Dopo la sconfitta di Cristina Kirchner alle presidenziali argentine e la repentina controsvolta ultraliberista del nuovo Presidente Macri, in America Latina procede incessantemente un processo di distruzione delle esperienze di costruzione del fronte progressista e socialista. In Bolivia è stato recentemente ucciso il viceministro dell’interno Rodolfo Illanes, ufficialmente da un gruppo di minatori in rivolta. In realtà la rivolta è guidata dalla Federazione Nazionale delle Cooperative minerarie e, più che uno sciopero dei lavoratori, si tratta di una serrata padronale contro alcune norme del governo Morales. La serrata sta creando vari problemi in Bolivia e la barbara uccisione del ministro è solo il fatto più eclatante. In Brasile è giunto al termine il processo con cui è stata destituita Dilma Rousseff accusata di corruzione. Il golpe interno all’ex maggioranza brasiliana garantirà il governo all’ex vicepresidente Temer nonostante la resistenza delle reti sociali brasiliane.
In Venezuela la situazione resta tesissima e per il primo settembre è organizzata una manifestazione delle forze di destra e padronali pronte a ripetere gli scontri di piazza con uso di cecchini che portarono alla temporanea destituzione di Hugo Chavez. L’informazione internazionale, con alcune eccezioni, è impegnata in un’opera di disinformazione a sostegno di rivolte spacciate come rivolte popolari.
Le difficoltà dell’intero processo bolivariano progressista sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante i limiti e i ritardi questo processo è comunque fondamentale e ha una forte valenza di classe. Ciò che sta succedendo è una rivolta guidata dalla destra e dall’elite oligarchica neoliberista appoggiata dagli USA. Per aver chiara la situazione basta osservare la natura degli schieramenti in campo: anche nei luoghi come il Brasile dove le contraddizioni sono più evidenti le reti dei contadini, i lavoratori salariati e i poveri stanno stringendosi intorno al PT per resistere al golpe. In Venezuela anche settori della destra moderata non nascondono gli intenti golpisti della destra.
Per capirne di più inseriamo due testi di Geraldina Colotti usciti sul quotidiano il Manifesto sulla situazione in Brasile e Venezuela. Buona lettura:
Dilma ha perso: destituita
Ha vinto il sopruso. Il senato brasiliano ha destituito la presidente Dilma Rousseff per 61 voti a 20. A governare fino al 2018 sarà ora il suo vice, Michel Temer: un golpista, per le sinistre mobilitate dal 12 maggio, quando Dilma è stata sospesa dall’incarico. Un corrotto manovrato dai grandi poteri internazionali, decisi a riappropriarsi delle risorse del paese. È andata in scena una replica in più grande stile del «golpe istituzionale» messo in atto in Paraguay contro Fernando Lugo, nel 2012. Anche allora, a capo di una variegata e traballante maggioranza, Lugo venne disarcionato dal suo vice, Federico Franco. Lì, il pretesto fu un’occupazione di terre repressa violentemente e strumentalizzata a fini politici (il massacro di Curuguaty). In Brasile, si è utilizzato la «pedalata fiscale».
Viene definita così una pratica in uso a tutti i livelli di governo, da quello federale al municipale, che consiste nel farsi anticipare i soldi dalle banche per coprire la spesa sociale e farvi fronte in un secondo tempo. Una modalità che, per quanto incongrua, non giustifica la destituzione di un presidente. Per ben altri interessi privati in atti pubblici è stato aperto un impeachment contro il presidente Fernando Collor de Mello, il primo nella storia del Brasile e dell’America latina.
Lo scandalo scoppiò nel 1992 a seguito delle dichiarazioni del fratello di Collor che svelò uno schema di riciclaggio di denaro e tangenti diretto dal tesoriere della campagna elettorale del presidente. Collor fu obbligato a dimettersi da una folle inferocita e vestita di nero: 750.000 persone che sfilarono al grido di «Impeachment subito». Dopo la destituzione, Collor se ne andò a Miami, ma dal 1994 iniziò la sua riabilitazione giudiziaria, fino alla ripresa totale degli incarichi pubblici. Il suo nome compare nuovamente nella mega-inchiesta Lava Jato, che indaga sull’intreccio tra affari e politica dell’impresa petrolifera di Stato, Petrobras.
Un’indagine dal taglio politico che ha messo soprattutto alla berlina il governativo Partito dei lavoratori (Pt), lasciando in ombra il grosso della corruzione, che coinvolge un altissimo numero di parlamentari e senatori, pronti a giudicare Rousseff. La presidente non è mai stata coinvolta in alcuna inchiesta e ha professato la sua innocenza anche dalle accuse di aver truccato il bilancio. La sua appassionata autodifesa in Senato ha suscitato applausi e commozione, ma non ha scalfitola decisione dei senatori, né potuto cambiare un copione già scritto. «È un golpe parlamentare che rientra nella strategia del governo degli Stati uniti di destabilizzare le democrazie popolari dell’America Latina», ha dettoFrei Betto, uno dei principali esponenti della Teologia della liberazione brasiliana.
Betto, amico di lunga data di papa Bergoglio, ha trasmesso a Dilma un messaggio di sostegno del papa, evidentemente caduto nel vuoto. «Prima – ha ricordato il teologo – hanno deposto Zelaya in Honduras, poi Lugo in Paraguay. E adesso Dilma in Brasile, dopo aver fatto eleggere Macri in Argentina e fatto pressioni contro Maduro in Venezuela. Il processo golpista mira a disarticolare il Mercosur, l’Alleanza bolivariana, la Celac e l’Unasur».
La prima donna presidente del Brasile, non sarà però inabilitata dagli incarichi pubblici per 8 anni come prevede la Costituzione in caso d’impeachment: la votazione, stralciata dall’altra, le è stata sfavorevole, ma non con i 2/3 richiesti. Per i legali di Dilma, che ora ricorrerà alla Corte suprema, si è trattato di una «condanna a morte politica». La stessa che si vorrebbe comminare, per via giuridica, al suo predecessore Lula da Silva, inseguito dai giudici di Lava Jato. Lula, che si è candidato alle prossime presidenziali, risulta ancora favorito nei sondaggi. Recentemente ha denunciato all’Onu di essere vittima «di una persecuzione giudiziaria» a fini politici. Alla vigilia del voto finale, Lula ha scritto una lettera dai toni analoghi a quelli di Frei Betto, indirizzata all’ex presidente argentina, Cristina Kirchner e al presidente venezuelano Nicolas Maduro, che le destre vorrebbero revocare. Ieri, Maduro ha annunciato la rottura delle relazioni con il Brasile e così ha intenzione di fare anche il suo omologo boliviano Evo Morales.
Anche ieri vi sono stati scontri e cariche della polizia e diversi arresti. I movimenti popolari continuano a manifestare in diverse città del paese al grido di «Fora Temer». Quello che si avvia ad essere il 37° presidente della repubblica e che dopo l’incarico si recherà al G7 in Cina, ieri si è fatto sentire con un breve messaggio alla nazione in cui promette che il suo «sarà un governo di pacificazione nazionale». Un governo di tutti uomini, bianchi, ricchi e corrotti, in un paese composto in maggioranza da donne, da neri, indigeni e da afrodiscendenti. E da poveri. A loro, Rousseff e prima Lula avevano rivolto buona parte delle politiche pubbliche, a partire dal programma Bolsa Familla che ha tolto dalla povertà 47 milioni di persone. Priorità cancellate dal gabinetto Temer, che ora chiuderà le porte ai Brics, alla cooperazione e all’integrazione con l’America latina.
Il manifesto on line 1/9/2016
Moderati denunciano: guerra civile il 1° settembre
Guerra civile in Venezuela? La denuncia arriva anche da settori democratici dell’opposizione, preoccupati per il rischio di un bagno di sangue. Le destre hanno annunciato per il 1° settembre «la presa di Caracas» e la tensione è alta. I leader di opposizione hanno mobilitato tutti i loro sponsor all’estero, dagli Usa all’Europa, passando per l’Organizzazione degli Stati americani (Osa), nella persona del Segretario generale Luis Almagro. Sul modello di quelle cubane, le «dame in bianco», capitanate da Maria Machado e da Lilian Tintori (moglie del leader di Voluntad Popular, Leopoldo Lopez, in carcere), hanno cominciato a marciare in alcune città del paese: ma con scarso seguito, benché circolino le laute «tariffe» pagate a comparse e figuranti pronti per l’occasione.
Sono stati diffusi falsi appelli alla diserzione di alti circoli militari. L’intelligence ha avuto un gran daffare nel prevenire tentativi di travestire da chavisti alcuni giovani paramilitari. Una coppia di oppositori, impiegati nella grande impresa Polar, e conosciuta per i frequenti incitamenti a uccidere il presidente, è stata fermata con il portabagagli pieno di divise delle Forze armate e armi. All’ex sindaco Daniel Ceballos – fotografato con il passamontagna a capo delle violenze di piazza del 2014 – sono stati revocati gli arresti domiciliari.
Dati i precedenti – dalla provocazione dei cecchini durante il golpe contro Chavez del 2002 a Puente Llaguno, alle violenze post-elettorali del 2013 e alle «guarimbas» dell’anno successivo – potrebbe succedere di tutto. E’ cominciata una settimana di allarme e incertezze. Nel suo editoriale della settimana, Miguel Salazar, un oppositore «indipendente», ha invitato l’opposizione «moderata e maggioritaria» nella Mud a denunciare i piani sovversivi, lasciando di lato l’opzione violenta anche quando questa sembra la via più rapida di fronte «al fallimento della via istituzionale». Il progetto per il 1° settembre – ha scritto – è analogo a quello del 2014, e prevede «che la marcia venga appoggiata da uno sciopero dei camionisti, da Fedecamaras e Confcommercio e dalla trasformazione delle code per la spesa in polveriere». Un modello già visto durante il colpo di stato di Carmona Estanga, capo della locale Confindustria, durato solo 48 ore per la reazione di massa che ha riportato al timone il presidente eletto. Allora fu un golpe di palazzo e delle élite, supportato dal silenzio dei grandi media privati.
Anche in questo caso si tratta di un’azione delle classi agiate e dei settori che ne appoggiano gli interessi, dentro e fuori il paese. E che contano, come hanno dimostrato con la vittoria elettorale alle parlamentari del 6 dicembre. La differenza è, però, che questa volta si cerca di mettere in scena una rappresentazione di piazza, per indicare all’esterno che la «dittatura» è al collasso e richiede un intervento forte. Nuovamente, il modello è quello descritto dal famigerato manuale di Gene Sharp che ha ispirato le «rivoluzioni arancione» e che abbiamo visto anche durante le violenze di piazza del 2014: gruppi di «pacifici manifestanti» provocano le forze dell’ordine, poi entrano in campo i professionisti armati e all’occorrenza i cecchini (43 morti e oltre 850 feriti da proiettili, prevalentemente tra le forze armate, nel 2014).
Intanto, impazza la guerra dei media e, tra un pubblico appello «alla pace», un’intervista ai media stranieri, e un’intercettazione in cui i toni cambiano radicalmente, capita che qualcuno confermi quanto detto dagli analisti di sinistra in merito alla «guerra economica» e agli attacchi contro l’economia venezuelana. Ha affermato Freddy Guevara, dirigente di Voluntad Popular: «Il boicottaggio economico fa parte di un insieme di azioni. Chi nega che qui ci sia una guerra economica, mente».
Il manifesto del 30/8/2016