La lunga vita (1910-2008) di Vittorio Foa si può dividere in numerose fasi, sempre segnate da rotture e discontinuità: la giovinezza a Torino e la precoce laurea in legge, la fase cospirativa culminata negli anni di carcere e nella Resistenza (1933-1945), la presenza nel Partito di Azione e alla Costituente (1945-1947), la lunga stagione sindacale e nel PSI (1948-1963), la scelta per il PSIUP e per la nuova sinistra, in una logica “operaista” (1964-1977), il silenzio (1979-1983), quindi un trentennio segnato da un profondo ripensamento, da riflessione e dal recupero di molti elementi “liberalsocialisti” della gioventù.
Due testi recentemente usciti tentano un bilancio sulla sua vita che copre quasi un secolo.
Antonio Bechelloni non si propone una biografia politico-intellettuale. Il testo sarebbe dovuto uscire nei Quaderni dell’Italia antimoderata del Centro di documentazione di Pistoia, accanto ad altri protagonisti di una sinistra diversa e spesso alternativa rispetto a quella maggioritaria.
Tocca alcune parti di questo lungo percorso concentrandosi in particolare sulla giovinezza, l’antifascismo e la svolta di riflessione e rilettura degli ultimi decenni.
Originario di una famiglia benestante, ebraica, torinese, compagno di classe di Giancarlo Pajetta, a 23 anni si avvicina a Giustizia e Libertà, anche per l’amicizia con Leone Ginzburg. Nel 1935, per la delazione di Dino Segre (Pittigrilli), il gruppo torinese è arrestato. La condanna, a 16 anni, è severissima. Foa è nelle carceri di Regina coeli, di Civitavecchia, di Castelfranco Emilia, sino all’agosto 1943. Partecipa alla Resistenza fra Torino e Milano. La formazione GL lo avvicina al Partito di Azione, nella sua breve parabola, l’interesse da sempre manifestato per il movimento operaio (siamo nella stagione dei morandiani Consigli di gestione) al movimento sindacale. E’ Costituente (sua la proposta di costituzionalizzare gli obiettivi di politica economica e sociale. Dopo la sconfitta elettorale (1948) del Fronte popolare diviene vice-segretario della CGIL in stretto rapporto con Giuseppe di Vittorio e Fernando Santi. Nei due anni alla FIOM, gestisce la sconfitta alla FIAT (1955) e il tentativo di rilancio e di rinnovamento del sindacato in una realtà sociale che sta cambiando con grande rapidità (il dibattito sul neocapitalismo).
Proprio la nuova qualità delle lotte operaie dei primi anni ’60 lo porta a rifiutare i governi di centro-sinistra e a partecipare alla costruzione del PSIUP, quindi alla stagione della nuova sinistra, in una affermazione della autonomia operaia, della democrazia diretta centrata sui Consigli di fabbrica e che spesso fuoriesce dallo stesso orizzonte sindacale.
Quindi, la sconfitta, la riflessione sulle derive terroristiche, sull’emergere del movimento femminista che supera la contraddizione lavoro/capitale e sul movimento giovanile del ’77 che rifiuta ogni mediazione sindacale.
Bechelloni si sofferma lungamente sulla gioventù e sul carcere, tratteggia molto (troppo) velocemente questo periodo, segue con attenzione gli ultimi decenni, segnati da un profondo ripensamento, testimoniato da Riprendere tempo (1982), La Gerusalemme rimandata (1985), Il cavallo e la torre (1991), da scelte contraddittorie ai suoi decenni operaisti: il No al referendum del PCI sulla scala mobile, il voto favorevole alla guerra in Iraq, l’approvazione della svolta della Bolognina, l’accantonamento dello stesso termine sinistra, ormai privo di significato.
L’attenzione dell’autore si divide fra i primi anni e l’ultimo periodo (una fantastica vecchiaia), esprime una critica sull’accettazione del frontismo e della politica sovietica, propria del PSI (tranne una brevissima parentesi) dal dopoguerra al 1956. Trascura gli anni dell’elaborazione politico-sindacale più legata alle lotte operaie, al tentativo di fare del PSIUP una realtà nuova e innovativa, agli scacchi, ma anche al fervore della nuova sinistra, accenna appena al dibattito sulle tendenze del capitalismo italiano in cui le sinistre comunista e socialista tentarono una analisi strutturale dell’Italia che uscisse dagli schemi del capitalismo arretrato e della rivoluzione borghese incompiuta.
Questo limite mi pare compaia anche nell’interessante numero, quasi monografico, della “Rivista storica del socialismo”, semestrale che riprende il titolo della gloriosa rivista, fondata nel 1958 da Luigi Cortesi e Stefano Merli, autentica rivoluzione storiografica nella fervida stagione del dopo 1956.
I saggi riguardano il Foa antifascista, da GL al Pd’A (Colombini), le lettere dal carcere (Montevecchi), l’attività sindacale (Loreto), gli anni’80 e l’uscita dal Novecento e un bilancio del Novecento stesso (Bresciani e Ricciardi).
Il saggio più articolato ed organico è di Giovanni Scirocco che ripercorre un tragitto, segnato da modificazioni e rotture, dall’azionismo al socialismo, il ruolo, ma anche le contraddizioni nel PSI, lo scacco del PSIUP, non analizza gli anni di nuova sinistra (Foa, l’uomo più a sinistra in Italia), chiude con l’abbandono della tematica dell’autonomia operaia per quella di tempo (La Gerusalemme rimandata) e il ritorno a concetti (autonomia, federalismo, autodeterminazione…) che ripropongono elementi mai abbandonati della sua formazione giovanile (la Torino di Gobetti, Einaudi, l’amicizia fraterna con Ginzburg…).
Due letture interessanti e complementari che ripropongono una grande figura del secolo scorso e della nostra formazione. Sulle parti poco toccate e a molti di noi care, lontane dal dibattito politico di oggi, credo varrebbe la pena ritornare.
Sergio Dalmasso, dicembre 2020
Antonio BECHELLONI, Vittorio Foa, Torino, ed. Raineri Vivaldelli, 2019.
“Rivista storica del socialismo”, Vittorio Foa tra politica, sindacato e storia, anno V, n.1, maggio 2020