Partiamo dalla fine, per essere chiari. Il 24 e 25 settembre sono state indette due giornate di sciopero e mobilitazione dai sindacati di base (USB, Cub, UniCobas e alcune sezioni dei Cobas). Queste due giornate sono state fatte proprie da alcune organizzazioni studentesche e da numerosi collettivi universitari. Riteniamo che quelle due giornate di mobilitazione siano importanti. Cerchiamo di spiegare il perché e, contemporaneamente, il motivo per cui non ci convince affatto la mobilitazione prevista per sabato 26 da alcune associazioni e dai sindacati confederali.
Le false narrazioni
Ragionare in maniera sensata e convincente su ciò che accadrà a settembre nelle scuole e nelle facoltà, in effetti, non è semplice. Pesano, infatti, la cortina di fumo e le false promesse rilasciate a ogni pie sospinto dalla ministra Lucia Azzolina, rilanciate ripetutamente dai media e avallate dai sindacati confederali ed autonomi. Si fa un gran parlare di rientro in sicurezza, di investimenti, di nuovi spazi e assunzioni. Quindi occorre, in primo luogo, cercare di avere un quadro più chiaro.
Ad oggi gli unici provvedimenti in qualche modo certi sono la firma di un protocollo tra il governo e i principali sindacati dove, all’interno di un fiume di parole di cui si fatica a comprendere l’utilità, si fa cenno a una ripartenza in presenza per le scuole dell’infanzia, vengono riportate alcune norme di monitoraggio, viene ribadita la necessità del distanziamento.
Venduto questo protocollo come la certificazione di una vittoria sul rientro in presenza, i sindacati si apprestano a una manifestazione sabato 26 a scuole chiuse in cui celebrare sostanzialmente se stessi e il governo.
Ma le cose, purtroppo, non stanno cosi.
Spazi e personale
È opinione comune che le condizioni minime per il rientro siano da ricercare nella possibilità di avere spazi adeguati e un numero di lavoratori sufficienti. Siamo alla seconda metà di agosto, il rientro è previsto per la metà di settembre e tutte e due le condizioni non sembrano in grado di essere garantite. Il problema degli spazi è stato affrontato lasciando autonomia di azione ai singoli istituti scolastici. La risposta sarà quindi, per forza di cose, molto eterogenea. La recente intervista della ministra Azzolina che si lascia scappare l’affermazione secondo la quale si sta pensando di utilizzare i bed and breakfast sparsi per il territorio lascia intravedere come, nella realtà, siano moltissime le scuole e le università a non avere le carte in regola.
Ancora di più, la confusione regna sovrana sul numero di lavoratori effettivamente a disposizione: ovviamente ci viene detto che dovremmo dire addio alle cosiddette “classi pollaio” ma per farlo servono docenti in gran numero. A oggi sono stati annunciati circa 40 mila nuovi assunti precari, con un contratto che prevederà la cessazione in caso di riavvio della didattica a distanza. Successivamente, sempre la ministra ha parlato in una intervista televisiva di 85 mila docenti da assumere a tempo indeterminato su cui si sarebbe impegnato il ministro dell’economia Gualtieri.
Niente è scritto nero su bianco, ma è comunque facile fare due calcoli per dimostrare che questi numeri, sparati un po’ a casaccio, non sono assolutamente sufficienti a garantire la ripartenza in sicurezza del mondo scolastico e universitario.
Su questo punto spendiamo qualche parola in più visto che è l’elemento decisivo.
Nell’anno scolastico che si è concluso a giugno sono andati in pensionamento circa 30 mila lavoratori della scuola. La loro sostituzione integrale confermerebbe la condizione esistente dove, in media, ogni classe è formata da 25/30 studenti. Chiunque può verificare come la maggior parte delle aule sono già ora fuorilegge in quanto lo spazio non è sufficiente in base alle regole ordinarie sulla sicurezza. In caso di rispetto delle norme sul covid la situazione diventa, ovviamente, ancora più complessa. Quindi, i 40 mila docenti assunti con quello che può essere definito come un contratto a progetto coprono, a malapena, il turnover normale.
Le 85 mila assunzioni che sarebbero garantite da Gualtieri, anche ammettendo che si realizzeranno, sono assolutamente insufficienti in quanto l’anagrafe delle scuole indica come gli edifici scolastici siano circa 60 mila in tutta Italia considerando le quasi 50 mila scuole pubbliche e i circa 11 mila istituti paritari.
Per non perdersi nelle cifre, ciò significa, nell’ipotesi di prendere per oro colato gli annunci televisivi del ministero, che ci sarà in media uno o due lavoratori in più per edificio. Per garantire il distanziamento previsto il corpo docenti dovrebbe essere quasi raddoppiato. Ovviamente tralasciamo la questione per cui la scuola italiana, invece di abolire il precariato, lo rende ancora più gravoso: ad oggi, infatti, i precari venivano assunti con contratto annuale e avevano diritto a riposi e garanzie come tutti i loro colleghi, in estate la maggior parte di loro aveva ottime possibilità di essere riassunto. I nuovi 40 mila saranno invece assunti con la clausola che permette di essere licenziati in qualsiasi momento in caso di necessità sanitarie che prevedono il riutilizzo massivo della didattica a distanza.
Un ottimo risultato per chi, come il Movimento 5 Stelle, aveva sostenuto che occorreva eliminare la piaga del precariato nella scuola: non solo lo si mantiene ma si aumentano a dismisura i disagi e la ricattabilità del personale infliggendo un ulteriore colpo ai lavoratori e peggiorando la qualità didattica.
La cruda realtà delle cifre è questa: nel recente protocollo firmato dal governo e dalle tre sigle confederali si dice, nero su bianco, che è garantito il ritorno in presenza per le scuole dell’infanzia mentre per gli istituti superiori si indica come modello la didattica mista. Si prende effettivamente atto che spazi e docenti non saranno sufficienti a garantire la riapertura delle scuole in sicurezza. La DAD quindi entra a pieno diritto nel novero delle attività normali e per questo si fa cenno alla necessità di aprire un tavolo tra il ministero e i sindacati per normarne l’utilizzo.
Diritto all’istruzione e sicurezza sociale
Ci sembra quindi abbastanza chiaro che la “narrazione” sul ritorno a scuola in sicurezza è un cumulo di bugie. In effetti, il mondo della scuola e le famiglie chiedevano questo e hanno fatto capire in più modi negli ultimi mesi di non voler transigere sulla questione. Ma la richiesta del ritorno nelle aule in presenza e il diritto alla salute e alla prevenzione non vanno disgiunti. Questo è demandato all’applicazione di norme, anche di buonsenso, come il monitoraggio attraverso i test diagnostici per il personale e le norme riguardanti il non accesso per coloro che manifestassero alcuni sintomi para influenzali. Tuttavia, in assenza di provvedimenti concreti, di spazi e di personale cosa succederà nelle classi quando la metà degli studenti sarà costretta a stare a casa perché leggermente indisposto? La risposta logica è una sola: arriverà il momento in cui il diritto allo studio e quello alla salute e alla prevenzione renderanno di fatto impossibile gestire la didattica in presenza e si tornerà alla DAD. È questo il destino dell’accordo?
Il segno classista dell’inerzia governativa
Non va ovviamente meglio per l’istruzione universitaria dove l’autonomia degli atenei la farà da padrone. Avremo infatti università che garantiranno, almeno in partenza, il 100% di didattica in presenza e altri atenei che ne garantiranno solo una piccola percentuale. La gerarchia tra istituti di serie A e quelli di serie inferiori diventerà quindi la regola molto di più di quanto accade normalmente. Ciò impatterà in particolar modo sul diritto allo studio delle classi meno abbienti. In realtà questo è il vero segno classista e antipopolare che marchia tutta la vicenda.
La DAD infatti non è solo un problema di qualità didattica e pedagogia, è un problema che aggrava le condizioni di disparità sociale rendendo molto diseguale il percorso di apprendimento tra coloro che hanno possibilità di avere collegamenti internet veloci e chi non se li può permettere, tra chi ha la possibilità di spazi personali per lo studio e chi non li ha, tra chi ha la possibilità di essere seguito e aiutato dalla famiglia e chi dovrà cavarsela senza alcun appoggio.
Uno scenario distopico.
Per gli studenti universitari esiste poi un problema ancora più grande. La questione della disparità tra gli atenei, un vero e proprio elitismo. Nel mondo dell’università il rientro in presenza è questione lasciata agli atenei e alla loro capacità economica per garantirlo, gli atenei di serie A riescono in alcuni casi anche a garantire il totale rientro in presenza (politecnico di Torino) invece atenei di serie B quali quello genovese a malapena dichiarano un 20% di rientro in presenza. Quindi in prospettiva avremo atenei eccellenti che garantiranno il flusso unidirezionale di nozioni in presenza e atenei che si troveranno obbligati a garantire una eccellente DAD, questa la logica della competizione pura. Sulla DAD non dilunghiamoci, DAD vuole dire precarizzazione maggiore del corpo docenti e del personale, chiaramente corsi a numero aperto e classi da molteplici centinaia di studenti. La lezione in presenza diventerà un bene prezioso raggiungibile solo dai più abbienti, coloro capaci di sostenere le alte tasse degli atenei di serie A, lo spostamento fuori-sede e fare gli studenti a tempo pieno potranno ricevere l’alta formazione, invece gli altri potranno scegliere tra le mille proposte di Università in DAD tra i vari atenei di serie B e C oramai estremamente simili alle università private. In questo contesto bisogna calare la figura dello studente-lavoratore, sempre più lavoratore-studente che ora diventa vera e propria carne da macello per far ripartire il mercato del lavoro. Come ha ammesso il ministro Gualtieri, ci sarà bisogno di una intensificazione del precariato e nell’Italia che vive di terziario e piccole proprietà i giovani saranno sempre più lavoratori e sempre meno studenti.
La scuola e il resto della società. Per lottare uniti
La scuola e il mondo dell’istruzione non possono tollerare tutto questo. Non possono neppure tollerare che un governo con la complicità di sindacati acquiescenti faccia finta di aver risolto un problema che è ancora tutto sul campo. Il problema di questo governo è che la “narrazione” progressista non è affiancata da nessun atto concreto. Abbiamo passato una estate in cui è caduto il silenzio sugli interventi di ricostruzione e potenziamento della sanità pubblica, mentre si continuano a privatizzare interi servizi in quel settore. Una estate in cui discutere di come e quando ritornare a licenziare o di quanto tempo prolungare la cassa integrazione tralasciando il dettaglio che molti lavoratori non hanno visto un solo euro o aspettano ancora gran parte delle mensilità. Una estate in cui i media e i commentatori hanno fatto a gare nell’incensare un governo che avrebbe raggiunto un accordo definito storico sul cosiddetto Recovery Fund di cui però si faticano a comprendere la portata, le condizionalità, i tempi e l’utilizzo possibile nella realtà della crisi odierna. Un accordo che è stato trattato come la panacea economica di una ripresa in cui, ad essere ottimisti, recupereremo un decimo del Prodotto Interno Lordo bruciato in questi mesi. Di questi soldi si è dimenticato di dire che sono insufficienti, che probabilmente se arriveranno, sarà tra molti mesi. Si è dimenticato di chiedere ai nostri governanti quanti di questi soldi saranno spesi per garantire i diritti fondamentali: lavoro, sanità, trasporti, diritto alla casa e all’istruzione.
A settembre sarà chiaro che la pandemia con il suo portato, rischia di aggravare ulteriormente le disparità sociali colpendo settori fondamentali della società. L’istruzione e il diritto allo studio sono tra questi, la loro salvaguardia reale è un bene troppo grande per relegarlo a una propaganda falsa, per gestirlo con presidi e falsi scioperi. L’istruzione è il campo dove il concetto di eguaglianza nei diritti e nelle opportunità va recuperato e potenziato. A oggi, continuando con questi politiche, i guai del mondo dell’istruzione saranno solo aumentati e resi strutturali. Difenderemo i nostri diritti soltanto facendo chiarezza su ciò che sta accadendo e rispondendo con le lotte sociali che, partendo dai soggetti direttamente coinvolti, possano poi coinvolgere l’intero corpo della società.
Ci vediamo in piazza e nei cortei a sostegno degli scioperi il 24 e il 25 settembre. Riprendiamoci ciò che ci spetta.