Jean Luc Melénchon con la France Insoumise si è fermato a un passo dal ballottaggio per le elezioni presidenziali. Ha raccolto più di 7 milioni di voti, se avesse avuto l’appoggio di altre formazioni di sinistra, che si sono presentate da sole, non avrebbe comunque raggiunto l’obiettivo a cui mancavano circa 1 milione di voti. Comunque ha clamorosamente aumentato il consenso raccolto nelle precedenti elezioni e una analisi del voto per aree geografiche dimostra che i voti raccolti sono stati in gran parte ottenuti nelle periferie industriali e nelle zone popolari. Fa eccezione il nord della Francia dove la deindustrializzazione ha colpito duro e nel quale, da anni, il voto era passato dal PCF al Front National che ha mantenuto l’egemonia su un pezzo importante di classe operaia.
Se avesse raggiunto il ballottaggio si sarebbe aperta una partita il cui esito era tutt’altro che scontato. Per quel che valgono, i sondaggi dimostravano che era il favorito in tutti i ballottaggi. Avrebbe potuto vincere sia contro Macron che contro Le Pen. Ovviamente avrebbe poi dovuto dimostrare di saper governare e dare seguito alle promesse e ai programmi, diversamente da quanto accaduto in Grecia, ma la partita sarebbe stata comunque interessante. Le reazioni dei mercati e dei media europeisti alla diffusione dei sondaggi che lo davano in recupero dimostravano inoltre abbastanza bene che il sistema UE era in allarme. Esattamente come la reazione trionfalistica dell’establishment quando si è capito che Macron era in testa dimostrano che il sistema tira un sospiro di sollievo certo della vittoria del candidato liberale sulla Le Pen.
Ma la campagna di Melénchon insegna molto altro. Chiunque avrà potuto vedere come il candidato francese abbia girato per tutta la Francia spesso partecipe di comizi affollatissimi. Mentre gli altri candidati apparivano prevalentemente in televisione o al chiuso dei teatri, Melénchon riempiva le piazze francesi trascinandosi dietro un numero elevatissimo di seguaci. In questi interventi era ben chiaro che il candidato portava avanti una dura critica all’Unione Europea e non escludeva affatto una uscita della Francia dal processo di integrazione. Chi ascoltava Melénchon poteva udire per la prima volta da un leader socialista che il centro e la sinistra non erano potenziali alleati perché schiavi delle banche, che la destra aveva una idea di sovranità totalmente reazionaria e che non rappresentavano nessuna alternativa reale. Il suo pensiero era netto e, il giorno stesso del risultato, lo ha ribadito chiaramente invitando a non votare per Macron né per Le Pen suscitando parecchie polemiche(1).
E’ quindi evidente che la campagna di Melénchon ha avuto il merito di portare alla luce del sole una contraddizione enorme ma sempre occultata. Per una volta, il messaggio di una uscita di sinistra dalla gabbia della UE è stato in grado diventare un messaggio di massa. Un messaggio che è stato fatto proprio da milioni di persone in carne e ossa, non solo da elettori che esprimevano un’opinione.
A lezione da Ernesto Laclau
La campagna di Melénchon ha fatto storcere il naso non solo alla sinistra europeista ma anche a parte della sinistra radicale. In molti ambienti si è fatto finta che Melénchon neppure esistesse (alcuni come Toni Negri hanno addirittura esaltato il candidato socialista Hamon perchè europeista convinto e assertore del reddito di cittadinanza)(2) o si è sottolineato come il candidato proponesse un populismo di bassa lega. Effettivamente la campagna di Melénchon è stata costruita secondo la falsariga delle dalle teorie di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. In questo senso è stata abolita la parola sinistra per concentrarsi su altri temi. Al conflitto destra sinistra si è sostituito il conflitto alto-basso con ampi riferimenti alle questioni sociali e senza nulla concedere alle retoriche razziste e xenofobe tipiche della destra. Sta all’interno di questa scelta anche la simbologia utilizzata, l’uso ricorrente di richiami alla patria e allo Stato Francese, la critica serrata alle oligarchie europee in nome di un recupero di sovranità democratica. Sostanzialmente il candidato socialista ha provato a interagire con la rabbia sociale diffusa che sembrava totalmente a vantaggio della destra reazionaria.
In questo modo ha conteso alla Le Pen il voto delle classi popolari e ha smascherato la nauseante retorica filo UE delle sinistre e dei partiti delle banche.
Per dirla con Laclau, Melénchon ha provato a dare risposte a una serie di domande inevase che innervano l’intero corpo della società schiacciata dalla crisi economica e sociale. Lo ha fatto inserendo come risposta il significante vuoto della propria candidatura(3). Ha forzato la dialettica populista verso sinistra scegliendo a quali domande inevase dare una risposta e scegliendo di darle non a tutta la società ma a una parte precisa (il proletariato senza distinzioni di classe, la piccola borghesia in crisi, coloro che hanno capito che la UE sottrae anche democrazia e capacità di partecipare al dibattito politico). E’ andato quindi oltre Laclau il quale, nel dettare i canoni di una campagna populista, dice con chiarezza che la linea politica proposta non può essere che ambigua per rappresentare uno spettro vincente dal punto di vista elettorale.
Ovviamente questa operazione politica ha dei notevoli limiti di impostazione. Per spiegarli ricorriamo ancora al filosofo argentino che ammette la predominanza della tattica sulla strategia e la centralità del discorso narrativo rispetto alla materialità della collocazione di classe. E’ evidente che un tale modo di impostare la campagna è strettamente legato all’ambito elettorale, alla presenza di una figura carismatica e difficilmente può interagire con un discorso strategico a più lungo termine. Questi limiti sono risultati evidenti in Sanders che, dopo aver sollevato entusiasmi popolari nelle primarie democratiche, una volta sconfitto è ritornato all’ovile, ammettendo la sconfitta e schierandosi con Hillary Clinton. Dietro questa scelta di Sanders vi era l’idea che su basi populiste non si costruisca nessun movimento sociale duraturo ma solamente una narrazione elettorale e leaderistica. E’ su questa contraddizione che la figura di Melénchon può divenire centrale. A caldo, la scelta di non schierarsi con Macron contro Le Pen sembra indicare che, oltre al fatto di aver compreso che i due candidati rappresentano due facce dello stesso sistema di sfruttamento e che nessun avanzamento reale si darà con un governo della destra reazionaria, l’intenzione potrebbe essere quella di provare a mettere a frutto l’avanzata elettorale per costruire un movimento sociale radicato. Se così sarà, l’esperimento sarà in gran parte inedito e molto interessante sarà seguirne gli sviluppi.
Le rotture reali e simboliche
I vari candidati che si sono scontrati in Francia rappresentavano un ampio spettro di opzioni politiche in gran parte classificabili nelle vecchie categorie sinistra-centro-destra ma questa divaricazione non è più esclusiva e non serve quasi più nel discernere le proposte politiche in campo. Un’altra dicotomia potrebbe essere la collocazione in ambito pro o contro la UE. Una terza distinzione può essere fatta attraverso quali settori sociali si volevano rappresentare. Più complicata è una distinzione tra i diversi gradi di populismo espressi dai vari candidati in quanto occorrerebbe dapprima definire esattamente cosa si intende veramente con questo termine sottraendolo all’uso volgare che ne fanno i media.
Una distinzione però è possibile anche in riferimento al grado di rottura con le politiche dell’establishment che si celava dietro ai vari profili politici. Trascurando le forze che hanno raccolto piccoli consensi (dall’estrema sinistra all’estrema destra), si può tranquillamente affermare che esiste una faglia che da un lato univa Melénchon e Le Pen, dall’altro rappresentava il blocco che va da Macron ai socialisti includendo all’interno anche il candidato della destra Fillon.
Questa faglia si è evidenziata la sera stessa dei risultati in cui si è subito delineata una unione tra i socialisti, i gollisti e il candidato Macron in funzione antifascista. Coro da cui si è distanziato correttamente il candidato di France Insoumise scontando anche il distinguo degli alleati del PCF e una posizione sfumata dei sindacati (il sindacato comunista CGT parla apertamente di lotta contro la Le Pen e per una serie di rivendicazioni sociali, posizione dietro la quale si intravede la necessità di smarcarsi da Macron ma contemporaneamente di indicare in Le Pen il nemico principale).
La rottura quindi è radicalmente esposta da due diverse e inconciliabili sponde. Il non schierarsi contro Le Pen significa prendere atto che il neo fascismo in Francia è, più che una causa, un effetto delle politiche neo liberali alle quali si è accodata la sinistra tradizionale. Nessuna unione populista dunque ma la presa d’atto che è stato varcato un limite da cui difficilmente si torna indietro.
Le rotture immaginabili sono due, per quanto incompatibili tra loro. Il socialismo populista contro la xenofobia e il razzismo, la sovranità popolare e democratica contro la sovranità sangue e suolo. Stringersi a coorte con il centro e la sinistra liberale significa in sostanza non fornire alternative reali allo sviluppo e al radicamento della destra fascista. La rottura da sinistra è quindi non solo immaginabile e praticabile ma diventa indispensabile. Il voto realmente antifascista non è più la creazione di un fronte con i liberali ma la presa di posizione netta contro quelle forze la cui azione alimentano il terreno in cui si muovono razzismo e xenofobia. Si tratta, ovviamente, di un salto politico molto elevato che, nell’immediato, spezza il fronte che ha sostenuto Melénchon (dalle rilevazioni pare che una parte degli elettori di France Insoumise sia tentata di votare comunque Macron, una parte si asterrà e una parte addirittura voterà Le Pen) e da questa chiarificazione prova a fornire lo spunto per la creazione di un fronte che non sia solo elettorale ma politico e sociale. Non si trattava quindi di una mera scelta elettorale ma di costruire una alternativa di sistema passando innanzitutto dalla distruzione di ciò che ci ha preceduto ed è autore del disastro. Indica che non vi sono alternative: o la rottura da sinistra o la deriva fascista e xenofoba.
L’Italia non sottomessa?
Ovviamente, nel dibattito italiano, non poteva mancare il parallelo Renzi-Macron o meglio tra il Partito della Nazione vagheggiato da Renzi con i centristi e il movimento civico di Macron. Come tutti i paralleli giornalistici è stupido, non fa i conti con le diverse situazioni oggettive di Francia e Italia, non analizza neppure il contesto politico differente. Ma se questo parallelo, in superficie almeno, funziona è molte più assegnare alle forze politiche italiane agganci con gli altri candidati. La candidatura di destra di Le Pen viene rivendicata soprattutto dalla destra leghista e dai partitini neofascisti in Italia che comunque sono ben intruppati all’interno di una destra più ampia che ne rende il messaggio più sfumato, compatibile con il sistema e meno di rottura se non dal punto di vista simbolico. La destra di Fillon è l’ambito derivante dal camuffamento dei berlusconiani ed è divisa tra i potenziali alleati nel vagheggiato Partito della Nazione e coloro che si salderanno nella destra con egemonia leghista. La sinistra radicale apparentemente sta con Melénchon a costo di limarne i punti fondamentali della linea politica espressa in Francia soprattutto sulla questione dei rapporti con l’Unione Europea. E poi vi è il movimento 5 stelle che è autore di una sintesi tra populismi di destra e di sinistra. Il risultato è tutto tranne che paradossale: esistono due diversi ambiti di continuità politica: la destra moderata che usa Salvini come grimaldello populista, la sinistra che, a vari gradi di autonomia o di presunta alternativa dal PD, non ha nessuna intenzione di proporre quella rottura che si è palesata in Francia. In tutto questo l’unica rottura possibile è quella vagheggiata nel movimento 5 stelle, una rottura populista classica, né di destra né di sinistra, un po’ lepenista e un po’ di sinistra che va via via sempre di più moderandosi soprattutto per quanto riguarda i rapporti con l’Unione Europea e il sistema economico dominante.
Tutte queste differenze sono ovviamente in gran parte derivate da diverse situazioni oggettive. Ma in gran parte derivano anche da diverse situazioni soggettive. Da una parte è vero che la potenziale rottura di France Insoumise è figlia dei movimenti di lotta sindacali contro la Loi du Travail così come il balzo di Podemos in Spagna ha forti attinenze con il movimento 15 M e in Italia non si sono visti movimenti paragonabili per estensione e durata. Dall’altra parte è evidente che il comportamento sindacale in Francia e in Italia è stato molto diverso. La CGT ha guidato un forte movimento di massa contro la riforma del lavoro, la Cgil si è rifugiata in una fallimentare via referendaria. Anche dal punto di vista politico il ritardo è evidente. Comunque la si pensi, il movimento per la Coalizione Sociale è finito ben presto nel dimenticatoio riassorbito senza particolari problemi all’interno delle dinamiche della peggior Cgil, i sindacati di base che lavorano sul conflitto scontano divisioni che spesso vanificano quel minimo di movimento reale che riescono ad esprimere (nei settori della logistica ad esempio), i movimenti sociali sono rifluiti nelle lotte per i diritti civili (pur sacrosanti ma spesso privi di una reale attinenza e dialettica con il conflitto di classe) o si rifugiano in una estetica del conflitto totalmente autoreferenziale e mai in grado di sedimentare organizzazione concreta.
Se alcune tracce del populismo reazionario e xenofobo si possono quindi ritrovare nell’area della Lega Nord e dei partiti di estrema destra, non vi è invece alcuna traccia reale e organizzata di una rottura a sinistra. Il movimento 5 stelle è quindi l’anello mancante in grado di assorbire elettoralmente gran parte della rabbia sociale che non viene incanalata né a destra né a sinistra.
Un movimento reale di sinistra di classe che basi la propria azione su una dicotomia tra il basso e l’alto della scala sociale, che declini la sovranità in senso democratico e popolare e non in senso xenofobo, che non divida i lavoratori in base all’etnia o al colore della pelle è quindi indispensabile ma oggi sostanzialmente assente. Questo movimento deve essere creato al più presto e occorre che ponga fin da subito il problema della rottura politica. In questo senso le elezioni in Francia e il risultato di France Insoumise possono essere utili così come può essere utile capire cosa sta succedendo in Spagna dove Podemos sta svoltando sempre di più su posizioni maggiormente sensate sulla UE(4). Un tale movimento dovrà per forza di cose partire da un livello basso e dovrà assolutamente fare tabula rasa della vecchia sinistra italiana che ancora si attarda a capire cosa succede nelle lotte di potere interne al PD ed è succube di un europeismo totalmente sganciato da ogni reale aspirazione delle classi popolari. Avrà bisogno di un vettore nazionale in grado di veicolare a livello nazionale, anche in forme spurie, idee che in questo momento non trovano spazio nei media e non riescono a uscire da un ambito ristretto di militanti.
Crediamo che, ai primi di luglio, l’apertura possibile della fase costituente della Piattaforma Eurostop dovrà per forza di cose fornire una risposta in questo senso.
Note al testo
- Successivamente Melénchon ha ammorbidito la sua posizione spiegando che Macron e Le Pen non rappresentano una alternativa reale. Rimane quindi una non indicazione di voto ma, il candidato Melénchon potrebbe votare come cittadino per Macron
- L’articolo di Negri sulle elezioni francesi si trova qui: http://www.euronomade.info/?p=8790. E’ interessante notare come per Negri il candidato Melénchon neppure esista e Hamon sia giudicato sulla base di una sola proposta, il reddito universale di cittadinanza
- Il significante vuoto per Laclau è rappresentato da una figura di leader in grado di incarnare sulla sua figura le contraddizioni legate alla necessità di rispondere a domande sociali di natura spesso opposta. Domande che hanno come unica caratteristica quelle di non ricevere risposte adeguate dal quadro politico istituzionale dato.
- Si fa riferimento, in particolare alla posizione del PCE che, unito a Podemos attraverso la coalizione Unidos Podemos, recentemente ha sostenuto ufficialmente la propria posizione contraria alla UE e all’euro. Lo stesso Podemos, in un recente congresso ha vissuto un dibattito tra la sinistra interna di Pablo Iglesias e una destra rappresentata da Inigo Errejon con la vittoria del primo. Posizioni contrarie alle UE si trovano comunque espresse in parecchi movimenti della sinistra di classe in Europa. Tendenza politica in aumento, soprattutto dopo le vicissitudini di Tsipras in Grecia.