da sempre, opportunisti e riformisti hanno cercato di imbrigliare le forze rivoluzionarie.
Il problema non è la violenza in astratto bensì la sua “concretezza” che, per i marxisti, significa sempre l’organizzazione della violenza rivoluzionaria all’interno di un progetto politico ben determinato. Se, di per sé, la violenza fosse la cartina tornasole della radicalità di un movimento sociale, la storia del movimento operaio americano sarebbe qualcosa al confronto del quale, gli stessi bolscevichi, apparirebbero come pie educande, ancorché esuberanti e poco convenzionali, di un collegio svizzero. Tutti sanno che le cose non stanno così e che l’uso di mitra, fucili a pompa e dinamite non ha immediatamente a che fare con la prospettiva della dittatura rivoluzionaria degli operai e dei subalterni. Nel corso della sua storia, la classe operaia americana o almeno una sua quota, al fine di raggiungere alcune postazioni contrattuali particolarmente vantaggiose non si è fatta problema nel cercare l’appoggio della criminalità organizzata e dei suoi metodi. Tutto questo ha sicuramente risolto i problemi di alcuni settori operai ma non ha certo fatto avanzare di un solo centimetro la prospettiva della dittatura del proletariato e del socialismo. Da sempre il militare, e questo vale per ogni contesto politico indipendentemente dalla sua dimensione, è per sua natura compreso nel politico e da questo governato. Il militare, in questo caso la pratica della violenza, non può sostituirsi al politico né, tanto meno, sovvertirne il senso. Una logica obiettivamente impolitica la quale, nella migliore delle ipotesi, reitera i vizi del sindacalismo rivoluzionario non può essere modificata da alcuna pratica incentrata sulla violenza. Il sindacalismo può anche essere armato ma sempre di sindacalismo si tratta.
Certo, se la lotta sindacale e la sua radicalizzazione sono il frutto di un’attività spontanea delle masse possono anche fare un salto poiché, dentro quella lotta, le masse possono iniziare a porsi problemi di natura politica ma un movimento che si costruisce su quei limiti e che, al contrario, di quei limiti ne fa il suo punto di forza ha ben poche possibilità di cambiare assetto in corso d’opera. Il problema non sta nella volontà dei singoli, non abbiamo dubbi sulla sincerità rivoluzionaria di questi compagni, bensì sull’impostazione teorica e analitica che fa da sfondo al loro agire. Questa , a conti fatti, li relega nel campo del riformismo. Il problema era e resta la politica. Non è accodandoci a questi che possiamo pensare di condurre la battaglia per il partito.
Ma da dove trae origine tutto ciò? Perché, e non da oggi, quest’ordine discorsivo è riuscito a farsi egemone in non pochi ambiti di ciò che si autorappresenta come movimento antagonista radicale? Perché, all’interno di questo movimento, ogni dibattito sul politico sembra aver perso diritto di cittadinanza? Da dove trae origine questa cortina di ferro calata sopra quel variegato mondo definibile come antagonista? Un mondo che, per di più, in non poche occasioni ha mostrato e mostra una non secondaria disponibilità alla lotta e persino al combattimento ma che, tuttavia, non riesce mai a portare lo sguardo oltre il contingente, l’immediato e l’occasionale. Un mondo che lotta senza assumere però alcuna dimensione propriamente politica. Gli effetti di tale situazione non sono altro che, in gran parte, i frutti maturi e infausti di quel magma teorico che può essere ascritto al pensiero postoperaista. Appare pertanto utile focalizzarne gli aspetti salienti.
La teoria postoperaista, la cui gestazione può essere fatta risalire ad alcune derive interpretative del Movimento del ’77, trova la sua prima corposa, sotto il profilo programmatico, messa a punto nel Manifesto dei 51apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 1982. Questo testo è passato alla storia, soprattutto, come il documento politico che si poneva in aperta rottura con l’ipotesi politico/strategica della lotta armata dando il la alla stagione della dissociazione. Certo, nell’immediato, è stata sicuramente la decisa polemica contro la guerriglia comunista a dare maggior rilievo al documento ma, a uno sguardo un poco più attento, è facile notare come la posta in palio fosse ben più alta e come il significato apertamente collaborazionista e controrivoluzionario andasse ben al di là delle questioni relative alla guerriglia comunista e all’ipotesi della lotta armata come progetto strategico intorno alla quale costruire l’autonomia politica della classe. A ben vedere, infatti, nel momento in cui il Documento dei 51 viene stilato le sorti della guerriglia in Italia sembrano essere già abbondantemente segnate e, effetto mediatico a parte, i 51 non sembrano poter incidere più di tanto nei confronti di un’ipotesi politica abbondantemente in via di esaurimento. Pochi mesi dopo, infatti, pur se in maniera diversa ciò che resta del movimento guerrigliero italiano andrà incontro a una serie di sconfitte che ne segneranno la pietra tombale. Con via Domodossola, la liberazione di Rovigo e il sequestro Dozier si consuma l’epilogo di una storia e un’esperienza politica nata dentro le lotte operaie dell’Autunno caldo che ha cercato, senza riuscirvi, di portare l’assalto al cielo. Ed è esattamente contro l’ipotesi dell’assalto al cielo, piuttosto che contro lotta armata in sé, che prende forma il discorso postoperaista.
Prendendo le distanze dalla lotta armata e adoperandosi attivamente per legittimare le pratiche di annientamento poste in atto dal potere statuale nei confronti dei prigionieri comunisti, i postoperaisti mettono a regime un ordine discorsivo il quale, partendo dalla delegittimazione della lotta armata va abbondantemente oltre. Ciò che nel Documento dei 51 prende forma è l’archiviazione della questione del potere politico, della sua conquista e, come corollario obbligatorio, del problema della macchina statuale imperialista e della sua distruzione. La dissociazione della quale i 51 si fanno portatori va ben oltre la contingenza dei tempi ma si propone l’ambizioso progetto di inibire in maniera definitiva la prospettiva del proletariato in quanto classe storica in grado di farsi classe dominante e, in virtù di ciò, di negare la legittimità politica dell’esercizio della sua dittatura rivoluzionaria. In poche parole ciò che i 51 mettono al bando è la necessità storica di spezzare la macchina statuale borghese e dell’instaurazione della dittatura del proletariato. Ciò che all’orizzonte si profila, benché con un’angolatura di “sinistra”, non è altro che la tesi controrivoluzionaria, propria delle borghesie imperialiste, sulla fine della storia e il conseguente omaggio al modo di produzione capitalista come punto d’approdo, quindi storicamente non superabile, dell’umanità.
Centrale in questo passaggio è stato l’attacco alla marxiana categoria del valore e alla leninianacategoria di imperialismo. Come è noto tutto questo filone considera il lavoro salariato e l’estrazione del plusvalore del tutto inessenziali per l’attuale modo di produzione capitalista poiché, quest’ultimo, più che dal lavoro operaio sarebbe in grado di trarre ricchezza e profitto dalla messa al lavoro generica e indistinta dei corpi e da qualunque genere di loro attività. Per capirsi i processi di valorizzazione si troverebbero tanto in una acciaieria quanto sul lettino dell’analista, tanto nella costruzione di una nave quanto nella fruizione di uno spettacolo teatrale. Attraverso una lettura e interpretazione a dir poco fantasiosa del VI capitolo de Il capitale, dove Marx coglie il passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale, viene teorizzato il passaggio della trasformazione del modo di produzione capitalista da modello industriale, incentrato sulla produzione materiale di fabbrica e poggiante per intero sul lavoro salariato operaio, a un modello postindustriale dove centralità operaia e lavoro salariato si estinguono e al loro posto si sostituisce un capitalismo in grado di valorizzare ogni attività umana. Diventa ovvio, sulla scia di tale ragionamento, che il modo di produzione capitalista si è emancipato dalle sue contraddizioni oggettive poiché al conflitto capitale/lavoro salariato, dove la contraddizione è oggettiva, subentra il conflitto capitale/corpi assoggettati dove la contraddizione si sposta dal piano oggettivo a quello soggettivo.
Sono i corpi, pervasi da un desiderio di liberazione che entrano in conflitto con il mondo del dominio. Da questi presupposti è facile comprendere come, venuta meno l’oggettività del conflitto, si possa tranquillamente eludere, accantonare, estirpare la dimensione storica della lotta di classe del proletariato poiché, mentre in Marx questa è il frutto della contraddizione tra il mondo particolare della borghesia e quello universale del proletariato, nell’ipotesi postoperaista il tutto è giocato sulla pura e nuda contingenza occasionale dettata dalla relazione dominio/dominati. Insomma un po’ come ricorda Roberto Vecchioni: da sempre popoli e padroni/fu lì che tutto cominciò. A perdersi è la dimensione storica del conflitto e, con questa, la sua necessità oggettiva. Del resto non è casuale che la dialettica marxiana e il debito contratta da questa con Hegel sia posta tranquillamente in soffitta mentre, a essere riscoperto, è il soggettivismo spinoziano.
All’interno di tale cornice, ovviamente, non può esservi spazio per la leniniana categoria di imperialismo così come non vi è posto per Lenin il quale ha incarnato il marxismo nell’epoca della fase imperialista. Rimuovere l’imperialismo diventa pertanto obbligatorio per tenere insieme le argomentazioni postoperaiste poiché, continuare a tenere al centro dell’analisi marxiana l’imperialismo, significa continuare a osservare e leggere il mondo avendo a mente le contraddizioni oggettive del modo di produzione capitalista. Significa, venendo al presente, cogliere la tendenza alla guerra come prodotto oggettivo della crisi imperialista. In altre parole significa ritornare a mettere al centro dell’analisi e della pratica politica la dimensione storica e non occasionale che questa si porta appresso. Ma non solo. Porre al centro del dibattito e dell’iniziativa politica la questione dell’imperialismo significa ridare alla classe una prospettiva storica di potere emancipandola dalle strettoie proprie dell’economismo e dell’occasionalismo.
Questo discorso, pur con sfumature e sfaccettature diverse, si è fatto culturalmente egemone finendo con il condizionare l’agire di gran parte dei movimenti antagonisti. Non deve stupire, pertanto, come all’interno di questi movimenti qualunque ipotesi di rottura storica non sia neppure presa in considerazione e come, a conti fatti, l’unica cosa pensabile è una pratica di “antagonismo in permanenza” finalizzato a negoziare, volta per volta, spazi più o meno ampi di autogestione e reddito sociale. In tutto ciò non può esservi cittadinanza per un discorso che ponga al centro le contraddizioni oggettive del modo di produzione capitalista. Significativo il fatto che ,gran parte di costoro abbiano da tempo cessato di parlare di salario e di conflitto capitale/lavoro così come, del tutto estraneo, è il dibattito sul partito e sul rapporto avanguardia/classe. Il che, dal loro punto di vista, è quanto mai sensato. In un mondo post salariale lo stesso concetto di classe finisce per non avere senso e, con questo, anche tutte le problematiche relative alla questione avanguardia/masse. In un mondo pervaso dal dominio, ogni dominato che si ribella è immediatamente tanto classe quanto partito, del resto se il problema non è più conquistare il potere politico e spezzare la macchina statuale imperialista al fine di instaurare la dittatura rivoluzionaria a che serve il partito politico?
Per costoro il soggetto, senza bisogno di una qualche aggettivazione, è colui il quale lotta. Colui il quale mostra di essere in antagonismo con il potere. Un potere la cui declinazione è prettamente foucaultiana, o almeno di tutta la fase in cui Foucault ragiona e lavora sulla microfisica del potere. Non per caso non si parla pressoché mai di potere politico bensì di potere in senso ampio. La lotta per e contro il potere politico è espunta dall’orizzonte teorico e pratico di quest’area. In questo modo tutti i conflitti e gli antagonismi diventano centrali e assumono la medesima valenza. È ovvio che, a partire da simili presupposti, la soggettività politica perde ogni senso e significato e, nella migliore delle ipotesi, diventa semplicemente colei la quale mette in relazione le lotte. In tutto ciò, e non potrebbe essere altrimenti, la questione dello Stato e del potere politico è bellamente posta tra parentesi. Per questi centrale diventa il conflitto e ciò che questo è in grado di sedimentare. Dove è conflitto lì si trova il soggetto e lì, questa la logica che li accompagna, dobbiamo stare. Alla fine tutto torna ma, come sempre, i fatti hanno la testa dura e la materialità finisce sempre con l’avere la meglio anche sulle più sofisticate elaborazioni idealiste. Ma questo non basta. Se, da un lato, bisogna combattere le ideologie piccolo – borghesi in campo proletario, attraverso una battaglia teorica di prim’ordine, dall’altro occorre mettere a punto un progetto politico di medio termine in grado di far fronte alle urgenze del presente.
La questione della guerra, il suo avvicinarsi, l’obiettiva convergenza di democrazia imperialista, nazismo e fondamentalismo religioso impongono a tutte le forze comuniste di lavorare alla costituzione di un fronte comune in grado di lottare contro lo scatenamento della barbarie. La crisi dell’imperialismo e le sue inevitabili derive militariste e guerrafondaie impongono a tutte le avanguardie di classe di unirsi all’interno di un programma politico che si ponga l’obiettivo minimo e immediato di lanciare tra le masse una sistematica attività di agitazione e propaganda sulla tendenza alla guerra, sull’aggressione fascista/imperialista all’Ucraina e sull’obiettiva convergenza degli interessi statunitensi e del terrorismo islamico in Iraq al fine di aggredire la Siria e porre sotto scacco l’Iran. Si tratta anche di iniziare ad arare il terreno in vista di uno scenario a venire dove la guerra diventerà la “contingenza” con la quale tutti saremo obbligati a fare i conti. Al contempo dobbiamo lavorare per mettere in atto una solidarietà di classe e internazionalista con tutte quelle popolazioni aggredite dalla forze dei diversi imperialismi. Dobbiamo dimostrare, agli occhi delle masse, che l’imperialismo è una tigre di carta che può essere vinto e battuto. Dobbiamo, in primo luogo, assumere lo scenario politico internazionale come il vero e proprio terreno di gioco così come è necessario liberarsi, insieme al vizio del localismo, di un eurocentrismo messo in mora dalle trasformazioni stesse del modo di produzione capitalista. Per questo, a nostro avviso, le vicende ucraine assumono una centralità pressoché assoluta. Su quel terreno si gioca molto, per non dire tutto, del nostro immediato futuro.
Non proponiamo alcuna fusione a freddo delle realtà che si richiamano al movimento comunistama, più semplicemente e realisticamente, la messa in atto di un fronte politico di lotta ben delineato e dai contorni chiari. Un “fronte unico” che lavori per rimettere prepotentemente al centro dell’iniziativa di massa la politica e non il suo surrogato. Di fronte al localismo e all’economicismo che ci contorna dobbiamo essere in grado di rimettere in circolo la prospettiva storico/politica del proletariato e dei subalterni. L’assunzione della solidarietà politica alla lotta del popolo ucraino e la battaglia contro la tendenza alla guerra dell’imperialismo possono e devono diventare il terreno di confronto teorico/pratico delle forze comuniste. Possiamo lottare all’infinito per i più svariati e sacrosanti motivi, possiamo anche portare a casa qualche vittoria parziale ma se, mentre facciamo questo, non dedichiamo i nostri maggiori sforzi alla messa in forma del partito alla fine non avremo tra le mani altro che una serie più o meno ampia di tragicomiche conquiste.