La vicenda dell’ex Ilva di Taranto è il requiem con il quale inizieremo il nuovo anno. La cronaca redatta dal Corriere di Taranto [1] del Consiglio di fabbrica svoltosi presso lo stabilimento siderurgico alla presenza del primo ministro Conte ne è, tra le altre cose, la dimostrazione. La sostanza però sta in quelle altre cose tra le quali, a nostro avviso, merita evidenza quanto segue:
1) l’azione di Conte nei confronti dei fatti ad elevato impatto sull’opinione pubblica – non tanto e non solo per la sovraesposizione di cui possono godere sui media, ma per la vasta platea che fisicamente coinvolgono – è sempre più improntata a quella che sembra voler essere una nuova metamorfosi delle narrazione politica, che potremmo definire di populismo paternalistico;
2) quest’ultimo sembra essere la chiave narrativa più adatta per traghettare la conservazione dell’esistente negli anni ’20 del nuovo millennio.
Conte, infatti, nel caso specifico di Ilva ha sostenuto che il partner indispensabile per il progetto abbozzato dal suo governo resta ArcelorMittal. Si rassegnino dunque tutti coloro che si sarebbero attesi, quanto meno, la ricerca di una multinazionale meno speculativa (ma esistono?!?) cui affidare lo stabilimento tarantino, o peggio, i sostenitori di un ritorno diretto dello Stato nell’economia attraverso la nazionalizzazione dell’impianto.
Conte afferma senza alcun fraintendimento che la politica non intende cercare alcuna alternativa alla soluzione di mercato. Il presidente del consiglio s’incarica quindi di esplicitare che la classe dirigente di questo paese ha fatto definitivamente propria l’ideologia ordoliberale del “più Stato per il mercato” senza alcun infingimento di sorta; [2]
3) Morselli, a.d. di ArcelorMittal, conferma l’assioma di Conte esplicitando agli operai presenti al Consiglio di fabbrica che loro sono roba di Mittal. Qui è evidente come la narrazione si sveste dei panni “comprensivi” del paternalismo, per tornare ai più duri rapporti di forza cari ai padroni delle ferriere, in cui a essere contemplato è al massimo un approccio corporativista tra padrone e lavoratori – con i decreti repressione marchiati Salvini a fornire il recinto spinato del perimetro tracciato dall’amministratrice della multinazionale dell’acciaio [3];
4) rapporti di forza che mostrano una fenomenologia operaia, del tutto abbandonata a se stessa, in cui la coscienza di classe è umiliata a tal punto da estinguere anche il mero sussulto di dignità all’interno di una situazione che si profila sempre più priva di vie d’uscita.
A dispetto di quanto sembra suggerire l’autore dell’articolo, non crediamo che, onestà intellettuale alla mano, ciò possa essere imputato ai lavoratori stessi, rei di aver tratto un interesse, seppur misero, dal “bengodi” salariale in voga anche mentre l’azienda andava economicamente a rotoli durante la gestione commissariale.
Tralasciando la deriva culturale per cui, di questi tempi, si fa passare per bengodi una normale remunerazione del lavoro adeguata alla sopravvivenza, l’orizzonte estremamente limitato della classe operaia tarantina e della città che vi ruota intorno è, semmai, conseguenza diretta dell’assenza pressoché totale di qualsiasi spinta propulsiva proveniente dal movimento operaio.
Fatta eccezione per l’encomiabile mobilitazione promossa dal sindacato USB in questi anni, la crisi di Taranto mette a nudo l’assenza di propositività che caratterizza tutte le organizzazioni antagoniste sulla questione.
I lavoratori e i cittadini di Taranto ormai lo hanno capito alla perfezione: non è più sufficiente limitarsi a millantare riconversioni al terziario turistico [4] o chiedere la nazionalizzazione dell’impianto siderurgico.
Per come è andata deteriorandosi la situazione nel corso degli anni, lavoratori e città hanno bisogno di conoscere, non soltanto con quale parola d’ordine uscire dal proprio inferno, ma anche in quale modo, attraverso quale percorso farlo.
In questo specifico ambito il silenzio è assordante sia da parte delle istituzioni in teoria competenti, sia di coloro che dovrebbero indicare una via diversa e possibilmente antitetica allo stato di cose presenti.
Manca insomma una proposta organica sul che fare, che non si limiti a slogan che vanno benissimo in sede di mobilitazione o per i meme su Facebook, ma che mostrano gambe cortissime appena si passa alla critica e al rilancio dei piani provenienti da padroni e palazzi del potere.
C’è da augurarsi che gli anni ‘20 stimolino la consapevolezza per cui, senza idee e studio alle spalle capaci di rendere percorribile il raggiungimento di un obiettivo, anche la più genuina delle mobilitazioni – e già in questo paese ne abbiamo pochissime – è destinata a rifluire nella risacca dell’esistente.
Per quel che ci riguarda, pur consci della massa critica – soprattutto a livello di conoscenza – che un simile impegno richiede, ci siamo già attivati in tal senso con alcune idee e valutazioni che abbiamo abbozzato qui: https://www.citystrike.org/2019/12/28/conte-bis-vs-arcelor-mittal-una-lotta-tra-totani/
Note:
[2] come si verificava ai tempi di Berlusconi e più in piccolo di Renzi, in cui le cordate di potere egemoni nel Bel Paese tentavano di volta in volta di trovare la quadra tra il vincolo esterno europeo e le esigenze di bottega di turno – Fininvest ai tempi del Cavaliere, massoneria cresciuta sulle rive dell’Arno ai tempi del guitto di Rignano –.
[4] su questo argomento specifico crediamo sia necessario sgomberare il campo da ogni illusione, anche del governatore Emiliano: il terziario a vocazione turistica traghetterebbe Taranto dalla padella dei problemi di Ilva alla brace del sottosviluppo della gig economy di Airbnb, Deliveroo e soci. Per qual che riguarda, la soluzione non è trasformare la classe operaia tarantina in una prateria di cuochi, receptionist, camerieri, e pony express di cibo di strada.
Collettivo Comunista Genova City Strike