Emiliano Brancaccio: catastrofe o rivoluzione?

Il 12 novembre è stato pubblicato da Melteni il libro di Emiliano Brancaccio “Non sarà un pranzo di gala” Crisi, catastrofe o rivoluzione”. Qualche giorno fa l’economista dell’Università del Sannio ha pubblicato sulla rivista Il Ponte un lungo abstract per illustrare i temi del libro. La critica alle teorie keynesiane viste come inutili a combattere la crisi del capitale, la necessità di riprendere in mano le questioni legate alla pianificazione economica. Di seguito il lungo intervento di Emiliano Brancaccio. Buona lettura

L’ex capo economista del Fondo monetario internazionale ha sostenuto che per scongiurare una futura “catastrofe” serve una “rivoluzione” keynesiana della politica economica. La sua tesi viene qui sottoposta a esame critico sulla base di un criterio di indagine scientifica del processo storico definito «legge di riproduzione e tendenza del capitale». Da questo metodo di ricerca scaturisce una previsione: la libertà del capitale e la sua tendenza a centralizzarsi in sempre meno mani costituiscono una minaccia per le altre libertà e per le istituzioni liberaldemocratiche del nostro tempo. Dinanzi a una simile prospettiva Keynes non basta, come non basta invocare un reddito. L’unica rivoluzione in grado di scongiurare una catastrofe dei diritti risiede nel recupero e nel rilancio della più forte leva nella storia delle lotte politiche: la pianificazione collettiva, intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato. Una sfida che mette in discussione un’intera architettura di credenze e impone una riflessione a tutti i movimenti di lotta e di emancipazione del nostro tempo, tuttora chiusi nell’angusto recinto di un paradigma liberale già in crisi.

Prologo

Per scongiurare una futura “catastrofe” sociale serve una “rivoluzione” della politica economica. Così parlò Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo monetario internazionale, in occasione di un dibattito e un simposio ispirati da un libretto critico a lui dedicato (Blanchard e Brancaccio 2019; Blanchard e Summers 2019; Brancaccio 2020). Che un grande cardinale delle istituzioni economiche mondiali adoperi espressioni così avventuristiche è un fatto inusuale. Ma l’aspetto davvero sorprendente è che tale fatto risale a prima del tracollo causato dal coronavirus. Tanto più dopo la pandemia, allora, diventa urgente cercare di capire se l’evocazione blan-

1 Una versione di questo saggio è stata pubblicata in E. Brancaccio (con G. Russo Spe- na), Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Roma, Meltemi, 2020.

chardiana del bivio “catastrofe o rivoluzione” sia mera voce dal sen fuggita o piuttosto segno di svolta di uno spirito del tempo che inizia a muovere da farsa a tragedia. A tale interrogativo è dedicato questo scritto.

A chi intenda cimentarsi nella lettura, sarà utile lanciare un avvertimento. Sebbene intessuto di fili accademici, questo saggio risulterà estraneo alle pratiche discorsive dell’ordinario comunicare scientifico. Qui si cercherà infatti di rinnovare un antico esercizio, eracliteo e materialista: di intendere logos come scienza. Scienza non parziale ma generale, per giunta, quindi inevitabilmente colma di vuoti come un formaggio svizzero. Su questi vuoti, prevediamo, gli specialisti contemporanei avvertiranno insofferenza mentre sarà indulgente l’osservatore avvezzo alla critica e alla crescita della conoscenza (Lakatos e Musgrave 1976). Costui è consapevole che solo una visione generale consente di visualizzare quei vuoti, e quindi crea le premesse per tentare di perimetrarli e superarli.

Riproduzione e tendenza

Anche i consiglieri delle dittature fasciste, per una volta, possono trovarsi dal lato della ragione. Nella polemica con Myrdal sullo statuto scientifico dell’economia, Milton Friedman aveva ragione: non vi è motivo di ritenere che quella economica sia scienza “molle” rispetto alla fisica, alla chimica e in generale alle cosiddette scienze “dure”. Dato che la previsione può suscitare imbarazzo all’una e alle altre, che in entrambi i gruppi di scienze l’esperimento è a volte direttamente possibile e altre no, che in nessuno dei due ambiti il test può dirsi perfettamente controllato o isolato, che tra le singole scienze “dure” sussistono differenze metodologiche rilevanti almeno quanto quelle che si registrano tra ognuna di esse e la “molle” economia, e che i giudizi di valore possono influenzare tanto l’una che le altre discipline, si possono intuire le ragioni per cui quella partizione risulta meno robusta di quanto comunemente si creda, e per questo non raccoglie più grandi consensi fra gli epistemologi contemporanei (Brancaccio e Bracci 2019).

Ovviamente ciò non signifi aderire allo strumentalismo di Friedman, che è forse la più deteriore tra le varianti della già caduca epistemologia popperiana. Né significa nobilitare la rappresentazione dell’economia suggerita dalla teoria neoclassica-marginalista, che incurante delle sue fallacie Friedman propugnava e che un ignaro Popper elevava addirittura al rango di unico paradigma. Sebbene le teorie e le epistemologie ispirate dall’approccio neoclassico siano anche le stelle polari della ricerca scientifi di Blanchard, qui non si farà cenno ad esse. Per le sue comprovate incoerenze logiche e debolezze empiriche, e per la sua interpretazione irrimediabilmente naive del corso degli eventi, l’approccio neoclassico appare infatti inadeguato a valutare la rilevanza storica del crocevia blanchardiano. Misurarsi con l’incedere del processo storico, e quindi anche giudicare la tempestività di “catastrofe o rivoluzione”, è questione scientifi improba, che mai potrebbe esser ficcata negli angusti sgabuzzini della scarsità e dell’utilità neoclassiche. Dinanzi a un tale interrogativo, nella migliore delle ipotesi, lo studioso neoclassico si obbliga a un disagevole silenzio. Se dunque in questa sede si intende decretare la presenza a pieno titolo dell’economia nell’empireo della scienza tout court, e con essa si pretende di indagare sulla biforcazione in questione, allora si dovrà per forza indicare un sentiero di ricerca diverso da quello prevalente (sulla diversità rispetto all’ortodossia neoclassica, cfr. Brancaccio 2010a).

Una via alternativa potrebbe consistere nel recupero di un’ardimentosa e mai rinnegata tesi di Althusser: che dopo avere inteso per “storia” la complessa totalità sociale dominata dal modo di produzione capitalistico e dopo aver situato l’economia nel suo mezzo, arriva a identificare nel Capitale di Marx il primo, pur incerto passo della conoscenza scientifica nel perimetro del fino ad allora inesplorato «continente della storia», come secoli pri- ma il Dialogo di Galileo aveva fornito la chiave metodologica d’accesso nel «continente della fisica» (Althusser 1974).

Il paragone, bisogna ammetterlo, appare tuttora imbarazzante, anche laddove sia riferito alla sola fisica dei primordi. Sulla storia, abbiamo detto, l’approccio neoclassico è intrinsecamente muto. Ma pure la scienza critica dell’economia e della storia, ispirata all’analisi marxiana e ai suoi continuatori, si presenta ancora oggi a uno stadio poco più che embrionale. Essa si sviluppa grazie a filoni di ricerca sotterranei che riaffiorano puntuali all’indomani delle crisi, ma il più delle volte restano sommersi e dimenticati, ai margini della grande accademia e delle sue ingenti risorse. Di questa marginalità abbiamo suggerito una possibile spiegazione, che attiene ai contrasti tra la riproduzione del rapporto sociale di produzione e lo sviluppo di un paradigma scientifico che anziché favorire quella stessa riproduzione rischia di ostacolarla. Memore di Esopo, il sistema si guarda bene dal nutrire una serpe teorica in seno. Eppure, nonostante le enormi difficoltà, la serpe cresce. Dai nuovi apporti di teoria della produzione, agli schemi «stock-flow consistent», fino ai modelli ad agenti depurati da infiltrazioni neoclassiche, i filoni di ricerca alternativi continuano a produrre avanzamenti dal punto di vista del metodo, della strutturazione logica e della verifica empirica delle teorie.

Da questi avanzamenti è venuto alla luce uno snodo della moderna scienza economica critica che forse, una volta superato, consentirebbe di compiere qualche concreto passo avanti nell’ancora pressoché inesplorato continente della storia. Lo snodo a cui mi riferisco è l’esigenza di stabilire un collegamento fra la teoria della “riproduzione” e della crisi capitalistica da un lato, e la teoria delle leggi di “tendenza” del capitale dall’altro. L’una e l’altra hanno finora quasi sempre proceduto lungo sentieri separati, come fossero oggetti impossibilitati a connettersi. A riprova di questa idiosincrasia vi è persino l’assenza di una metafora adatta a descrivere il loro possibile incontro: cerchio e linea, ruota e binario, rapporto e catena, nessuna figurazione sembra adeguata al caso. L’innesto fra teoria della riproduzione e teoria della tendenza, tuttavia, sembra indispensabile per tentare di delineare un criterio di indagine dei crocicchi del processo storico. Senza quell’aggancio, anche la scienza critica del capitale rischia di cadere in uno sconfortante mutismo. Una possibile via di collegamento fra le due teorie, allora, può provenire dalla decifrazione di un loro legame inedito, emerso da alcune ricerche recenti. Si tratta del nesso tra le condizioni di solvibilità sottese alla riproduzione del capitale da un lato, e la tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani dall’altro (Brancaccio 2010b; Brancaccio e Cavallaro 2011; Brancaccio e Fontana 2016; Brancaccio e Suppa 2018; Brancaccio, Giammetti, Lopreite, Puliga 2018, 2019; Brancaccio, Califano, Lopreite, Moneta 2020).

C’è motivo di ritenere che questo nesso abbia valenza euristica generale: situato al livello della struttura economica capitalistica, le sue diverse configurazioni sembrano incidere su tutti i piani del rapporto sociale di produzione, fino a plasmare il livello culturale e politico. Se dunque si condivide questa linea di ricerca, diventa necessario estendere la massima althusseriana: la nostra tesi fondamentale è che non è possibile porre interrogativi e rispondervi, se non dal punto di vista della riproduzione e della tendenza, in particolare della tendenza alla centralizzazione del capitale. Alla luce di questa tesi, utilizzando gli strumenti di analisi incorporati in essa, si proverà qui a verificare se il bivio “catastrofe o rivoluzione” debba ritenersi suggestione importuna o al contrario evocazione tempestiva, nel tempo storico.

Fisionomia di una catastrofe

L’etimo di “catastrofe” è “capovolgimento”, “rovescio”, ma anche, tratto dalla tragedia greca, “scioglimento dell’intreccio di un dramma”. Prendendo spunto da Jan Kott, si può tradurre con “atto risolutivo”, che scioglie una contraddizione di sistema. Se questo sia o meno il tempo di una catastrofe così intesa, è il tema oggetto di analisi.

Aggiungere l’ennesima risposta narrativa a un simile interrogativo sarebbe poco utile: si eviterà quindi di navigare senza bussola nel mare magnum della romanzeria futurologica, dal panglossiano Stephen Pinker al cassandrico Millenium Project. Piuttosto, la questione sarà qui esaminata entro un perimetro di osservazione ben delimitato: lo chiameremo legge di riproduzione e tendenza, ovvero la tendenza alla centralizzazione del capitale. Come accennato prima, rarissimi sono i tentativi di cimento in questo campo decisivo di ricerca. Per quel che mi è dato sapere, la sola indagine che in certo modo vi si approssimi e che è salita agli onori delle cronache scientifi recenti, è quella di Thomas Piketty (Piketty 2014). Criticabile nella esposizione dei dati, fuorviante nella ricostruzione storica del pensiero economico critico e a mezza strada fra tradizione e confusione nella visione teorica, l’opera di Piketty ha tuttavia un indubbio merito: cercare di trarre una legge di tendenza da una relazione di riproduzione del capitale. Quest’ultima viene definita dall’autore «disuguaglianza fondamentale», e consiste nella differenza tra il tasso di rendimento del capitale e il tasso di crescita del reddito. La tesi dell’economista francese è che il secolo ventunesimo sarà contraddistinto da un tasso di rendimento del capitale sistematicamente più alto del tasso di crescita del reddito. Di conseguenza, sotto date condizioni, il capitale crescerà più rapidamente del reddito e questo determinerà pure un incremento continuo dei patrimoni ereditati rispetto ai redditi creati durante una vita di lavoro. Se la riproduzione del sistema impone che il capitale renda più di quanto il reddito cresca, l’implicazione è una tendenza incessante all’aumento delle disuguaglianze tra chi vive di ricchezza e chi vive di lavoro. Si annuncia dunque un secolo rigoglioso, per il moderno rentier e per i suoi pargoli.

Il padre della teoria neoclassica della crescita e premio Nobel per l’economia Robert Solow l’ha denominata «tendenza dei ricchi sempre più ricchi» e ha sostenuto che prima di Piketty nessuno l’avesse mai concepita (Solow 2014). Non è esattamente così, ma il punto che qui merita attenzione è un altro. Il tentativo di Piketty di inquadrare la sua tesi secolare in uno schema tradizionale, di tipo neoclassico, è fallimentare. L’idea di una crescita continua del capitale in rapporto al reddito e di un conseguente sempre maggiore accaparramento del prodotto da parte di chi vive di lasciti ereditari, è un fenomeno che mal si adatta agli “equilibri naturali” tipici della modellistica neoclassica, siano essi non stazionari, stazionari o secolari, e indipendentemente dal carattere esogeno o endogeno della crescita che descrivono. Dunque, anche volendo accantonare per un attimo le incoerenze logiche e le smentite empiriche dell’approccio neoclassico, il tentativo di infilarci dentro la tendenza delineata da Piketty appare in sé contraddittorio. Per quanto l’economista francese possa trovarlo disturbante, la sua idea può trovare adeguata sistemazione solo altrove. L’ambito appropriato, in questo senso, sembra esser proprio la scienza critica del capitale.

In questo contesto teorico alternativo, tuttavia, si fa subito una nuova scoperta. Dentro quella che Piketty chiama la «disuguaglianza fondamentale» sussiste un ulteriore elemento, nascosto e più profondo. Se scomponiamo il rendimento medio del capitale in due parti, quella che attiene al tasso medio di profitto e quella che riguarda il tasso d’interesse medio sui prestiti, possiamo notare che dentro la legge di riproduzione rappresentata dalla “disuguaglianza fondamentale” c’è anche una “condizione di solvibilità” del sistema. In questa cruciale condizione si innesta anche, non per caso, l’ordine generale della politica economica, e in particolare quella che altrove abbiamo definito la solvency rule del banchiere centrale. Ora, a date ipotesi, si può mostrare che quanto maggiore sia il tasso di rendimento medio del capitale rispetto al tasso di crescita del reddito, tanto maggiore sarà il tasso medio d’interesse rispetto al tasso medio di profitto, e quindi tanto più stringente sarà la condizione di solvibilità. Ossia, in altre parole, sarà più difficile onorare i debiti accumulati. Ciò porterà a un aumento delle insolvenze, delle bancarotte e dei fallimenti dei capitali relativamente più fragili ed esposti, e quindi favorirà la loro liquidazione e il loro assorbimento a colpi di fusioni e acquisizioni a opera dei capitali più forti. È questo, per l’appunto, il moto della centralizzazione capitalistica: un fenomeno pervasivo e forse più insidioso della “tendenza dei ricchi sempre più ricchi”, perché a differenza di questa può imporsi anche in base al controllo di un capitale di cui non si è formalmente proprietari. I dati indicano che questo moto di centralizzazione dei capitali è ancora frastagliato, con varianti nazionali e geopolitiche, ma che almeno in potenza non ha limiti né confini, ed è per questo in grado di estendersi all’intero pianeta. Dalla riproduzione del sistema, dunque, si può trarre una duplice tendenza: il capitale non solo tende a crescere rispetto al reddito, come sostiene Piketty, ma tende anche, e soprattutto, a centralizzarsi in sempre meno mani. Come nell’allegoria di Bruegel, i grandi mangiano i piccoli.

I tratti essenziali della legge di riproduzione e tendenza sono stati esplicitati. Siamo dunque al cospetto di un grande meccanismo shakespeariano, funesto quanto inesorabile? O esistono controtendenze? Altrove abbiamo osservato che la centralizzazione può suscitare una reazione. I capitali più piccoli e più fragili, a rischio di liquidazione e assorbimento, possono tentare di organizzarsi per imporre al banchiere centrale e alle altre autorità di governo una linea politica orientata a mitigare le condizioni di solvibilità e a contrastare la dinamica della centralizzazione. Nasce così una lotta, tutta interna alla classe capitalista, tra aggressione dei grandi e resistenza dei piccoli. Da questo scontro, in effetti, può emergere una controtendenza con implicazioni di fase rilevanti, al limite di portata storica. Ma l’evidenza disponibile solleva dubbi sulla possibilità che una simile reazione sia in grado di sovvertire la tendenza centralizzante di fondo. Una teoria della politica economica in grado di spiegare il perché è ancora di là da venire. Tuttavia c’è motivo di ritenere che proprio la crescita del capitale rispetto al reddito abbia qualcosa a che fare con la capacità della centralizzazione di soverchiare le sue controtendenze.

La legge di riproduzione e tendenza fin qui descritta ha riflessi su varie controversie teoriche del passato. Per esempio, essa rigetta l’erronea teoria della produttività marginale decrescente del capitale, mentre non si oppone ma nemmeno necessita della tesi di caduta tendenziale del saggio di profitto. Più in generale, in chiave epistemologica, la legge descritta obbliga a cimentarsi nella difficile costruzione di quella teoria materialista della politica economica che tuttora manca all’appello nella storia della scienza. Non è però questa la sede per approfondire ulteriormente le basi e le implicazioni della legge di riproduzione e tendenza del capitale. Quanto detto finora ci pare infatti sufficiente per sollevare l’interrogativo che qui davvero preme: la tendenza del capitale a crescere rispetto al reddito e a centralizzarsi, costituisce in quanto tale una prova di tendenza del sistema verso la “catastrofe”?

Sebbene molta indagine vi sia ancora da compiere in tema, ad avviso di chi scrive è possibile dare una risposta preliminare affermativa, in un senso che trascende la mera analisi economica e investe la totalità sociale del modo di produzione. Il punto di fondo, in estrema sintesi, è che la crescita del capitale in rapporto al reddito e la centralizzazione del suo controllo sono tendenze che in quanto tali annunciano una progressiva concentrazione di potere, economico e di conseguenza politico. Come gli stessi Blanchard e Piketty pur di sfuggita rilevano, una tale dinamica del capitale non sconvolge soltanto l’assetto economico ma può avere enormi ricadute sul quadro politico e istituzionale, e più in generale sul sistema dei diritti. La centralizzazione capitalistica, in altre parole, erode la democrazia e la libertà, anche intese nel mero significato liberale. Al limite, a date condizioni, la tendenza descritta può arrivare a minare le basi stesse del liberalismo democratico. Se così andasse, verrebbe smentita la vecchia eppur tenace credenza kojeviana secondo cui il capitalismo liberaldemocratico mondializzato rappresenterebbe il meraviglioso equilibrio finale di tutta la storia umana.

L’ideologia dominante e la teoria economica che la supporta ci inducono a guardare il capitalismo con uno sguardo cristallizzato sulle sue origini gloriose, in cui una classe borghese in ascesa si incaricava di abbattere l’ancien regime dei privilegi aristocratici. In quel breve attimo della storia, la sconfitta del rentier feudale ad opera dell’imprenditore capitalista segna realmente un progresso generale, non solo economico ma anche civile e politico. La conquista del potere da parte dei capitalisti è oggettivamente un momento di sviluppo in senso liberale e democratico, per ragioni materiali piuttosto ovvie: il modo di produzione che i borghesi incarnano non solo accresce la ricchezza sociale più rapidamente ma la ripartisce anche maggiormente all’interno della società, per il semplice motivo che essi sono più numerosi dei proprietari terrieri. È per questo che il capitalismo delle origini risulta associato a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti. Il movimento oggettivo che stiamo qui analizzando, però, indica che quella fase originaria è soverchiata dagli stessi sviluppi del capitale. Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalesimo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini.

Se dunque la legge di tendenza verso la centralizzazione dei capitali troverà ulteriore conforto in analisi future, una delle implicazioni principali è che da essa potrebbero derivare anche le basi per una previsione di sbocco, come talvolta è stato definito, di «neoliberismo autoritario» (cfr. tra gli altri, Bruff 2014). La fisionomia di una catastrofe inizia a delinearsi.

Tendenza, reazione, conflitto

Nell’accezione originaria, “rivoluzione” richiama il “voltare”, il “rivolgere indietro”. In effetti sembra uno sguardo all’indietro quello che deve avere indotto Blanchard, con Larry Summers, a invocare una “rivoluzione” della politica economica per scongiurare future catastrofi. Per rivoluzione, infatti, i due intendono non molto più che un recupero del vecchio lascito keynesiano: politiche monetarie e fiscali ancor più espansive, se necessario controlli sui capitali e altre forme di repressione della finanza, cui si potrebbero anche aggiungere estensioni del welfare sotto forma di reddito di esistenza (che al di là delle retoriche non è mai stato molto più che una declinazione liberaldemocratica del keynesismo).

Beninteso, la novità non è di poco conto. Per quanto Joan Robinson non avrebbe esitato a considerarlo “bastardo”, un keynesismo così accorato ai vertici del pensiero mainstream non si vedeva da decenni. Tuttavia, da qui a considerarlo praticabile ce ne corre. Altrove abbiamo sostenuto che una tale evocazione di Keynes, per quanto influente, potrebbe risultare vana. Sebbene la storiografia metta in luce solo di rado questo aspetto, bisognerebbe ricordare che la sintesi keynesiana è stata un oggetto politico, prima che teorico. E in quanto oggetto di tal fattura venne forgiato nelle asprezze di un gigantesco conflitto epocale, tra capitalismo e socialismo sovietico. Questo fatto dialettico, mi sembra, vale in generale: oggi come allora, una sintesi keynesiana potrebbe nascere solamente sotto il pungolo del pericolo socialista. Si avverte oggi quel pungolo? Esiste uno scontro di sistema paragonabile a quello degli anni trenta del secolo scorso? Per quanto qui non si condivida del tutto la tesi di Ronald Coase – secondo cui la Cina sarebbe ormai un’economia capitalistica a tutti gli effetti (Coase e Wang 2014) – occorre riconoscere che per adesso di quel grande conflitto di sistema non vi è traccia nel mondo. Come possa quindi attivarsi la dialettica necessaria al concepimento di una nuova “rivoluzione” keynesiana, resta per il momento un mistero.

A ben guardare, però, la politica keynesiana potrebbe anche materializzarsi in senso diverso: non rivoluzionario ma reazionario. È il caso in cui venga messa al servizio esclusivo dei capitali più deboli e fragili, al solo fine di allontanare il pericolo di una loro liquidazione e rallentare così la centralizzazione nelle mani dei capitali più forti. Questa possibilità esiste. Contrariamente a quanto sostenuto da Blanchard e Summers, e in generale dalla tradizione neoclassica, la “disuguaglianza fondamentale” fra il tasso di rendimento del capitale e il tasso di crescita del reddito non è la risultante di un equilibrio “naturale” ma è piuttosto l’esito di decisioni macroeconomiche. In questo senso, una eventuale politica keynesiana interviene proprio su una componente cruciale della disuguaglianza fondamentale, quella che attiene alla differenza tra il tasso d’interesse medio sui prestiti e il tasso di crescita del reddito. È la condizione di solvibilità, in cui, abbiamo detto, opera anche la solvency rule del banchiere centrale. Manovrando allo scopo di tenere stabilmente il tasso d’interesse sotto il tasso di crescita, il policymaker keynesiano rende meno stringenti le condizioni di solvibilità del sistema, riduce le bancarotte e i fallimenti e pone così un freno alle liquidazioni e acquisizioni dei capitali deboli a opera dei forti. Insomma, una sorta di helicopter money for the petty bourgeoisie anziché for the people – che del resto già presentava il limite tipicamente populista della neutralità degli effetti distributivi nel senso di Patinkin.

Per le ragioni accennate prima, sembra difficile che questa linea di indirizzo possa soverchiare indefinitamente il meccanismo di centralizzazione del capitale. Ciò non toglie, però, che la “reazione keynesiana” può scatenare contraccolpi alla centralizzazione marxiana. In generale tenui, cioè tali da rallentarla in virtù di un compromesso tra le diverse fazioni del capitale. Oppure al limite così violenti e pervasivi da trasformare la contesa economica tra capitali in conflitto politico tra nazioni. Questo salto di livello può avvenire, ancora una volta, per ragioni materiali: da un lato capitali mediamente solvibili, più grandi e sempre più ramificati a livello internazionale, dall’altro capitali più piccoli e in affanno che operano invece maggiormente entro i confini della nazione e per questo tendono a identificarsi più facilmente in essa, magari riesumando una politica revanscista, potenzialmente xenofoba, al limite fascistoide, ma sempre a suo modo liberista. In questo rinculo keynesiano, allora, la reazione può farsi nazione, o quantomeno può chiudere la tendenza alla centralizzazione del capitale entro gabbie geopolitiche. Ossia – in un senso nuovo rispetto alle vecchie controversie – possiamo dire che nello scontro tutto interno alla classe capitalista, Keynes può muovere contro Marx. Una contrapposizione che all’estremo può sfociare in guerra, con ripercussioni prevedibili, ancora una volta, sulle istituzioni liberaldemocratiche. L’altra faccia della catastrofe viene allo scoperto.

Ecologia, tecnologia, distopia

Il fatto che nell’attuale fase storica la lotta politica resti confinata nel recinto della classe dominante ha anche altre implicazioni. Una delle più rilevanti è che ogni disputa viene plasmata dagli apparati ideologici secondo i codici di quell’unica lotta politica.

Il caso del cambiamento climatico è esemplare, in questo senso.

Il premio Nobel William Nordhaus ha sostenuto che i costi della riconversione ecologica dell’economia andrebbero sostenuti in misura maggiore dalle future generazioni, visto che grazie alla crescita economica queste risulteranno più ricche delle generazioni attuali. I movimenti ambientalisti hanno contestato questa conclusione, sostenendo che sono le generazioni presenti che dovrebbero farsi carico di evitare danni irreparabili a quelle future. Esaminiamo la controversia dal punto di vista della legge di riproduzione e tendenza del capitale. A differenza dei modelli neoclassici utilizzati da Nordhaus, lo schema alternativo riconosce il carattere indeterminato sia della crescita economica futura che dei potenziali danni provocati da una crisi ecologica. Sotto questo aspetto, dunque, esso prova che gli ambientalisti hanno ragione: occorre adottare un principio precauzionale che porti la generazione presente ad assumere qui e ora i costi di una transizione ecologica dell’economia.

La legge di riproduzione e tendenza, però, mette in luce anche un altro aspetto: né l’uno né gli altri attori di questa disputa accennano alla divisione in classi insita nel rapporto sociale di produzione. Come accade anche per altre tenzoni, sul debito pubblico come sul sistema previdenziale, ci si concentra esclusivamente su un generico conflitto generazionale. La lotta di classe sembra del tutto estranea al discorso ecologista. Eppure non ci vuol molto a capire che il conflitto sul clima è inestricabilmente legato al conflitto tra le classi sociali. A questo riguardo, lo schema di riproduzione e tendenza mostra che le crisi ecologiche impattano sui prezzi relativi del sistema in un modo che pressoché inesorabilmente, al giorno d’oggi, colpisce in misura preponderante le classi subalterne. Ma soprattutto, quello schema mette in luce che gli effetti prevalenti del cambiamento climatico non vengono catturati dai prezzi capitalistici: si tratta cioè di quella che gli economisti definirebbero una “esternalità” generale, un fenomeno che si pone al di là delle capacità di calcolo razionale del modo di produzione capitalistico. Il monopolio capitalistico della politica impedisce di visualizzare questi problemi. Con il risultato che oggi, come è stato detto, si riesce a concepire persino la fine della vita sulla Terra ma non la fine del capitalismo. Utopico o distopico che sia, anche l’immaginario è storicamente determinato.

Un’altra grande implicazione del monopolio capitalistico della lotta politica è che lo sviluppo della scienza e della tecnica assume una connotazione sociale univoca. A tale riguardo, è bene sottolineare che l’innovazione tecnico-scientifica non è mai una variabile esogena del sistema. Il processo innovativo non cade affatto dal cielo ma è parte in causa del meccanismo sociale. Forse più di ogni altro ingranaggio della riproduzione sociale, l’atto innovativo esprime sempre lo stato delle forze produttive e dei rapporti di forza nella società. L’organizzazione della produzione tecnico-scientifica è infatti in primo luogo organizzazione del potere economico della scienza. Intorno a questo potere montano le lotte politiche più feroci, ma se tali lotte vedono in azione i soli agenti capitalistici, è inevitabile che la produzione tecnico-scientifica in generale, e la produzione dell’innovazione in particolare, vengano messe al servizio esclusivo della riproduzione del capitale e dei suoi rendimenti. Si spiega così l’opera incessante di privatizzazione della conoscenza tecnico-scientifica, a mezzo di brevetti, diritti di proprietà intellettuale, contratti di segretezza. Un’opera che non si è fermata nemmeno dinanzi a una minaccia generale di morte, come il coronavirus. Gli scienziati chiedono di accantonare questa logica privatistica per mettere in comune le conoscenze, condividerle a livello internazionale e coordinare i gruppi di ricerca per accelerare la ricerca sul Covid-19. Ma nello stato attuale dei rapporti sociali di produzione, un comunismo scientifico nella lotta contro il virus (Brancaccio e Pagano 2020) rischia di essere nient’altro che una voce razionale nel deserto.

Nella sua titanica impresa, dunque, Prometeo non è affatto un eroe solitario, ma piuttosto va inteso come un pezzo dell’ingranaggio, ovvero come un operaio della scienza. E assieme a tutti gli altri operai, anch’egli è in ultima istanza messo al servizio della riproduzione capitalistica e dei rapporti a essa sottesi. In ciò risiede anche il motivo, tra l’altro, per cui dalla legge di riproduzione e tendenza del capitale scaturisce un movimento che nessuna traiettoria dello sviluppo tecnologico, in quanto tale, è in grado di sovvertire. Anzi, a date condizioni, i cambiamenti tecnici potrebbero persino accrescere il tasso di variazione delle tendenze del capitale, come in una sorta di distopia accelerazionista.

Speculazione e libertà del capitale

Dal punto di vista storico, le tendenze fin qui descritte hanno dominato lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, con una rilevante eccezione rappresentata dal cosiddetto «secolo breve». Esse infatti incontrano un freno nella Prima guerra mondiale e nella concomitante ascesa del bolscevismo, e tornano poi in auge con l’inizio della crisi sovietica e l’ascesa di quella fase politica talvolta definita «controrivoluzione neoliberista». Questa è l’epoca in cui si riafferma il primato di una forma specifica di libertà: quella dei proprietari del capitale di muovere le ricchezze e di speculare sui mercati senza più ostacoli di legge. L’apparato ideologico che accompagnò quella svolta si basa su un’idea in fondo semplice: l’efficienza del libero mercato, in particolare del mercato finanziario, porta pace e prosperità. È la visione tuttora prevalente, che però non trova il conforto dei fatti. In realtà, quando le forze che operano sul mercato vengono lasciate libere di espandersi, il sistema risulta continuamente soggetto al movimento speculativo: vale a dire all’istinto, degli agenti del capitale, di guadagnare dalle mere differenze di prezzo tra acquisto e vendita delle merci, dei titoli che le incarnano, delle tecniche, persino dei cambiamenti climatici. Insomma, di qualsiasi oggetto di transazione.

Come è ormai noto anche a Shiller e ad altri esponenti della dottrina economica prevalente, l’impulso speculativo non è affatto un sintomo di efficienza del sistema. Al contrario, esso contribuisce in modo decisivo all’alternarsi di euforia e depressione, al sottoutilizzo sistematico dei mezzi di produzione, alla selezione avversa dei processi tecnico-scientifici, e in generale a quel fenomeno caotico che va sotto il nome di “disorganizzazione dei mercati”. Una disorganizzazione che si manifesta, tra l’altro, nella setacciatura del futuro: conta solo ciò che contribuisce all’accumulo privato di capitale, mentre viene quasi del tutto scartato ciò che riguarda l’avvenire collettivo, come ad esempio la prevenzione dei disastri sistemici.

Come Marx ben sapeva, l’impulso speculativo non è un retaggio della vecchia economia antecedente all’accumulazione primitiva, ma è una caratteristica intrinseca del capitalismo sviluppato. Si può dimostrare, in questo senso, che il moto della speculazione è addirittura alla base della legge di riproduzione e tendenza (Brancaccio e Buonaguidi 2019; Algieri, Brancaccio, Buonaguidi 2020). Questa evidenza ha un’implicazione importante, per il nostro discorso. Se la libertà del capitale mobilita la speculazione, e se la speculazione è alla base del meccanismo che alimenta la crescita del capitale rispetto al reddito e la centralizzazione del suo controllo, allora possiamo arrivare ad affermare che la libertà del capitale non è solo un propagatore di inefficienza sistemica ma costituisce essa stessa una minaccia potenziale per la democrazia liberale. Potremmo dire che la libertà finanziaria degli agenti del capitale tende a soffocare le altre libertà, gli altri diritti. Esperimenti di fascismo liberista in effetti non sono mancati nella storia. Per le ragioni suddette c’è motivo di ritenere che in prospettiva possano propagarsi. C’è un’amara ironia, in questo grande inviluppo.

Polarizzazione e uniformizzazione

Al pari del modello di von Neumann, delle equazioni dei prezzi di Sraffa o delle tavole input-output di Leontief, la legge di riproduzione e tendenza fin qui descritta è un mero schema, confinato nella struttura economica del sistema. Diversamente dai suoi predecessori, però, questo inedito scheletro logico coltiva anche la pretesa di dire qualcosa sui movimenti della sovrastruttura politica. Pretesa immane solo in apparenza, se si ammette che nemmeno un passo nel “continente storia” può ragionevolmente compiersi se si rinuncia a coltivarla.

Riassumiamo allora la tesi in questione, semplice e netta. La tendenza alla crescita del capitale rispetto al reddito e alla centralizzazione del suo controllo in sempre meno mani, non sembra compatibile con il mantenimento futuro della democrazia, della libertà, al limite della pace, almeno così come oggi le intendiamo. Il moto profondo del sistema costituisce in sé una minaccia per la sopravvivenza delle istituzioni su cui reggono le democrazie liberali contemporanee. E nella misura in cui la lotta politica sia pressoché tutta interna alla classe capitalista, quel moto non sembra ammettere esiti alternativi: se cioè tutto si riduce al gioco di fazioni interno al capitale, allora lo schema tratteggiato è self-contained. Una vecchia ma non desueta eresia trova così ulteriore sostegno: la libera razionalità individuale dei singoli agenti del capitale guida cecamente verso una catastrofica e illiberale irrazionalità di sistema. Con mezzi di analisi un po’ più generali rispetto ai consueti equilibri non cooperativi di Nash, una nuova vendetta si consuma contro la «mano invisibile» di Adam Smith.

La biforcazione blanchardiana, da cui siamo partiti, sembra quindi trovare una conferma e una smentita: c’è un meccanismo interno al modo di produzione che effettivamente muove verso la “catastrofe”, ma questo stesso meccanismo tende a piegare un’eventuale svolta keynesiana in senso reazionario piuttosto che “rivoluzionario”. Il suono dell’inevitabilità sembra riecheggiare persistente, in questa minacciosa conclusione. Ma qui non si vuol celebrare nessuna filosofia negativa della storia. Né al contempo si vuol cadere nell’idiotismo di chi immagini una totalità “aleatoria” in cui tutto sia improvvisamente possibile, magari solo in virtù di un agire incosciente e speranzoso. Il vincolo epistemologico su cui si vuole qui insistere, è che in ultima istanza tutto deve scaturire dallo schema: come la linea verso la catastrofe è una risultante della legge di riproduzione e tendenza, così dovrebbero esserlo anche i suoi eventuali sovvertimenti.

Uno spunto, in questo senso, viene dalla constatazione che tutte le previsioni che si sono finora irradiate dall’analisi assumono un dato: che ogni lotta si sviluppi dentro la classe egemone, tra i soli agenti del capitale. Si assume cioè che la classe lavoratrice, la classe subalterna, resti silente sul piano politico, e quindi ridotta a variabile residuale nello schema economico. Tale residualità dei subalterni, tra l’altro, accresce le possibilità di risoluzione pacifica delle contese tra grandi e piccoli capitali, magari sotto la bandiera di una centralizzazione che rallenta ma non si arresta. Ora, sebbene questo sia un preciso tratteggio dell’attuale fase storica, dobbiamo per forza ritenerlo valido anche per il futuro? A questo cruciale interrogativo la legge di riproduzione e tendenza può fornire tracce essenziali per una risposta. Il punto è che il movimento verso la crescita del capitale rispetto al reddito e verso la sua centralizzazione in sempre meno mani, è in quanto tale distruttivo per i gruppi sociali intermedi: piccoli capitalisti, ceti medi più o meno riflessivi, borghesia minore, esponenti delle professioni, quadri privati e pubblici, padroncini e rentiers marginali, questo aggregato di corpi centrali è destinato a erodersi: sospinti in piccola parte verso l’estremo superiore della scala sociale, mentre la restante gran parte viene man mano scaraventata verso il basso, i componenti di questo mondo di mezzo finiscono per ingrossare le file degli strati subalterni. Al pari della centralizzazione che lo induce, questo moto potrà arrestarsi e anche indietreggiare in certi momenti, ma sul piano della logica è destinato a imporsi. I dati storici, ancora una volta, vanno in questa direzione. Con buona pace di Bernstein e dei suoi epigoni, la legge di riproduzione e tendenza alla centralizzazione del capitale è anche legge di polarizzazione delle classi.

Infine, la polarizzazione sembra assumere anche i tratti di una tendenziale uniformizzazione delle condizioni della classe subalterna. È una dinamica che avvicina le condizioni di vita e di lavoro a livello internazionale, generalmente dando luogo a una loro convergenza verso il basso (Brancaccio, De Cristofaro, Filomena 2019). Ma uniformizzazione, a ben vedere, significa molto di più. Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani, quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati. Che si tratti di nativi o di immigrati, di donne, uomini o transgender, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale. Questo processo di universalizzazione del lavoro mette in crisi le vecchie istituzioni, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta i confini nazionali che dividevano la forza lavoro interna da quella esterna. È un movimento che per forza di cose abbatte gli antichi equilibri sociali basati sulle discriminazioni di genere e di razza, e che mette pure in crisi le istituzioni familiari e le convenzioni sociali che soprintendono ai legami affettivi e sessuali: che la forza lavoro sia etero oppure lgbtqiapk, per intenderci, non fa la minima differenza per il capitale. Ma quello stesso movimento, al tempo stesso, risulta guidato da una pura logica di acquisizione di forza lavoro indifferenziata ai fini della intensificazione dello sfruttamento. Pertanto, quali che siano il genere, l’orientamento sessuale, la provenienza, l’etnia, col tempo il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo. Anche l’uniformizzazione di classe è movimento contraddittorio, come ogni altra cosa del capitale.

Nuovo capitale umano

C’è un ultimo movimento, che la legge di riproduzione e tendenza mette in atto e del quale Marx e alcuni suoi epigoni ben conoscevano l’importanza. È il fatto che la legge del capitale implica un progressivo assorbimento di nuova forza lavoro nel processo di accumulazione. Man mano che il capitale si accumula e si centralizza, ulteriore forza lavoro viene prelevata e agganciata alla macchina capitalistica globale. Gambe, braccia e sinapsi di classe, operanti nei più sperduti angoli del mondo, da quel momento e tramite lunghissimi fili vengono guidate da consigli direttivi situati nei nuclei più centrali e ramificati del sistema, e il tutto avviene sotto il dominio di una legge di movimento impersonale.

Con questo ingresso nel sistema, la forza lavoro muta in ingranaggio, pezzo indistinguibile della macchina, operaiato. Questo accade, si badi bene, nel lavoro semplice come in quello più sofisticato, e di riflesso dall’azione produttiva in senso stretto si spande poi ovunque: nel consumo come nelle relazioni sociali e personali, nell’atto ludico e nel pensiero sparso, nel dolore come nell’appagamento di un desiderio. Lo “stare attaccati alla macchina”, in questo senso, è un’espressione che si generalizza e si fa metafora del mondo: non più banalmente soltanto l’operaio industriale o il malato in terapia intensiva, ma chiunque in qualsiasi luogo e momento, in fabbrica come in camera da letto, che si trovi impegnato in pensieri, parole, opere, omissioni e sensazioni, sono tutti costantemente “attaccati alla macchina”. Così, dalla produttività, alla sessualità, all’affettività, tutto della vita diventa tecnico. I teorici della biopolitica hanno vagamente intuito qualcosa, di questo destino di colonizzazione capitalistica delle esistenze. Ma la loro miope epistemologia ha impedito di trarne le implicazioni di fondo. Perché il punto essenziale, qui, è che la tesi marxiana secondo cui la storia umana non è altro che una continua trasformazione della natura umana, va intesa nel senso che la legge di riproduzione e tendenza del capitale è anche legge di riproduzione e tendenza di un nuovo tipo umano capitalistico. Anzi, diciamo pure nuovo capitale umano, un’espressione che viene così liberata dalle aporetiche e infantili concettualizzazioni neoclassiche di Becker e dei suoi seguaci. Ben più persistente e pervasiva delle edificazioni del virile uomo nuovo mussoliniano o dell’altruista nuova umanità sovietica, è dunque in atto una riproduzione tendenziale, continuamente modificata, di un nuovo tipo umano: un nuovo capitale umano.

Quale rivoluzione

Lo schema di analisi fi qui tratteggiato ha raggiunto il suo limite estremo di applicazione. Non è un caso che ciò sia avvenuto dinanzi all’articolarsi dell’umano dentro il termine “classi”, dove anche i più fecondi manoscritti, come è noto, si interrompono. Restano tuttavia le ultime domande in sospeso, che non possono essere eluse.

In breve: il fatto che la tendenza alla centralizzazione dei capitali implichi un movimento oggettivo verso la polarizzazione e l’uniformizzazione di classe e l’accumulo di nuovo capitale umano, può esser considerata una ragione sufficiente per prevedere uno sviluppo della lotta politica oltre il perimetro del gruppo sociale dominante? E questa dinamica, in quanto tale, può rendere nuovamente ammissibile il cenno blanchardiano a una “rivoluzione” capace di scongiurare la “catastrofe”?

C’è qualcosa, in queste domande, che le rende particolarmente ostiche. Esse chiamano in causa un elemento che opera “dall’esterno”, direbbe Lenin, ovvero al di là dello schema che descrive la legge di riproduzione e tendenza. Definirlo “soggettivo” darebbe luogo a una pletora di incomprensioni. Meglio il termine “intelligenza collettiva”: un oggetto materiale, neuroscientifico, di cui evidentemente bisognerà delineare una genesi. Da questo punto in poi la selva del “continente storia” si fa ancor più fitta, quasi imperscrutabile con i mezzi impiegati finora. Il canone accademico indurrebbe a fermare il discorso qui e ora, tra le mura scientifiche della legge di movimento. Ma proprio l’incedere catastrofico di questa non lo consente. Restando fedeli al metodo, c’è ancora un passo che dobbiamo cercare di compiere verso l’entroterra del nuovo mondo.

Ricapitoliamo l’intrico di filiazioni della legge di riproduzione e tendenza alla centralizzazione: speculazione e disorganizzazione dei mercati, distopia accelerazionista, polarizzazione e uniformizzazione di classe, formazione di nuovo capitale umano nel senso suddetto, e al contempo una libertà del capitale che nel suo espandersi minaccia di catastrofe le altre libertà e lo stesso liberalismo democratico. Il grande meccanismo è così interamente dispiegato. Alcuni dei suoi ingranaggi appaiono indubbiamente ancora fragili, essendo per adesso ricavati solo da una sorta di variante economica del «paradigma indiziario» (Ginzburg 1979). Ma tutti sono comunque bene attaccati all’albero motore della legge di riproduzione e tendenza, che al contrario può vantare una precisa logica di movimento. Un movimento, come abbiamo visto, vocato a una totalità che non ammette esodo o eremitaggio, e soprattutto risulta pressoché insensibile alle correzioni di rotta. Sono infatti gli oggetti a esso estranei che a quanto pare vengono centripetati, fagocitati, plasmati. Questo vale in particolare per gli oggetti politici. Nel grande meccanismo, la rivoluzione keynesiana si riduce a mera reazione piccolo borghese, e con essa le propaggini del reddito di esistenza o della moneta per il popolo. Ma anche un illuminato accelerazionismo tecnologico (Williams e Srnicek 2013) muta in propulsore distopico, e così analogo destino subirebbe probabilmente ogni altro manifesto per un «capitalismo progressista» (Stiglitz 2020).

Talmente pervasiva è dunque la legge di movimento verso la “catastrofe”, che l’unica “rivoluzione” in grado di scongiurarla sembra possibile solo in virtù di un movimento eccezionale, una mossa inedita. Quale mossa può mai servire in tal senso? Una metafora seducente, per certi versi affine, è la pratica yawara del judo “scientifico”: adeguarsi alla forza avversa, quindi sfruttarla per piegarla in avanti, fino a ottenere il suo rovesciamento e il suo controllo. Gesto elegante, di indubbio fascino. Ma quale può mai essere il suo corrispettivo nella dura prassi della politica? Ebbene, c’è motivo di supporre che questo può risiedere solo in una paziente opera di costruzione, in un lavoro di edificazione di una nuova intelligenza collettiva, per un nuovo scopo. L’obiettivo principale di questo emergente comune intelligere dovrebbe infatti consistere nell’esercitare le nuove leve a comprendere l’arcano della legge di movimento del capitale, e a scoprire che tra i suoi potenti ingranaggi covano immani contraddizioni interne. Quale sia il nucleo di queste contraddizioni è presto detto. Centralizzazione, polarizzazione e uniformizzazione di classe, riproduzione di nuovo capitale umano, hanno una doppia implicazione: da un lato ci avvicinano al catastrofico orizzonte concentrazionario e illiberale prima descritto, ma dall’altro lato oggettivamente erodono le eterogeneità tra i subalterni, concretamente rideterminano la loro universalità, e proprio attraverso questa via aprono opportunità politiche inedite. Man mano cioè che il capitale si ammassa nelle mani di un manipolo sempre più ristretto di capitalisti, man mano che il loro potere si concentra e ci si avvicina alla catastrofe della liberaldemocrazia, diventa al contempo sempre più difficile frastagliare gli interessi della classe subalterna, e risulta sempre più oneroso l’antico esercizio macedone del dividere per dominare. In una impersonale eterogenesi dei fini, mentre cresce la potenza del capitale centralizzato, monta al contempo la fragilità del suo monopolio politico. Più vicina è la catastrofe, più vicina è l’occasione di una svolta.

Duro è l’insegnamento che si trae da questo nuovo intelligere collettivo, che per forza di cose è tale solo se avanguardista, e dunque nemico di ogni possibile “codismo”. Se si intende il mondo nei termini fin qui descritti, si arriva a capire che solo nelle trasformazioni sociali operate dal movimento oggettivo del capitale, un’intelligenza collettiva può trovare condizioni fa- vorevoli per il rovesciamento del rapporto di produzione. Diventa chiaro, allora, che l’ammorbante, continuo vezzeggio del cosiddetto ceto medio è inesorabilmente politica “codista” verso i piccoli capitali e le loro rappresentanze politiche. Una politica tanto diffusa quanto fallimentare, che porta ad assecondare ogni possibile “reazione” piccolo borghese, con le sue tipiche suggestioni bigotte, familiste, ultranazionaliste, intrise delle illusioni del populismo interclassista, e che conduce fuori dalle contraddizioni di fondo del sistema. I medi, insomma, sono passato che resiste. Solo nella consapevolezza di questa collocazione temporale, al limite, si potrà interagire politicamente con essi. Perché solo la polarizzazione, l’uniformizzazione di classe e lo sviluppo di nuovo capitale umano creano condizioni concrete per il cambiamento.

Ma c’è anche un opposto “codismo” che va scongiurato, che consiste nell’ancor più diffusa tentazione di mettersi sulla scia dei grandi capitali e delle loro rappresentanze politiche. È la politica passiva che scaturisce dall’illusione secondinternazionalista, hilferdinghiana, che il movimento oggettivo del capitale porti in sé al rovesciamento del rapporto sociale. Ma non è affatto così. Per piegare le immani forze della legge di movimento occorre che l’intelligere di classe si riunifichi, pensi e agisca intorno a una chiave, una parola d’ordine, una bandiera per l’egemonia. La stessa legge fin qui descritta porta in quanto tale a ritenere che questa chiave sia la modernità della pianificazione collettiva. Tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza, devono riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo. E tutte le iniziative devono quindi essere riconcepite nella cornice logica del piano. Anche le proposte più generose e illuminate, come il controllo democratico della regola di solvibilità del banchiere centrale, dell’ingresso dello Stato negli assetti proprietari del capitale, dei movimenti di capitale e più in generale della bilancia dei pagamenti e delle connesse relazioni internazionali in base a determinati “standard sociali” – proposte che chi scrive ha sostenuto – non possono più essere accolte acriticamente. Così come, simmetricamente, la lotta per il reddito non è più detto che si riduca a piccolo riformismo liberale. Tutte le iniziative, infatti, assumono carattere rivoluzionario oppure reazionario a seconda che siano o meno intese come tasselli del piano collettivo.

Il piano, dunque. Ecco finalmente una leva forte, la più forte mai concepita nella storia delle lotte politiche, l’unica potenzialmente in grado di piegare la legge di movimento del capitale prima che ci affossi nella catastrofe. Ma come si fa a definire “moderna” una simile arma economica? Come si può affrancarla dalla storiografia mainstream del Novecento? Come la si monda dalle lacrime e dal sangue del passato? Un modo intellettualmente terso esiste, e va praticato. Si tratta di cimentarsi in un esercizio di sintesi tra la pianificazione collettiva e un concetto solo in apparenza antagonistico: la libertà individuale. L’idea dell’assoluta impraticabilità di una simile miscela è la litania del nostro tempo, una costante della comunicazione politica, anche in assenza di una minaccia effettiva, come se lo spettro del piano agitasse continuamente il sonno dei comunicatori del capitale. Gli odierni apparati ideologici insistono infatti con l’idea secondo cui pianificazione, in quanto sinonimo di stalinizzazione, sarebbe anche intrinseco fattore distruttivo delle libertà individuali, le quali di contro sarebbero tutelate solo nell’organizzazione capitalistica della società. In realtà le cose stanno diversamente. Noi, discutendo di fascismo liberista, abbiamo già smentito l’equazione capitalismo uguale diritti. Non solo le sanguinarie dittature capitaliste della storia passata, ma anche le prospettive future delineate dalla legge di movimento, indicano che nei fatti la libertà del capitale costituisce una potenziale minaccia per tutte le altre libertà e per lo stesso liberalismo democratico. Inoltre, a ben guardare, anche l’idea del piano come sinonimo di oppressione autoritaria è in quanto tale fallace. Basti ricordare un fatto ovvio: la storia della pianificazione va molto al di là del naufragio sovietico e lambisce persino un tempio del libero mercato come gli Stati Uniti (Leon- tief 1974). La verità è che la logica profonda del rapporto tra piano e libertà è ancora tutta da esplorare.

Non possiamo percorrere il lungo filo della riflessione di Marx e dei suoi continuatori su questi temi e in generale sulla “libertà comunista”. Qui preme solo ricordare un punto fondamentale. Nella riflessione marxiana il controllo collettivo della totalità delle forze produttive è condizione per lo sviluppo della totalità delle capacità individuali. La libera espressione dell’individualità si manifesta, in altre parole, solo nella repressione della libertà finanziaria del capitale e nel comunismo pianificatore della tecnica. Vale la pena di aggiungere che questa libera espressione della totalità di ca- pacità individuali attiene alla totalità delle azioni, delle percezioni sensoriali, dell’immaginazione e della creatività in ogni attività umana: dunque non richiama solo la potenza produttiva del lavoro o l’illimitatezza delle possibilità di consumo, ma coinvolge anche lo sviluppo dell’esercizio pedagogico, del gioco, della cura, della sessualità, degli affetti, di quella che con Engels e Kollontaj si potrebbe definire la produzione sociale dell’amore. Anticipando i più recenti sviluppi delle neuroscienze sociali, Marx scrive che i cinque sensi e la sensibilità umana in generale sono vincolate dal rapporto proprietario privato, e possono trovare condizioni di espansione nel suo superamento. Ossia, nel momento in cui il capitale centralizzato si socializza in un piano collettivo, cambia anche il rapporto tra storia e natura umana. Viene infatti raggiunto il limite estremo della legge di riproduzione del tipo umano capitalistico, e si creano quindi le condizioni per la produzione sociale di una nuova umanità, in grado di fare dello sviluppo della materialità corporea e psichica un esercizio ludico complesso, raffinatissimo, liberato.

Il Keynes di Bloomsbury l’aveva intuito, arrivando a dare un cenno di fiducia all’esperimento sovietico dei primordi, ancora non stalinizzato, inteso per l’appunto come laboratorio per una nuova forza motrice dell’azione umana (Keynes 1925). Al contrario, Freud ebbe troppa fretta di ridurre erroneamente quello stesso esperimento a una mera celebrazione delle ingenuità antropologiche dell’Emilio rousseauiano (Freud 1930). Gli stessi freud-marxisti sembrano non aver colto tutte le implicazioni potenziali della pianificazione ai fini della liberazione. Nell’indagine sulla nuova umanità liberata dal piano c’è dunque un oggetto scabroso – queer, oseremmo dire – che è ancora tutto da esplorare. Se non cominceranno presto questa indagine, gli stessi movimenti di emancipazione civile contro il razzismo e le discriminazioni sessuali saranno travolti dalla crisi del liberalismo democratico, che al momento costituisce il loro unico, angusto orizzonte ideologico.

Piano è libertà, dunque, in un senso costruttivo che va ben oltre le semplificazioni del liberalismo sul carattere negativo o positivo delle libertà. Lo si chiami libercomunismo, in senso non liberale ma addirittura libertino, o gli si trovi pure un nome meno capace di épater le bourgeois, fa lo stesso. Quel che conta è indicare la via per l’unica rivoluzione capace, in prospettiva, di scongiurare la catastrofe.

Virus capitale

Nel momento in cui scriviamo, il mondo affronta con strumenti poco più che medievali un virus che in una manciata di mesi ha fatto un milione di morti nel mondo, ha inibito la relazionalità umana più di quanto abbia fatto negli anni la piaga dell’aids, e ha provocato il più repentino tracollo economico nella storia del capitalismo. La pandemia ha fatto precipitare il già fragile quadro economico mondiale in un abisso la cui profondità surclassa la crisi di un decennio fa e può andare persino oltre la grande depressione del secolo scorso. Nel mezzo di una tale voragine la risposta sanitaria ed economica è stata poco più che ordinaria, tra un improvvisato keynesismo dei sussidi e una ricerca contro il virus irrigidita dai diritti di proprietà intellettuale e dall’assenza di accordi di cooperazione scientifica globale. L’invocazione razionale per un «comunismo scientifico nella lotta al virus», abbiamo detto, cade inesorabilmente nel vuoto. Così, tra incertezza sanitaria e ignavia politica, il ritorno al pur modesto sentiero di sviluppo ante-covid appare ormai un miraggio. Le previsioni degli esordi, di una crisi a “forma di v” caratterizzata da un rapido declino e un altrettanto veloce recupero, sono solo uno sbiadito, imbarazzante ricordo.

Questa “crisi totalitaria”, che interviene a tutti i livelli del sistema, è destinata a imprimere una spaventosa accelerazione alla legge di riproduzione e tendenza fin qui descritta. Le cause risiedono nel crollo della domanda effettiva, con una paralisi particolarmente accentuata degli investimenti privati; nel calo di produttività, anche per gli effetti delle regole di distanziamento sociale sui processi di produzione e distribuzione; e in una generale “disorganizzazione dei mercati”, che destabilizza le catene internazionali del valore, crea al contempo sprechi produttivi e problemi di approvvigionamento, e per questa via alimenta il fuoco della speculazione. La solvibilità del sistema, che è alla base delle condizioni di riproduzione, si fa inarrivabile per i capitali più deboli e favorisce così la tendenza alla centralizzazione nelle mani dei capitali più forti. L’orizzonte catastrofico è più vicino. Un’intelligenza collettiva rivoluzionaria è tutta da costruire.

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