“Per questo posso dire che nella clandestinità non ho conosciuto la discriminazione sessista. Non poteva esserci perché a coprire le spalle di ogni compagno poteva esserci una donna.”
Sono pochissimi giorni dalla scomparsa di Barbara Balzerani e proprio oggi 8 Marzo vogliamo riportare una sua intervista pubblicata sul numero 50 di Zapruder dedicato alle storie di donne che agiscono violenza “Faster, Pussycat! Kill! Kill!”. Parole che sentiamo necessarie, per rimettere al centro il tema della teoria politica femminista e dell’uso della violenza come strumento da sempre agito con coscienza dalle donne rivoluzionarie. Le parole di Barbara ci restituiscono le coordinate di un protagonismo storico e politico, di chi riconosce la lotta di classe rivoluzionaria come unico strumento possibile di emancipazione.
Oggi un pugno alzato a tutte le sorelle palestinesi e le donne rivoluzionarie in lotta nel mondo.
Nella notte ci guidano le stelle, ciao Barbara.
Genova City Strike
4 marzo 2024: in un giorno qualsiasi ci raggiunge subito la triste notizia della morte di Barbara Balzerani.
In questo “mondo rovesciato”, giornalisti e opinionisti ci racconteranno di lei, che non si era pentita, che non si era dissociata…
Noi invece la vogliamo ricordare con le sue parole.
Quando con grande generosità ha ragionato con noi di donne, ruoli, scelte, punti di rottura, femminismi, etc. a partire dalle questioni che “Faster, Pussycat! Kill! Kill!” (il numero 50 di «Zapruder» 50 dedicato alle storie di donne che agiscono violenza) poneva e in cui l’intervista che vi proponiamo di leggere/rileggere è pubblicata.
Ciao Barbara!
Rovesciare il mondo rovesciato
Barbara Balzerani (a cura di Lidia Martin)
Partirei dalla scelta di entrare nelle Br…
Una scelta del genere non avviene per motivi facili da spiegarsi e spiegare. È frutto di un processo lungo fatto di riflessioni sulla storia scritta, sulle storie raccontate, sulle esperienze vissute, sugli eventi della politica. Io sono vissuta in una famiglia operaia dove ho ascoltato raccontare la fatica, la preoccupazione di non arrivare a fine mese, la paura della disoccupazione, l’orrore della guerra, lo spaesamento dell’emigrazione, il non contare nulla.
Ma anche l’orgoglio del saper fare e l’insostituibilità di chi costruisce gli strumenti del vivere, a fronte del parassitismo di chi ne fruisce per diritto proprietario. Eravamo poveri ma io non ne ho capito le conseguenze finché non sono uscita dall’ambito familiare per andare a scuola. Avevo sei anni e imparavo l’ingiustizia e l’irrilevanza sociale di quelli come me. Imparavo il disprezzo per chi occupava gli ultimi banchi e il servilismo nei confronti del potere. Un mondo rovesciato, insieme ai suoi valori. Chi era in grado di determinare la qualità della mia vita era chi stava anche a un solo gradino più alto della scala sociale, così, senza meriti o capacità. Erano gli anni cinquanta, quelli della restaurazione padronale dopo la Resistenza al nazifascismo, i licenziamenti politici, la Dc che governava con le destre, in un paese-fabbrica costruito secondo le norme della razionalità produttiva industriale, prima tra tutti la divisione netta tra le classi. Case, scuole, luoghi di ritrovo, negozi, tutto rigidamente separato e, soprattutto, tutto apparentemente immodificabile. In gioco, prima ancora di che vivere, la possibilità di inventarsi percorsi di vita, di rompere col determinismo dei ruoli, di liberarsi dalla subalternità, dall’invisibilità. Il luogo di nascita a decretare il destino già stabilito di ciascuno e, ancora di più, di ciascuna. Per le ragazze di scarsa scolarizzazione e dote oltre al matrimonio e la maternità non c’era altro. Modestia, contegno e, soprattutto, illibatezza [erano, ndr] le virtù indispensabili per assicurarsi il ruolo di moglie e madre.
Può sembrare incredibile ma questo veniva imposto dalla morale di sacrestia di Piazza del Gesù [sede storica della Dc a Roma, ndr], quella che animava le sue campagne elettorali sulla pelle di Maria Goretti. E anche se sentivo ammonire da mia madre di studiare e cercarci un lavoro per non dover dipendere da un marito e finire a contenderci un uomo con le nostre simili, il modello rimaneva quello sacrificale. Ma questo e altro non sarebbe bastato se non ci fosse stata la rottura del decennio successivo. La mia indisponibilità a distogliere la mente di fronte ai segni di illibertà e ingiustizia che mi circondavano mi aveva formato un carattere spigoloso ma che al massimo mi avrebbe portato verso una ribellione marginale, in un contesto provinciale malato di conformismo e ipocrisia. È stata l’insorgenza delle lotte degli operai senza tessere di piazza Statuto e degli studenti proletari a scompaginare il quadro fino a farlo saltare.
La mia piccola rivoluzione esistenziale si rafforzava grazie alla politica rivoluzionaria e conquistava spazi inimmaginabili. Lo studio, le discussioni e le lotte mi emancipavano dalla confusa coscienza della mia condizione sociale che avevo assimilato tra le mura domestiche. E soprattutto davano prospettiva alla mia rabbia per le umiliazioni e la violenza del potere che avevo presto imparato a conoscere. Capire una scelta come la mia non è difficile, basterebbe non fare ricorso al senno del poi, alla prevedibilità della sconfitta, alla retorica delle masse e, soprattutto, quando non alla condanna morale della violenza che diventa giudizio di scelta antinatura, quando riferita alle donne combattenti. Bisognerebbe ricordare che quelli erano gli anni di conquiste mai viste, gli anni delle rivoluzioni socialiste, della decolonizzazione, dell’internazionalismo. Gli anni in cui piccoli paesi come Cuba e Vietnam battevano l’esercito più forte a livello mondiale e le organizzazioni guerrigliere erano in grado di scompaginare il funzionamento del sistema capitalistico anche nel cuore dell’occidente. La risposta del nemico è stata all’altezza: il colpo di stato in Cile, seguito da quello in Argentina, ha dato la prima lezione pratica alle elaborazioni economiche del liberismo dei Chicago boys di cui Reagan e Thatcher sono stati in seguito ottimi interpreti. Stroncare la legittimità di esistenza del conflitto sociale a fronte di un attacco radicale alle condizioni di vita e di agibilità politica del proletariato è stato il primo dogma di quella nuova formula di governo. Da perseguire con ogni mezzo e in ogni ambito, mostrando la faccia sanguinaria del potere in tempo di pace.
Non era certo la prima volta che il sistema democratico-borghese si mostrava nella sua non riformabilità e nell’evidenza che le vie legali sono trappole di sua invenzione per autoconservarsi, ma era una di quelle volte in cui la disponibilità a usare la forza per abbatterlo era tanto estesa. A quel vasto movimento rivoluzionario si ponevano poche alternative: o ripiegare o attrezzarsi al livello dello scontro, ponendo al centro la questione del potere e del monopolio statale della violenza. Quelli non erano tempi di compatibilità di interessi, era guerra guerreggiata in cui ognuno ha scelto come collocarsi e la politica che ha ritenuto più adeguata per poterla combattere. In quegli stessi anni un movimento femminista a egemonia pacifista, interclassista ed eurocentrica riempiva le piazze, a ribadire la cultura politica del progresso lineare, a supportare la gerarchia delle donne nell’universale modello occidentale neutralizzato da questioni di collocazione sociale fino a quelle razziali, riaffermando la delega istituzionale che non ha mai liberato nessuna, se non le elette.
Consapevoli o no.
Non voglio fare un raffronto tra la tua esperienza e quella delle partigiane combattenti, che è una pista interpretativa già usata – e a volte anche usata male – però leggendo te, ci ho trovato delle continuità…
Sì, è vero, è esistita una continuità. Nei primi passi della militanza il “filo rosso” con la Resistenza è stato un legame forte. Soprattutto nell’accezione della Resistenza tradita e del dover riprendere lì dove era stata interrotta e svenduta. Questo ha posto fin da subito l’inconciliabilità con il Pci e il parlamentarismo. Ma, in un contesto mutato, contavano anche le differenze. Per me, come donna, la scelta non è stata compiuta in solitudine o contro la cultura politica vigente. Io ero una giovane degli anni settanta, la generazione che ha fatto meno figli e più cercato alternative al matrimonio, avevo battuto ogni strada che mi consentiva spazi di libertà e maturato una forte consapevolezza che potevo decidere della mia vita. Avevo sofferto e combattuto il machismo dei gruppettari, soprattutto dei capetti, e mal sopportato i ruoli di supporto “militari” in quell’apprendistato alla lotta armata. Ma non mi sono mai sentita inadeguata o ostacolata, in quanto donna, a decidere di far parte delle Brigate rosse. Decisione presa insieme al mio compagno di allora e al gruppo di cui facevo parte, in qualche misura giocando anche un ruolo influente.
La continuità l’ho vista anche nel fatto che le partigiane combattenti hanno spesso parlato di sé mettendo in luce episodi della loro infanzia o giovinezza in cui si evidenziava che fossero ragazze ribelli e fuori dalla norma già prima di diventare partigiane. E questo lo hai fatto anche tu…
Quando ho cominciato a scrivere ho voluto presentarmi tutta intera, a partire dalle mie origini, del tutto simili ai miei compagni, non tanto per sottolineare la formazione di un carattere ribelle ma per contrappormi alla vulgata che ci stava dipingendo come degli alieni, venuti da chissà dove, privi di un’appartenenza di classe, al soldo di chissà chi, che una mattina avevano deciso di andare a via Fani a sequestrare il presidente della Dc. Ho inteso restituire il contesto in cui la scelta della lotta armata è maturata per tanti e tante, risalendo agli anni dell’incubazione del potenziale che ha fatto esplodere le contraddizioni del vecchio mondo. Forse sono gli atti di ribellione in contesti che non li prevedono i più difficili, non quelli conseguenti a un processo di convincimenti in cui ci si arriva in tanti. Ho sempre pensato che una come mia madre, la cui ribellione contro gli oneri familiari l’ha espressa solo in vecchiaia, se fosse vissuta in un periodo storico diverso dal suo avrebbe dato il meglio di sé anche molto prima.
Il tuo rapporto con un certo tipo di femminismo, quello della differenza, quello delle quote rosa, lo avevi già raccontato in “Compagna luna”, nel capitolo che proprio si intitola “Femminismo? No, grazie!”. Rispetto alla tua non percezione di una differenza di genere nelle Br, ti sei data come risposta che dentro la lotta armata non c’era un ruolo di potere da conquistare, una leadership, una carriera da fare…
Il potere si può esercitare in tanti modi e a diversi livelli. Quando ci sono in ballo differenze di autorità e non di autorevolezza scatta il meccanismo della supremazia e della subordinazione. L’ho visto anche in alcuni gruppi femministi, con una gerarchia interna che non c’era neanche in un gruppo clandestino come le Br e un rapporto docente/discente della peggior scuola. Credo che il meccanismo sia sempre lo stesso: quando le maggiori conoscenze e capacità si traducono in aumento della privatizzazione dei saperi e la collocazione sociale consente qualche riparazione alla disparità, ecco riprodursi la posizione di potere, il monopolio del pensiero e dell’ultima parola. Non è un problema di buona volontà ma di condizioni strutturali che si ereditano dal sistema di dominio in cui viviamo: carrierismo, visibilità, concorrenzialità, autoreferenza, mai individuati e combattuti del tutto. La rottura vera dipende dalla sovversione del funzionamento sociale, della subordinazione del lavoro manuale a quello intellettuale, dei ruoli che il patriarcato ha imposto alle donne.
Per questo posso dire che nella clandestinità non ho conosciuto la discriminazione sessista. Non poteva esserci perché a coprire le spalle di ogni compagno poteva esserci una donna.
L’altro elemento rilevante è lo stato di sospensione della quotidianità che mette in crisi la rigidità dei ruoli, praticando crepe e fessure. La violenza agita è secondo te una di queste crepe/fessure?
Non credo che sia la violenza la crepa in cui si annida la possibile libertà femminile. Ma la sovversione dei ruoli che fanno funzionare il sistema, perché bisogna sempre ricordare che il capitalismo è un sistema sociale, in cui tutti/e interagiscono, e non un mero ingranaggio produttivo e di mercato. In tutta evidenza in un gruppo guerrigliero come le Br dove ogni militante racchiudeva in sé capacità politico-militari e non esistevano famiglie, non avrebbero avuto senso discriminazioni in base al sesso. La stessa dinamica l’ho conosciuta in carcere, dove il ruolo di moglie e madre è impedito di per sé, o nelle lotte, specie le occupazioni, in cui la vita è comunitaria e tutti fanno tutto. Ho ancora ben vivido il ricordo di donne che si lamentavano per la fine della loro carcerazione o delle lotte perché dovevano tornare a occuparsi solo dei mestieri di casa, restando escluse dalla politica.
Quanto all’esercizio della violenza, certo femminismo, di cultura occidentale, ne ha fatto un problema di assimilazione al modello maschile di tipo psicanalitico, un difetto del comportamento. Io sono entrata in un’organizzazione che ha avuto tra i suoi fondatori Mara Cagol che, pur essendo morta combattendo, è difficile conformare allo stereotipo di una disturbata sanguinaria. Il punto vero è la teoria per cui l’esercizio della violenza, e soprattutto quella femminile,
in contesti democratici non sia ammissibile. Dunque non sarebbe il capitalismo il sistema che più ha perfezionato il servilismo delle donne, dunque con qualche accorgimento si potrebbe sanare la disparità, dunque si potrebbe ricavare il proprio agio di donne decorando la cella. Al massimo si concepisce una battaglia culturale, simbolica, ma guai a sovvertire il meccanismo di un sistema che è in grado di assorbirla e neutralizzarla. Io credo che bisognerebbe ragionare in termini più materialistici e ricordare che certi modelli sono storicamente determinati. Nel cammino dell’umanità le donne non sono sempre state l’angelo del focolare, destinate per “natura” a creare la vita e quindi incapaci di dare la morte, ci sono diventate quando sono state estromesse dalla gestione delle attività produttive e dalla signoria dei saperi necessari alla vita collettiva, che ha significato anche la perdita della capacità di conduzione delle comunità, cioè della cosa pubblica. Il problema vero riguarda la fatica delle donne di poter esprimere la propria autodeterminazione in un mondo fondato sulla loro debolezza. Fatica che può essere superata solo abbattendo le regole del gioco e ponendosene fuori.
Ma non per tutte la fatica è la stessa e il potere ha spesso un volto di donna.
È possibile un equilibrio tra identità politica e identità di genere?
Sì, penso ci possa essere un equilibrio tra identità politica e di genere, anzi che l’una si rifletta nell’altra. Penso che le donne abbiano un interesse massimo nella morte del capitalismo, perché non è una grande prospettiva poter essere libere solo in condizioni straordinarie se non proprio poco felici. Ma parlare di “donne”, come genere indifferenziato, ha prodotto identità come quelle di portacqua dei partiti o quelle che mettono insieme la Bonino, le clintoniane americane e le combattenti del Rojava. Non esiste “il femminismo”, esistono tanti “femminismi”, diversi modi di affrontare e, soprattutto, esercitare la libertà femminile.
Scegliere l’alleanza con le più discriminate è già un primo passo.