Saitō 1 vs Saitō 2. Ecologismi a confronto

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Introduzione

Kohei Saitō, professore universitario e ricercatore giapponese è diventato recentemente la nuova star del pensiero ecologista e marxista. Ricercatore impegnato nella pubblicazioni degli inediti e degli appunti di Marx ed Engels (MEGA), autore di numerosi libri incentrati sul pensiero ecologista e sui rapporti tra ecologismo e marxismo. In Italia molti dei suoi lavori non sono tradotti a differenza di due testi: a) L’ecosocialismo di Karl Marx (editrice Castelvecchi, 2023), b) Il Capitale nell’antropocene (editrice Einaudi 2024).

In questo saggio esamineremo i due testi mettendone in evidenza le continuità e le differenze. Approfondiremo anche i rapporti sempre più stretti che intercorrono tra la teoria del valore-lavoro come espressa nel Capitale di Karl Marx e il pensiero ecologista predominante. In particolare ci riferiremo al pensiero ecosocialista presente in autori come John Bellamy Foster e Ian Angus confrontandolo con il pensiero ecologista prevalente lontano anni luce da un marxismo considerato come una disciplina fondamentalmente antropocentrica e totalmente disinteressata (storicamente) a un discorso sulla scarsità delle risorse naturali.

Noi crediamo a un marxismo basato su una solida applicazione del pensiero scientifico e non “scientista”. In tal senso riteniamo che la lotta per salvare il Pianeta dai disastri ecologici sia una parte fondamentale della lotta per introdurre nuovi rapporti di produzione nel Mondo che portino al riscatto delle classi subordinate e dei popoli oppressi nel Pianeta.

Giustizia climatica e giustizia sociale sono più che mai indissolubili nella lotta dei comunisti.

Antropocene e capitalocene

Recentemente, una sottocommissione dell’Unione Internazionale delle Scienze Geologiche, ha bocciato in via ufficiale l’uso del termine “antropocene” per definire una nuova era geologica del Pianeta. Al di là delle motivazioni che hanno portato a tale scelta, il termine è entrato nel linguaggio comune da molti anni. In particolare il termine è utilizzato in diversi importanti libri dello studioso statunitense Ian Angus.

Collaboratore di diverse riviste che si occupano di problemi ecologici con uno sguardo marxista(1), Angus si è dimostrato più volte consapevole che l’utilizzo di un tale termine possa portare a diverse complicazioni. Soprattutto a causa del fatto che tale definizione porti a considerare l’attuale crisi ecologica come creata dall’umanità intera senza distinzioni(2). Rifiutando tale tesi, Angus è chiaro in ogni suo scritto dove esprime direttamente che tale interpretazione è da considerarsi errata in quanto l’attuale stato di crisi è legato direttamente non ai compartimenti di una umanità in senso generico, ma al sistema di produzione capitalistico.

Questo concetto, pur quanto negli ultimi anni abbia conosciuto un riconoscimento diffuso, non è comunque condiviso da gran parte del movimento ecologista globale. Le motivazioni di questo disconoscimento sono molteplici. Una teoria ecologista non socialista non è comunque, necessariamente, una teoria moderata o pragmatica. Esiste infatti un pensiero ecologista radicale che rifiuta le idee di Marx in quanto sbagliate o poco adeguate pur muovendosi all’interno di una cornice di rivendicazioni definite rivoluzionarie.

In generale si potrebbe affermare che l’ecologismo che fa a meno di Marx, si divide in due grandi tronconi. Da un lato coloro che ritengono possibile invertire la rotta della crisi climatica con provvedimenti che lasciano invariata la natura del sistema di produzione capitalistico, dall’altro coloro che ritengono necessaria una rivoluzione che abbracci la natura come concetto centrale, che superi ogni concetto di superiorità dell’umano nel confronto con le risorse naturali e con le altre specie viventi.

Paradossalmente, pur arrivando a soluzioni e a ipotesi divergenti, l’ecologismo liberale e l’ecologismo radicale e libertario condividono comunque la stessa idea di fondo: per loro il marxismo e, conseguentemente, tutto il mondo socialista novecentesco, sarebbero degli arnesi completamenti inutilizzabili al giorno d’oggi. Lo sono perché tutta la teoria di Marx sarebbe viziata da antropocentrismo e prometeismo, non possedeva nessuna idea della limitatezza delle risorse naturali e avrebbe propagandato uno sviluppo delle forze produttive a livello globale come positivo e inarrestabile.

Sulla base di questi concetti di fondo, tutto il socialismo realizzato del secolo scorso fino all’attuale corso della Cina Popolare sarebbe responsabile di disastri ecologici superiori a quelli determinati dal sistema capitalista nel resto del Pianeta, o per lo meno non dissimili.Saitō 1 ovvero “L’ecosocialismo di Karl Marx”

 Lo studioso e filosofo giapponese appartiene, di fatto, alla tradizione degli ecologisti marxisti. La sua analisi del problema è quindi strettamente legata allo studio del Capitale. In linea con un pensiero ben rappresentato dal citato Angus ma anche e, soprattutto, ben rappresentato dall’area teorica legata alla storica rivista marxista statunitense “Monthly Review” attualmente diretta dallo studioso John Bellamy Foster. L’importanza del pensiero di Saitō è comunque rappresentata dal fatto che, con enorme precisione, almeno nei suoi primi lavori, nella sua analisi prova a collegare, in modo sostanzialmente ortodosso, il pensiero di Marx (nei suoi aspetti di filosofo e di scienziato economico) alla crisi ambientale. In sostanza, il libro di Saitō prova ad inserire in una cornice teorica ben precisa il concetto più volte espresso in slogan, scritte, cortei: “l’ecologismo senza la lotta di classe è giardinaggio”(3). Il punto di partenza sono uno studio approfondito dei testi di Marx e in particolare del Capitale, soprattutto alla luce delle ricerche sugli inediti e sugli appunti che costituiscono il corpus di studi chiamato MEGA.

L’ecosocialismo di Karl Marx” è comunque un testo complesso. Saitō evita quasi totalmente di ricapitolare tutti i problemi legati all’attuale crisi ecologica sostanzialmente dandoli per scontati. Ed evita altresì, almeno in questo testo, di proporre soluzioni. Tutti i suoi sforzi sono diretti a inserire in una cornice teorica il rapporto esistente tra il campo di applicazione del capitalismo in ambito economico e le questioni relative e collegate al rapporto tra Uomo e Natura. Saitō sostiene che, almeno fino alla pubblicazione del “Manifesto del Partito Comunista”, il pensiero di Marx sulle questioni ambientali fosse alquanto lacunoso. Si preoccupa comunque di rintracciare, anche nei primi lavori filosofici una serie di avvisaglie del fatto che Marx, in realtà, aveva ben presente il problema delle risorse naturali e del rapporto tra Uomo e Natura. Per Saitō, il salto di qualità sulle questioni ambientali avviene con la stesura del Capitale e con una serie molto lunga di studi scientifici sui problemi legati alla produzione agricola che Marx condusse per lunghi anni. Studi che non hanno ricevuto adeguata pubblicazione in quanto, per Saitō, Marx pensava di inserirli nella seconda e terza parte del Capitale, che però non arrivò a completare.

Molte delle affermazioni sulle reali volontà di Marx, pur ampiamente ribadite dall’autore, possono sembrare molto idealizzate. Il fatto che Marx, oltre che uno studioso fosse anche una sorta di profeta è una cosa che ci interessa assai poco. Quel che ci interessa è in realtà, che nelle ricerche di cui faremo cenno in seguito, più che le intuizioni di tipo miracoloso ci pare che sia in funzione una cosa ben più importante: il metodo dialettico di Marx. Ciò che emerge è fondamentalmente che il filosofo tedesco, nel suo studio del cosiddetto “metabolismo sociale” (il rapporto dei lavoratori all’interno del sistema di produzione) non poteva assolutamente non considerare il contesto in cui avvenivano questi rapporti. E in tale contesto, il rapporto con il metabolismo tra l’Uomo e la Natura non poteva che essere di enorme interesse.

Analizziamo ora separatamente le due parti principali del libro iniziando con la parte relativa agli studi di Marx sull’agricoltura e successivamente la parte (molto più corposa) relativa al collegamento tra la legge del valore e le questioni ecologiche.

Gli studi sulla chimica agraria e sulle questioni della deforestazione

Marx nutriva un particolare interesse per il chimico tedesco Justus Von Liebig. Oltre che uno scienziato, Liebig era un imprenditore nel ramo dei concimi e dei fertilizzanti. I suoi trattati relativi alla questione della fertilità del suolo erano, in gran parte, viziati da un conflitto che oggi definiremo di interesse. Lo studio di Liebig(4), per Marx, era anche legato alla questione relativa al malthusianesimo e al controllo della popolazione: come noto Marx considerava questa teoria (che in quel tempo era molto diffusa) assolutamente sbagliata e arrivò al concetto teorico di “esercito industriale di riserva” spinto, almeno in parte, dalla volontà di confutare quella tesi. Liebig, si concentrava sui rendimenti decrescenti delle terre agricole. All’inizio, per Marx, l’interesse per Liebig era, in gran parte, mediato dalla constatazione che tali ragionamenti potessero aiutare la diffusione delle teorie di Malthus. Nel libro di Saitō sono riportati per esteso vari appunti presi da Marx sulle varie stesure successive dei trattati di Liebig. In particolare, nel corso del tempo, l’interesse di Marx aumenta così come aumenta la condivisione delle idee di Liebig che si specificano meglio nelle successive versioni dei suoi trattati.

Per Marx era la conferma del concetto che oggi trova la sua definizione in “frattura metabolica” tra Uomo e Natura. Il punto di partenza per questa teoria è quindi riscontrabile in questi appunti dove Marx annota che Liebig spiega come l’allontanamento del consumo di cibo tra il luogo di produzione (le campagne) e il luogo di consumo (le città e i centri che si sviluppano attorno alla crescente industria) priva il terreno dei nutrienti necessari, finendo come scarto. L’analisi di Saitō scende qui nei particolari con estrema precisione. Di particolare interesse è anche la questione degli studi che Marx compie analizzando la “teoria alluvionale di Fraas”(5). In questo caso, l’interesse si sposta verso il fenomeno della desertificazione che aveva colpito la Mesopotamia. Marx è fortemente interessato a comprendere il rapporto tra questo fenomeno e i cambiamenti climatici che avevano causato un disastro ecologico enorme.

La legge del valore e il metabolismo sociale

Come detto si tratta della parte più corposa del testo in esame. Essendo anche la più complessa è necessario procedere per passi per capirne la profondità all’interno della complessità.

I dati più interessanti colti dall’analisi di Saitō ci sembrano i seguenti:

1) esiste un metabolismo (scambio) tra Uomo e Natura che rappresenta un elemento trans-storico (cioè indipendente dalle contingenze);

2) nella fase di produzione esistono altri elementi che possono anch’essi essere considerati trans-storici; in particolare il fatto che le merci prodotte, in ogni epoca storica debbano essere scambiate e allocate. L’allocazione di tali merci non può fare a meno del valore d’uso. Ciò che cambia con l’avvento del capitalismo è l’introduzione del valore di scambio;

3) la questione del valore di scambio come valore necessario e quindi tipico dell’età e del sistema in questione (non trans-storico) comporta la questione dell’alienazione e della reificazione. La merce attraverso il valore si soggettiva (si produce per il valore di scambio) il lavoratore si trasforma in oggetto (merce).

Da queste tre considerazioni abbastanza semplici derivano una serie di conseguenze di non poco conto. Da un lato, il capitalismo non può fare a meno di estrarre plusvalore dai lavoratori per ottenere maggiori profitti. Tale valore si ricava attraverso un pluslavoro. Ciò è conseguente all’idea che è il lavoro astratto a generare il valore di una merce generica e questo valore deriva esclusivamente dal lavoro misurabile in unità orarie. La legge del valore espressa da Marx nel Capitale non contempla affatto le materie prime o la Natura in quanto tale, se non come capitale costante (fisso e circolante). Lo sfruttamento nel metabolismo sociale è del Capitale sul lavoratore. La Natura quindi non entra nel rapporto di valorizzazione ma entra nel processo complessivo di produzione attraverso le materie prime, attraverso il materiale di sostentamento e di riproduzione della forza lavoro, nel fornire il materiale per la produzione attraverso le energie naturali, il suolo dove eseguire le attività. Lo sfruttamento del lavoratore attraverso il lavoro astratto influenza il metabolismo tra Uomo e Natura.

La legge del valore di Marx in altri termini si esprime in questo modo. La merce ha un valore che è la somma di tre fattori: Il capitale costante C (somma del capitale fisso-macchinari- e del capitale circolante-materie prime); il capitale variabile V (il salario dei lavoratori), il plusvalore S.

W = C + V + S

Dal punto di vista del capitalista il rapporto di subordinazione del lavoratore nel ciclo produttivo si estrinseca attraverso il saggio di plusvalore Spv che si calcola attraverso il rapporto tra il plusvalore e il salario

Spv = S/V

Questo parametro da una stima di quante ore del lavoro vengono, in percentuale destinate al lavoratore e quanto al guadagno.

Ma la questione principale è il saggio di profitto calcolato dividendo il plusvalore per il totale delle spese (C+V)

Sp = S/(C+V)

L’aumento del saggio di profitto è una esigenza irrinunciabile per un padrone, non per bramosia ma per strette questioni di esistenza in un regime di concorrenza. Contemporaneamente il padrone deve aumentare il capitale costante C (che è un costo). Ma il suo deve essere un aumento in volume (materiale a disposizione per la produzione) e non in massa (quantità di valore). Per risolvere questa discrepanza, aumentare C spendendo di meno, la parte di C relativa alle materie prime deve essere trattata in modo da aumentare quantità e qualità diminuendone il costo in percentuale. Nel costo percentuale esiste anche lo smaltimento dell’eccesso, dei rifiuti, la riallocazione della materia utilizzata. È qui che rientra in gioco la Natura e il suo sfruttamento capitalista. E ovviamente qui la questione dello sfruttamento delle risorse naturali si intreccia alla questione del possesso e della disponibilità tracciando una linea di condivisione tra sfruttamento del lavoro, sfruttamento della Natura, imperialismo e guerra.

La legge del valore e la sua possibile incompletezza

Il dibattito sulla legge del valore così come concepita nel Capitale e l’emergenza della crisi climatica continua a essere, in campo marxista, oggetto di dibattito. Da un lato, alcuni marxisti radicali concepiscono l’idea che i concetti di base sul valore di Marx debbano essere rinnovati radicalmente in quanto andrebbe inserita anche una parte relativa alle risorse naturali. Sottotraccia si svolge anche un secondo dibattito relativamente alla necessità assoluta di rifiutare ogni concetto di crescita e di sviluppo delle forze produttive in quanto sostanzialmente incompatibili con la tutela delle risorse ambientali.

Il primo dibattito si concentra sulla definizione di capitale costante, sostanzialmente derubricato alla definizione di tecnologia di produzione e non alle materie prime. Per una parte degli ecosocialisti il concetto di capitale costante comprende la Natura e le risorse in senso ampio essendo costituito dalla somma del capitale costante fisso (tecnologie, macchinari) e circolante (materie prime), per altri le risorse sarebbero sostanzialmente escluse dal pensiero marxista perché l’analisi del Capitale non poteva o non voleva considerare la finitezza di tali risorse come una questione centrale. Su questo tema si sono espressi vari autori e anche alcuni capi di stato di governi progressisti come Gustavo Petro in Colombia(6). Secondo tali autori Marx andrebbe rinnovato aggiungendo addendi alla legge del valore considerando a parte il valore delle risorse naturali. Ciò fa scontrare con un problema teorico di non poco conto: sostanzialmente la legge del valore somma parametri che Marx trasforma in ore di lavoro concreto (valore d’uso) e astratto (valore di scambio). Una eventuale correzione della legge la stravolgerebbe in quanto si porrebbe, innanzitutto, il problema di stabilire un parametro con cui calcolare il valore degli elementi naturali, dagli alberi, ai minerali, all’acqua, all’ossigeno per respirare.

Noi pensiamo che ciò non aiuti alla risoluzione di alcun problema e riteniamo che Marx abbia già inserito tali risorse nel concetto generale di Capitale Costante considerando il capitale circolante. In questo modo Marx trova la possibilità di non fare conclusione tra il valore d’uso e il valore di scambio, considera nel capitale costante quelle risorse che entrano nella produzione con un costo e vanno a determinare il valore complessivo, mentre non inserisce le risorse di cui abbiamo bisogno per produrre e che diamo per scontate in quanto forniscono valori d’uso sostanzialmente gratuiti (ad esempio l’ossigeno per respirare).

Il secondo dibattito è quello relativo alla assoluta incompatibilità tra una società basata sul valore di scambio e l’ambiente. Questa discussione porta a considerare come sostanzialmente incompatibile con la salvaguardia ambientale ogni politica che vada a intervenire con opere di geoingegneria sui problemi ambientali. Il concetto è, per certi versi, ortodosso. La legge del valore in un sistema capitalista, impone sempre la ricerca del massimo profitto: ogni azione di salvaguardia che determina azioni di tipo industriale per risolvere o attenuare un problema è sostanzialmente inutile se non aboliamo il concetto di profitto e se non si ritorna al valore d’uso come valore assoluto con il quale organizzare scambi e allocazione dei prodotti. Ciò significa ipotizzare che l’ecosocialismo si sostanzia fondamentalmente in un progetto di decrescita complessiva che Saitō, nel suo ultimo libro tradotto in Italia da Einaudi “Il Capitale nell’antropocene”, definisce “decrescita comunista” o “comunismo della decrescita”. A ben vedere, questa ipotesi di studio è decisamente radicale, non esce dai canoni di un ragionamento marxista e quindi va analizzata nei suoi aspetti.

Saitō 2. La “decrescita comunista”

Il Capitale nel’antropocene” è un libro scritto con stile e metodo decisamente opposto rispetto al testo che abbiamo analizzato in precedenza. Saitō sceglie qui una via meno teorica e più diretta, prova ad entrare direttamente nel dibattito con uno stile meno accademico e più giornalistico. L’inizio è un attacco al cosiddetto “green washing” e in generale all’idea che il problema ambientale e il rischio concreto di un incrudelimento della crisi climatica si possano affrontare con una somma di iniziative individuali. In tal senso, Saitō introduce, in maniera sostanzialmente opportuna, il concetto legato alla demonizzazione dei comportamenti individuali considerato nei suoi aspetti ricattatori e individua, anche qui con acume, la questione della creazione di un ecologismo da classi medie, un ecologismo per ricchi, colti e occidentali. Oppure per eccentrici.

Nella seconda parte smonta, anche qui con acume, il cosiddetto ecologismo liberale e capitalista. Sostanzialmente basato sull’esternalizzazione del problema verso le periferie del Pianeta, sulla monetizzazione delle politiche ecologiche attraverso strumenti finanziari, sulla costruzione di fantasiose opere di geoingegneria ambientale.

Successivamente analizza le diversità tra gli approcci che lui considera in campo per la salvaguardia ambientale. Sostanzialmente l’ecologismo capitalista fallimentare che ha appena descritto e quello che lui definisce il “maoismo climatico” cioè una miscela tra ingegnerie di tutela ambientale e capacità coercitiva di farle rispettare avendo in mente l’esempio cinese degli ultimi anni.

L’ultima parte del libro di Saitō riguarda quindi una proposta che è quella chiamata “decrescita comunista”. È una proposta formulata con una forte dose di confusione sia lessicale che argomentativa. Pur senza esplicitare, Saitō da per scontato che ogni forma di sistema produttivo basata sull’estrazione del plusvalore, senza distinzioni tra sistemi molto diversi come quello cinese e quello occidentale, sia incompatibile, non solo in prospettiva, ma nell’immediatezza dei compiti fondamentali da eseguire, per salvare il Pianeta. L’autore, si rende conto che la decrescita sia normalmente intesa come una disciplina formalmente compatibile con il capitalismo, la quale, al netto degli attuali rapporti di forza economici nel Mondo, non farebbe altro che deprimere gli sforzi della parte più debole del Pianeta che ne pagherebbe il conto più salato. Ciò che viene qui proposta è una diversa forma di decrescita, compatibile solo con il completo ribaltamento dei rapporti di produzione a livello mondiale.

Come questo possa coniugarsi con la necessità di agire in fretta e non rappresenti una prospettiva fortemente utopica nell’immediato lo lasciamo al dibattito anche se ci ritorniamo nelle conclusioni.

Esempi di transizione ecologica non capitalista in Cina

Lasciamo dunque a Saitō la definizione di “maoismo climatico” ed analizziamo con alcuni esempi concreti esperienze di transizione ecologica reali, concentrandosi sulla Cina odierna. Recentemente, la rivista Tricontinental(7) ha tradotto un lungo testo che riporta alcuni esempi di azione concreta concentrandosi su tre aspetti:
1) il recupero ambientale di una zona dello Yunnan cinese in particolare riferimento alla questione del lago Erhai;

2) lo sviluppo agricolo sostenibile,

3) lo sviluppo della mobilità elettrica in Cina.

Rimandiamo ad una lettura attenta al link per approfondimenti. In questa prima parte affrontiamo comunque il contesto generale in cui si situano queste azioni politiche. Stiamo parlando della Cina che affronta il tema dello sviluppo, della salvaguardia ambientale e della necessità di una maggiore multilateralità nelle scelte decisive sul Pianeta, a distanza di circa 30 anni dal periodo di “riforma e apertura” che ha caratterizzato la guida di Deng Xiao Ping. Periodo che ha posto le basi per la risalita e lo sviluppo impetuoso della Cina nell’ultimo periodo storico. Sviluppo che, come tranquillamente ammesso nei testi in esame, ha creato anche una serie di problemi economici, sociali e ambientali che l’attuale corso cinese cerca di affrontare.

Lo Stato cinese, pur governato dal PCC in maniera continuativa ed estesa, è un paese la cui natura si presta a interpretazioni diverse. Per alcuni si tratta di una forma autoritaria di capitalismo, per altri si tratta di un sistema socialista di mercato.

Ciò che è certo, in quanto ammesso anche da coloro che considerano la Cina il proprio principale nemico strategico, è il quadro di conquiste ottenute negli ultimi anni, dallo straordinario risultato ottenuto in termini di riduzione della povertà fino a l’impetuoso sviluppo tecnologico e scientifico. A questi dati vanno affiancati anche i risultati ottenuti in campo ambientale. Anche in questo caso i dati non sono così controversi, a livello internazionale la considerazione della Cina come un esempio virtuoso è oggi ampiamente dimostrata.

Prescindendo comunque dalla natura del governo e dello Stato cinese, diamo per scontato quella che appare, almeno a uno sguardo preliminare, come la contraddizione principale delle politiche del PCC. La pretesa cioè di ottenere ciò che sembra impossibile: una transizione lenta verso il socialismo attraverso il capitalismo e attraverso una gestione molto particolare dell’utilizzo del plusvalore ottenuto dalla produzione di merci e beni, sia rivolte al mercato interno che a quello esterno.

 

La parola chiave a cui sostituiamo il concetto evanescente di “maoismo climatico” è pianificazione. Negli esempi che citiamo in apertura del capitolo è questo il concetto chiave delle opere che si possono considerare come esempi di geo ingegneria ambientale che vengono affrontati. In tutto questo non esiste alcuna startup capitalista che studia il metodo per coltivare riso e, insieme, allevare gamberi in modo da diminuire l’impatto ambientale della monocultura di riso e proporre una nuova linea di cibi biologici. Non si vuole lanciare nessun prodotto che si fregi di qualche gagliardetto carbon free in modo da vendere un prodotto di moda, raccattare lauti finanziamenti pubblici in virtù della necessità di creare una presunta transizione ecologica. Ma l’azione consapevole e pianificata di un governo che, in virtù di un ragionamento scientifico, politico e di lunga durata ha deciso che la coltivazione mista serve a diminuire l’uso di fertilizzanti e di pesticidi pur diminuendo la resa ottenibile con la monocultura. Anche a costo di convincere i contadini della necessità di rinunciare ai guadagni maggiori, almeno nel breve periodo ottenibili con la monocultura.

Esattamente come accade nello Yunnan dove il gioiello naturale del lago Herai è stato dapprima trasformato in uno stagno maleodorante a causa dell’eccesso di monoculture, fertilizzanti e pesticidi che venivano scaricati nell’alveo e dall’eccesso di turistificazione delle zone adiacenti. Anche in questo caso la pianificazione ha agito in questo modo: con l’allontanamento dei pascoli e delle culture dal lago, con lo spostamento dei quartieri turistici e la creazione di impianti di depurazione efficienti, con lo sviluppo di sistemi di pesca più sostenibili. Il tutto gestito facendo accettare ai proprietari di case e ai contadini allevatori l’idea di rinunciare a una parte dei guadagni immediati con l’idea di uno sviluppo che portasse, in tempi ragionevolmente veloci, al risanamento del lago.

Conclusioni

Alcuni scienziati del capitale hanno progettato sistemi per assorbire la CO2 prodotta in eccesso nel Pianeta con delle pompe di aspirazione. La CO2 verrebbe intrappolata diminuendo la quantità presente nell’atmosfera e quindi attutendo gli effetti del riscaldamento globale. In attesa di conoscere dove queste pompe verranno installate e se la CO2 verrà spinta in altri luoghi diversi dal centro capitalista in cui è maggiormente generata (dove, ad esempio, si potrebbero creare piogge artificiali continue per abbatterne la quantità accumulata, occupandosi poi della qualità del suolo che ne risulterà) occorrerebbe chiedersi innanzitutto se un tale sistema sarà in grado di sostenersi nel caso in cui le emissioni di CO2 dovessero ridursi. Ammesso che sarà così, ogni capitalista che vorrà essere finanziato dai governi che accorreranno in suo favore, dovrebbe ammettere una cosa. Un’impresa del genere avrebbe senso logico soltanto se il sistema di produzione mondiale continuasse a generare CO2 da “catturare” in maniera continuativa. Questo è il modo con cui il Capitale fa profitti e perpetra la distruzione ambientale anche quando sostiene di fare l’esatto contrario.

Analogamente qualcuno potrebbe studiare un metodo per raccogliere la plastica che crea le isole artificiali sulla superficie degli oceani, compattarla e stivarla in qualche luogo chiuso in attesa che qualche altra ditta capitalista trovi il modo per bruciarla o riciclarla. Nel frattempo, questa impresa capitalista dovrà accertarsi che sempre più plastica venga prodotta e utilizzata in modo da garantire profitti continuativi o quanto meno “sostenibilità d’impresa”. Questo è il modo col quale funziona il meccanismo del plusvalore nel mondo Capitalista. Come diceva Marx, il capitalista può tranquillamente venderti la corda alla quale ti puoi impiccare.

Detto ciò, non è vero che non si possa pensare di intraprendere opere ingegneristiche di questo tipo per affrontare un problema ambientale. Se la plastica non viene prodotta più, toglierla dal mare in qualche modo avrebbe un senso del tutto differente. Così come lo avrebbe assorbire la CO2 in eccesso se contemporaneamente il mondo decidesse di abbandonare i combustibili fossili.

Ci pare che questi due esempi, seppur in modo approssimativo, possano mettere in evidenza la differenza tra una pianificazione socialista e la necessità impellente e assoluta delle imprese capitaliste di accumulare profitti, anche “sporchi, maledetti e subito”.

E come le due diverse interpretazioni possano impattare sull’ambiente e sulla Natura.

La Natura e la complessità della questione ambientale sono tali che occorre agire in fretta. La pianificazione degli interventi di per sé potrebbe essere neutra. In passato, i capitalisti più accorti ne hanno fatto uso, a volte hanno ritardato i profitti immediati per profitti a più lungo termine. Ma la pianificazione socialista non è la stessa cosa, così come la gestione del plusvalore nella produzione di beni, se da un lato effettivamente sancisce la subordinazione del lavoro salariato, non è detto che serva solo a creare disparità sociali. Se una impresa, magari gestita da uno stato socialista, usa il plusvalore delle sue attività per pianificare il recupero dell’ambiente degradato e impedirne l’ulteriore degrado, se reimpiega i profitti per l’istruzione della popolazione, per la salute e per le tutele sociali, si differenzia da un’impresa in uno Stato che lascia al capitale la gestione dei profitti con il solo fine di crearne di ulteriori.

La questione della necessità della decrescita per risolvere i problemi urgenti legati al clima e all’ambiente è una questione complessa da affrontare. Ma vanno impostati dei parametri. Nell’attuale sistema di riferimento mondiale e con gli attuali rapporti di produzione, la decrescita sarebbe pagata solo dalle classi popolari. Se si decidesse di eliminare i combustibili fossili in brevissimo tempo senza energie rinnovabili immediatamente disponibili e utilizzabili, il freddo o il caldo lo patirebbero i subordinati e quella parte di popolazione mondiale che è più in difficoltà. I ricchi e i padroni, invece, continuerebbero a godersi il privilegio delle proprie pompe di calore ad alta efficienza.

Se per decrescita si intende, invece, un controllo sulla crescita, l’odiato sistema di pianificazione socialista cinese si è già attivato in tal senso e continua a farlo. Per rispondere a un crescente malcontento sociale tra i lavoratori meno qualificati nei confronti dell’emergente casta dei ricchi e della nuova classe media, il PCC ha impostato di parametrare la crescita del PIL a quella che in occidente definiamo “qualità della vita”.

Sullo sfondo, abbiamo presente che nel meccanismo di subordinazione del lavoro salariato così magistralmente spiegato da Marx, esiste l’impossibilità di mantenerlo in vita senza mantenere in vita le disparità di classe(8). E, come abbiamo provato ad argomentare anche con l’aiuto di Saitō, in quel meccanismo è già in nuce che un tale sistema alla lunga oltre che distruggere i lavoratori distruggerà la Natura. Il comunismo è un sistema che abolisce la divisione in classi, abolisce la proprietà privata dei mezzi di produzione, rende obsoleto e preistoria dell’Umanità il meccanismo del plusvalore e la funzione del valore di scambio. In una società costruita nel comunismo saremo “liberi ed uguali”, la preistoria finirà quando l’Umanità uscirà dal regno della necessità per entrare in quello della libertà. In quel caso, la decrescita sarà una scelta consapevole dei lavoratori associati, potremo decidere quanto, cosa e come produrre. La Natura sarà la madre di tutti i lavoratori e il metabolismo tra Uomo e Natura sarà perfettamente equilibrato.

Su questo non abbiamo nessuna utopia da negare. Ma riteniamo, come molti, che occorra fare in fretta. Forse è il caso di comprendere che essere pragmatici è un valore, ovviamente mantenendo saldo il nesso che non non ci sarà nessuna salvaguardia della Natura senza e/o contro la giustizia sociale.

Note al testo

  1. Ian Angus è un attivista canadese, collabora con le riviste Climate and Capitalism, Monthly Review

  1. Di particolare interesse il discorso di Angus sulla differenza tra un discorso antropocentrico e naturocentrico. Lo stile di Angus è molto diretto. Qui vi è un esempio di come tratta la differenza tra i vari approcci (https://www.antropocene.org/index.php/135-antropocentrismo-contro-ecocentrismo-appunti-su-una-falsa-dicotomia).

  1. La frase è attribuita a Chico Mendes

  1. Justus Von Liebig, chimico tedesco ha impresso il suo nome in una serie molto lunga di studi e di metodi per ottenere prodotti. Il suo trattato di chimica organica fu redatto in molte versioni. Le questioni più care a Marx appaiono soprattutto nelle ultime versioni in cui Liebig non adotta più i concetti relativi all’incompatibilità tra lo sviluppo dell’industria e l’aumento della popolazione. In generale Liebig considerava prioritario reintrodurre elementi come azoto e fosforo nel terreno in modo da non diminuire i nutrienti. Nel libro di Saitō lo studio è approfondito: da un lato la questione dei diversi nutrienti (sali minerali e nutrienti organici), dall’altro, con una serie di esempi si mette in evidenza come tale questione abbia creato problemi nelle relazioni tra stati, ad esempio spiegano la questione definita “imperialismo del guano”.

  1. Karl Fraas fu un agronomo tedesco. Noto soprattutto per la teoria alluvionale, atta a valutare la possibilità di restituire al terreno gli elementi nutritivi presenti in agricoltura” attraverso lo spostamento e l’uso dei corsi d’acqua”. L’interesse di Marx però si concentra soprattutto sull’analisi della desertificazione di alcune zone del pianeta legata ai cambiamenti climatici portati dallo sviluppo dell’agricoltura estensiva.

  1. È disponibile in rete una risposta articolata di Michael Roberts a un testo pubblicato in America Latina in cui viene proposta una modifica di base alla legge del valore di Marx. La cosa è interessante per più motivi. Lo studio che propone questa modifica è stato condotto tramite l’uso dell’IA. Gli attivisti di “Marxism and Collapse” svolgono questa indagine chiedendo a un generatore IA di trovare una nuova legge del valore indicando la necessità di inserire nella teoria di Marx anche questo aspetto. Con successivi approfondimenti, l’algoritmo artificiale trova nella rete delle risposte scolasticamente interessanti. La figura di Gustavo Petro, in questo discorso è importante. Il Presidente della Colombia è uno studioso di economia e conosce Marx. Più volte ha esternato sul fatto che tale teoria potrebbe essere incompleta. Per l’intera discussione leggere ad esempio qua (www.sinistrainrete.info/marxismo/29005-michael-roberts-la-teoria-del-valore-di-marx-collasso-ia-e-petro.html)

  1. La rivista tradotta dal cinese da Tricontinental si trova qua (China’s Ecological Transition | Tricontinental: Institute for Social Research)

  1. Su questa affermazione, abbiamo volutamente tagliato corto. La questione meriterebbe approfondimenti e una attenzione più estesa. La persistenza del valore di scambio e del plusvalore come motore della produzione, per Marx, comporta una serie di conseguenze che vanno dalla caduta del saggio di profitto alla sovrapproduzione fino alla concentrazione della ricchezza, la creazione dei monopoli, l’imperialismo e la tendenza alla guerra. Tutte cose che hanno ricadute fortissime sulle questioni ambientali. La lettura del testo che abbiamo proposto mette in evidenza, almeno crediamo, che le questioni ambientali sono in correlazione con tutto il resto. L’obiettivo era qui spiegare più estesamente una cosa ben più parziale, il valore di scambio può anche essere usato in senso diverso da quanto normalmente accade alle latitudini occidentali. Per il resto, socialismo o barbarie rimane uno slogan imprescindibile per noi.

 
 

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