Il seguento testo è tratto da medium.com.
In che modo possiamo plasmare i prossimi 18 mesi, se i nostri governanti ci fanno guadagnare tempo
Il presente articolo segue a Coronavirus: Why You Must Act Now, post di Tomas Pueyo con oltre 40 milioni di visualizzazioni e 30 traduzioni. Qui una versione italiana a cura di Claudio Porta. La traduzione di questa seconda parte è mia, gli inserti grafici sono a cura di Simona Bassano.
Riassunto: forti misure contro il coronavirus prese oggi e solo per qualche settimana riusciranno a evitare un importante picco di infezioni più avanti e si possono adottare a costi sociali ragionevoli, salvando nel contempo milioni di vite. Se non le adotteremo, i contagiati saranno decine di milioni e molti di loro moriranno, insieme ad altri malati bisognosi di terapia intensiva, perché il sistema sanitario crollerà.
Nel giro di una settimana, in tutti i paesi del mondo si è passati da Questo coronavirus non è niente di che a dichiarare lo stato d’emergenza. Eppure molte nazioni stanno facendo ancora poco. Perché?
Ciascun paese si pone la stessa domanda: Come dovremmo reagire? E la risposta non è ovvia.
Alcune nazioni, come la Francia, la Spagna e le Filippine, hanno già introdotto pesanti quarantene; altre, come gli Usa, il Regno Unito e la Svizzera, hanno esitato, attuando con scarsa convinzione qualche misura di distanziamento sociale.
Ecco cosa andremo a esaminare oggi, ancora una volta con parecchi grafici, dati e modelli presi da molte fonti diverse:
- Qual è la situazione al momento?
- Quali possibilità abbiamo?
- Che cosa conta di più adesso: il tempo
- Come si attua una strategia efficace contro il coronavirus?
- Come dobbiamo affrontarne l’impatto economico e sociale?
Terminata questa lettura, ecco che cosa vi resterà impresso:
Il nostro sistema sanitario è già al collasso.
Ciascuna nazione ha davanti due possibilità: iniziare subito a contrastare con forza l’epidemia, o soccombervi.
Chi sceglie l’epidemia dovrà fare i conti con centinaia di migliaia di morti. In alcuni paesi, milioni.
E anche questo potrebbe non evitare nuove ondate infettive.
Se lottiamo con forza adesso, conterremo i decessi.
Daremo fiato al sistema sanitario.
Ci prepareremo meglio.
Impareremo.
Il mondo non ha mai dovuto imparare niente così in fretta. Mai.
E dobbiamo farlo, perché sappiamo pochissimo di questo virus.
Tutto questo avrà un esito cruciale: Farci Guadagnare Tempo.
Se scegliamo la lotta dura, questa sarà prima improvvisa e poi graduale.
Dovremo restare chiusi in casa per settimane e non per mesi.
Dopo di che, riacquisteremo sempre più libertà.
La situazione potrebbe non tornare subito normale.
Ma ci si riavvicinerà, e alla fine lo diventerà.
E possiamo fare tutto questo senza perdere di vista lo stato dell’economia.
Va bene, facciamolo.
1. Qual è la situazione al momento?
La settimana scorsa ho pubblicato questa curva:
Mostrava i casi di coronavirus in tutto il mondo esclusa la Cina: era possibile distinguere solo l’Italia, l’Iran e la Corea del Sud. Quindi ho dovuto zoomare nell’angolo in basso a destra per vedere i paesi in via di contagio, e affermavo che presto avrebbero seguito la sorte degli altri tre.
Vediamo cos’è successo da allora.
Come previsto, il numero dei casi è esploso in decine di paesi; qui sono stato costretto a indicare solo i paesi con oltre 1.000 casi. Da notare che:
- Spagna, Germania, Francia e Usa presentano più casi dell’Italia quando ha ordinato la quarantena.
- In altre 16 nazioni ci sono oggi più casi che all’inizio della quarantena nella provincia cinese dell’Hubei: in Giappone, Malesia, Canada, Portogallo, Australia, Repubblica Ceca, Brasile e Qatar i casi sono più che nell’Hubei, ma restano sotto i 1.000. Svizzera, Svezia, Norvegia, Austria, Belgio, Paesi Bassi e Danimarca hanno tutte più di 1.000 casi.
Notate qualcosa di strano, in questo elenco di nazioni?
Tolti la Cina e l’Iran, che hanno patito focolai epidemici enormi e innegabili, e tolti il Brasile e la Malesia, tutte le nazioni comprese in quest’elenco sono tra le più ricche al mondo.
È possibile che il virus prenda di mira i paesi ricchi? Oppure, nei paesi ricchi siamo più capaci di individuare il virus?
È assai improbabile che i paesi poveri non vengano toccati. Il clima caldo e umido forse giova, ma di per sé non evita i focolai — altrimenti non ce ne sarebbero a Singapore, in Malesia e in Brasile.
Le interpretazioni più attendibili sono queste: o il coronavirus ci ha messo più tempo a raggiungere questi paesi perché sono meno collegati con gli altri, oppure è già presente, ma questi paesi non sono in grado di investire risorse nello screening in quantità sufficiente a scoprirlo.
Questo significa però, in entrambi i casi, che gran parte delle nazioni al mondo non sfuggirà al coronavirus, ed è solo questione di tempo prima che si vedano focolai epidemici e si debbano prendere contromisure.
Quali, e in quali nazioni?
2. Quali possibilità abbiamo?
Dall’articolo della settimana scorsa il dibattito ha cambiato registro, e molti paesi hanno adottato contromisure. Eccone alcuni esempi illuminanti:
Contromisure in Spagna e in Francia
A un’estremità abbiamo la Spagna e la Francia. Questa è la cronologia delle misure prese in Spagna:
Giovedì 12 marzo il Primo Ministro ha liquidato le affermazioni secondo cui le autorità spagnole stavano sottovalutando la minaccia alla salute pubblica.
Venerdì 13 ha dichiarato lo stato di emergenza.
Sabato 14 si sono adottate queste misure:
- Divieto di uscire di casa se non per necessità stringenti: fare la spesa alimentare, andare al lavoro, in farmacia, in ospedale, in banca o dall’assicuratore (giustificazioni estreme)
- Divieto specifico di portare i bambini a passeggio e di andare a trovare amici e parenti (se non per prendersi cura di chi ne ha bisogno, ma con accorgimenti igienici e di distanza fisica)
- Chiusura di tutti i bar e ristoranti. Consentito solo l’asporto.
- Annullamento di tutti gli eventi sportivi, culturali e commemorativi. Chiusura di cinema, teatri e musei.
- Le nozze si possono celebrare solo senza invitati, i funerali con un numero molto ristretto.
- Il trasporto pubblico rimane aperto.
Lunedì 16 marzo il paese ha chiuso i confini.
Qualcuno pensa che questo sia un bell’elenco di contromisure. Altri si stracciano le vesti per la disperazione. Quest’articolo intende provare a ricucire queste due posizioni.
La cronologia delle contromisure francesi è simile, se non fosse che là ci hanno messo più tempo ad adottarle, e che adesso sono più aggressive. Per esempio si è sospeso il pagamento di affitti, tasse e bollette per le piccole imprese.
Contromisure negli Usa e nel Regno Unito
Quanto all’adozione di contromisure, Usa e Regno Unito, come anche la Svizzera, hanno preso tempo. Questa è la cronologia per gli Usa:
- Mercoledì 11 marzo: divieto di viaggiare.
- Venerdì 13: dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Nessuna misura di distanziamento sociale.
- Lunedì 16: il governo raccomanda alla popolazione di evitare bar, ristoranti ed eventi oltre i 10 partecipanti. Ma di fatto non riesce a imporre misure di distanziamento sociale: si tratta solo di suggerimenti.
Molti Stati e municipalità stanno prendendo l’iniziativa e imponendo misure molto più severe.
Nel Regno Unito si è vista una serie di misure analoga: molte raccomandazioni, ma pochissimi obblighi.
Quanto alla lotta contro il coronavirus, questi due gruppi di paesi illustrano i due capi dello spettro: minimizzazione e repressione. Vediamo che cosa significano.
Opzione 1: Inazione
Prima ancora, però, vediamo cosa può implicare l’inazione per un paese come gli Usa:
Se non facciamo niente: tutti vengono contagiati, il sistema sanitario viene travolto, la mortalità esplode e circa 10 milioni di persone sono destinate a morire (le barre azzurre). Un banale conto della serva: se circa il 75% degli statunitensi viene contagiato e il 4% muore, stiamo parlando di 10 milioni di morti, vale a dire 25 volte le vittime statunitensi nella Seconda guerra mondiale.
Possibile obiezione: Mi pare troppo. Ho sentito cifre molto più basse!
E allora dov’è il trucco? Con tutti questi numeri è molto facile confondersi. Ma sono solo due, i numeri che contano: quanta parte della popolazione prenderà il virus e si ammalerà, e quanti di questi moriranno. Se solo il 25% si ammala (perché gli altri hanno il virus ma non mostrano sintomi e quindi non vengono conteggiati), e il tasso di letalità è dello 0,6% anziché del 4%, negli Usa ci ritroveremo comunque con 500mila decessi.
Se non si fa niente, il numero di morti da coronavirus si situerà probabilmente tra queste due cifre. Il divario tra questi due estremi è regolato perlopiù dal tasso di letalità, quindi è importante capire meglio questo concetto. Cosa provoca davvero i decessi da coronavirus?
Come dobbiamo interpretare il tasso di letalità?
Questo è lo stesso grafico di prima, ma riguardo ai ricoverati anziché ai contagiati e ai morti:
L’area azzurra rappresenta il numero di persone che dovrebbero essere ricoverate, e quella blu quelli che devono essere ricoverati in unità di terapia intensiva (di qui in poi: UTI). Si vede bene che il numero raggiunge il picco sopra i 3 milioni.
Ora confrontiamo questa cifra con il numero di posti in UTI presenti negli Usa (oggi 50mila, che potrebbero raddoppiare ridestinando altri spazi). Quella è la linea rossa tratteggiata.
No, non c’è nessun errore.
La linea rossa tratteggiata è la nostra capacità quanto a letti in UTI. Chiunque si trovasse sopra quella linea sarebbe in condizioni critiche ma non potrebbe accedere alle cure di cui ha bisogno, e molto probabilmente morirebbe.
Anziché i posti in UTI possiamo considerare i ventilatori, ma il risultato è più o meno lo stesso, dato che negli Usa i ventilatori sono meno di 100mila.
Per questo motivo si è morti come mosche nell’Hubei, e si muore come mosche in Italia e in Iran. Il tasso di mortalità nell’Hubei si è rivelato migliore del previsto perché là hanno costruito due ospedali nuovi quasi dalla sera alla mattina. L’Italia e l’Iran non possono fare lo stesso; pochissimi altri paesi potrebbero, per non dire nessuno. Vedremo che cosa succederà in questi paesi.
Quindi, perché il tasso di letalità è vicino al 4%?
È semplice: se il 5% dei nostri casi richiede la terapia intensiva e noi non possiamo fornirla, gran parte di quei pazienti morirà.
Inoltre, dati più recenti suggeriscono che negli Usa i casi sono più gravi che in Cina. Vorrei che questo fosse quanto, ma purtroppo non lo è.
Danni collaterali
Queste cifre mostrano solo le persone che muoiono di coronavirus. Ma cosa succede se il sistema sanitario crolla a causa dei malati di coronavirus? Muoiono anche i malati di altre malattie.
Cosa succede se ci viene un infarto, ma l’ambulanza ci mette 50 minuti anziché 8 ad arrivare (per i troppi casi di coronavirus) e quando raggiungiamo l’ospedale non c’è posto in UTI e non c’è un medico disponibile? Succede che si muore.
Ogni anno gli Usa ricoverano 4 milioni di pazienti in UTI, e 500mila (circa il 13%) muoiono. Senza letti in UTI, questa quota potrebbe avvicinarsi molto all’80%. Se anche ne morisse solo il 50%, in un anno di epidemia si passerebbe da 500mila a 2 milioni di morti l’anno, quindi con un incremento di 1,5 milioni di morti solo come danno collaterale.
Lo stesso vale per la maggior parte delle nazioni. Il numero di letti in UTI, di ventilatori e di operatori sanitari è di norma simile o inferiore a quello degli Usa. Zero freni al coronavirus significa collasso del sistema sanitario, e questo significa decessi di massa.
Zero freni al coronavirus significa collasso del sistema sanitario, e questo significa decessi di massa.
A questo punto spero sia chiaro che è necessario agire. Le due possibilità che abbiamo davanti sono la minimizzazione e la repressione; entrambe si propongono di «appiattire la curva», ma lo fanno in modo molto diverso.
Opzione 2: Strategie di minimizzazione
La minimizzazione funziona così: Reprimere il coronavirus è ormai impossibile, quindi facciamogli fare il suo corso cercando di ridurre il picco dei contagi. Appiattiamo un pochino la curva per renderla più gestibile da parte del servizio sanitario.
Questa tabella è comparsa su un articolo scientifico molto importante pubblicato intorno al 14 marzo dall’Imperial College London (il Politecnico londinese) e, sembrerebbe, ha spinto il governo in Usa e nel Regno Unito a correggere la rotta.
Il grafico non è molto diverso dal precedente: non identico ma equivalente nei concetti. Qui, la situazione in cui non si fa niente è la curva nera; ciascuna delle altre curve rappresenta quello che succederebbe con l’adozione di misure via via più intense di distanziamento sociale, con quella azzurra a rappresentare le più drastiche: isolamento dei contagiati, quarantena per i potenziali contagiati, segregazione degli anziani. Al momento la linea azzurra è, all’incirca, la strategia anti-coronavirus britannica, benché per ora sia stata solo suggerita e non imposta.
Anche qui, la linea rossa rappresenta i posti disponibili in UTI, stavolta nel Regno Unito; e anche qui, la linea è molto vicina al fondo. Tutta l’area della curva al di sopra della linea rossa rappresenta malati di coronavirus che in gran parte morirebbero a causa della scarsità di risorse sanitarie dedicate.
Non solo: se anche la curva si appiattisce, le UTI resteranno in uno stato di collasso per mesi, con conseguente aumento dei danni collaterali.
Dovremmo essere scioccati. Se ci dicono: Attueremo misure di minimizzazione, quello che intendono è: Travolgeremo scientemente il sistema sanitario, aumentando il tasso di mortalità di un fattore 10 come minimo.
Il che dovrebbe bastare. Invece no. Perché uno degli assunti cruciali di questa strategia è quello che definiamo «immunità di gregge».
Immunità di gregge e mutazione del virus
Il senso è che chiunque viene contagiato e poi guarisce si ritrova immune al coronavirus. L’idea di base è: Sì, la situazione sarà dura per un po’, ma una volta passata la buriana e morto qualche milione di persone, i superstiti saranno immuni, il virus smetterà di diffondersi e potremo dirgli addio. Meglio fare così e chiudere i conti subito, perché l’alternativa è attuare il distanziamento sociale anche per un anno e rischiare comunque un picco di infezioni più in là.
Solo che così si dà per scontato un fatto: che il virus non cambi molto. Se non cambia più di tanto, molti si immunizzano e ad un certo punto l’epidemia scema.
Che probabilità ha il virus di mutare?
Pare lo abbia già fatto.
Questo grafico rappresenta le diverse mutazioni del virus. Si vede bene che i ceppi iniziali hanno origine in viola in Cina e poi si diffondono. Ogni ramificazione sul grafico a sinistra rappresenta una mutazione che porta a una variante leggermente diversa del virus.
Questo non dovrebbe stupire: i virus a base RNA come il corona e l’influenza tendono a mutare circa 100 volte più rapidamente di quelli a base DNA, anche se il coronavirus muta più lentamente di quelli influenzali.
Non solo: per questo virus il modo migliore di mutare è avere molte opportunità di farlo, che è esattamente ciò che gli fornirebbe una strategia di minimizzazione: centinaia di milioni di contagiati.
Per questo bisogna vaccinarsi tutti gli anni contro l’influenza. Siccome i ceppi influenzali sono moltissimi, e ne sorgono continuamente di nuovi, il vaccino anti-influenzale non può mai proteggere contro tutti i ceppi.
Mettiamola in un altro modo: la strategia della minimizzazione non solo dà per scontati milioni di decessi in paesi come gli Usa o il Regno Unito, ma scommette anche sul fatto che il virus non muti troppo — ma noi sappiamo che lo fa. E questa strategia gliene darà l’occasione. Perciò, una volta digerito qualche milione di decessi, potremmo essere pronti per qualche altro milione… ogni anno. Questo coronavirus potrebbe diventare un fatto ricorrente della vita, come l’influenza, ma ben più letale.
Per questo virus, il miglior modo di mutare è averne milioni di occasioni, che è esattamente ciò che una strategia di minimizzazione gli fornirebbe.
E allora, se né l’inazione né la minimizzazione funzionano, qual è l’alternativa? Si chiama repressione.
Opzione 3: Strategie di repressione
La strategia di minimizzazione non cerca di contenere l’epidemia, ma solo di appiattirne un pochino la curva; al contrario, la strategia di repressione cerca di attuare misure pesanti per prenderne rapidamente il controllo. In particolare:
- Si prendono misure drastiche subito. Si impone un pesante distanziamento sociale. Si prende rapidamente in mano la situazione.
- In seguito, si allentano le misure in modo da restituire man mano libertà ai cittadini e consentire il ritorno a una parvenza di normale vita economica e sociale.
Di che cosa stiamo parlando?
Con una strategia di repressione, passata la prima ondata il bilancio delle vittime sarà dell’ordine delle migliaia, non dei milioni.
Perché? Perché non solo fermiamo la crescita esponenziale dei contagi, ma tagliamo anche il tasso di mortalità in quanto il sistema sanitario non viene del tutto travolto. Qui mi sono basato su una mortalità dello 0,9%, più o meno quella che vediamo oggi in Corea del Sud, il paese che ha adottato la strategia di repressione più efficace.
Messa così, la cosa sembra ovvia. Tutti dovrebbero adottare la strategia repressiva.
E allora, perché i governi esitano?
Perché temono tre cose:
- Che questa prima quarantena duri per mesi, cosa che per molte persone appare inaccettabile.
- Che una quarantena di mesi distrugga l’economia.
- Che il problema non si risolva comunque, perché si tratterebbe solo di rimandare l’epidemia: più avanti, una volta rimosse le misure di distanziamento sociale, i cittadini ricominceranno a infettarsi a milioni e a morire.
Ecco il modello adottato all’Imperial College per rappresentare le strategie repressive. Le linee gialle e verdi ritraggono diversi scenari repressivi. Si vede bene che la prospettiva è grama: ci saranno comunque picchi altissimi, e allora a che serve?
Affronteremo queste domande tra un attimo, ma prima va detta una cosa più importante:
Qui si è del tutto perso di vista il nocciolo.
Messe così, fianco a fianco, minimizzazione e repressione non sembrano prospettive allettanti: o muore subito un sacco di gente ma non danneggiamo troppo l’economia, oppure danneggiamo subito l’economia solo per rimandare i decessi.
Questa posizione, però, trascura il valore del tempo.
3. Il valore del tempo
Nel post precedente abbiamo spiegato il valore del tempo per salvare vite. Per ogni giorno e ogni ora di attesa nell’adottare contromisure, la minaccia esponenziale ha continuato a diffondersi. Abbiamo già visto che ogni giorno guadagnato può ridurre del 40% i contagi totali e ancor di più il bilancio delle vittime.
Ma il tempo vale perfino più di così.
Stiamo per affrontare la maggiore ondata di pressione sul sistema sanitario mai vista nella storia. Siamo impreparati, abbiamo di fronte un nemico sconosciuto, e non è un buon punto di partenza per una guerra.
Che succede se abbiamo davanti il nostro peggior nemico, del quale sappiamo molto poco, e abbiamo solo due opzioni: corrergli incontro, oppure fuggire per guadagnare un po’ di tempo e prepararci? Cosa scegliamo?
È questo che dobbiamo fare adesso. Il mondo si è svegliato. Per ogni giorno in cui ritardiamo il coronavirus, possiamo prepararci meglio. Le prossime sezioni elencano ciò che ricaveremmo da una maggiore disponibilità di tempo:
Calo nel numero dei casi
Con una repressione efficace, il numero di casi conclamati diminuirebbe drasticamente dalla sera alla mattina, com’è successo la scorsa settimana nell’Hubei.
A oggi, tra i 60 milioni di abitanti della provincia dell’Hubei si contano 0 (zero) nuovi contagi.
Le diagnosi potrebbero continuare a salire per un paio di settimane, ma poi comincerebbero a calare. Con meno contagi anche il tasso di mortalità comincerebbe a scendere, e si ridurrebbero inoltre i danni collaterali: ci sarebbero meno decessi per cause diverse dal coronavirus perché il sistema sanitario non viene sopraffatto.
La repressione ci consentirebbe di ottenere:
- Meno casi totali di coronavirus
- Sollievo immediato al sistema sanitario e al personale che vi opera
- Riduzione del tasso di mortalità
- Riduzione dei danni collaterali
- Possibilità per gli operatori sanitari contagiati, isolati e in quarantena di guarire e tornare al lavoro. In Italia, gli operatori sanitari rappresentano l’8% dei contagi totali.
Comprensione del problema vero: fare i tamponi, tracciare i contagi
Al momento, nel Regno Unito e negli Usa non si ha idea di quanti siano i casi effettivi. Non sappiamo quanti sono i contagi. Sappiamo solo che il numero ufficiale non è corretto, e che quello corretto si situa nelle decine di migliaia. Questo succede perché non stiamo facendo i tamponi e non stiamo tracciando i contagi.
Con qualche settimana in più, potremmo sistemare la questione tamponi e cominciare a testare tutti. Con quest’informazione sapremmo finalmente qual è la portata del problema, dove dobbiamo essere più aggressivi, e quali zone rosse possono essere riaperte.
Nuove metodologie d’esame potrebbero velocizzare il controllo e abbassare sostanzialmente i costi.
Potremmo anche adottare un sistema di tracciamento come quello messo in atto in Cina e in altri paesi dell’Asia orientale, con il quale si riesce a individuare e mettere in quarantena chiunque il malato abbia incontrato. Questo ci fornirebbe una grande quantità di informazioni da applicare in seguito alle misure di distanziamento sociale: se sappiamo dov’è il virus, possiamo prendere di mira solo quelle aree. Non è fisica nucleare: è la base di quanto è stato fatto in Oriente per controllare i focolai senza le draconiane misure di isolamento che sono sempre più essenziali in altri paesi.
Da sole, le misure descritte in questa sezione (tamponi e tracciamento) hanno stroncato la crescita del coronavirus in Corea del Sud e restituito alle autorità il controllo dell’epidemia, senza bisogno di imporre forti misure di distanziamento sociale.
Aumento della capacità
Gli Usa (e presumibilmente il Regno Unito) stanno per andare in guerra senza armamenti.
Abbiamo mascherine per due settimane, pochi dispositivi di protezione personale (DPP), ventilatori, letti UTI e macchinari per l’ossigenazione extracorporea del sangue (OEM) insufficienti… è per questo motivo che il tasso di mortalità sarebbe così alto con una strategia di minimizzazione.
Ma se riusciamo a guadagnare un po’ di tempo, possiamo ribaltare la situazione:
- Avremo più tempo per acquistare tutti i dispositivi necessari a una futura ondata
- Potremo aumentare rapidamente la capacità produttiva di mascherine, DPP, ventilatori, OEM e ogni altro apparecchio cruciale per la riduzione della letalità.
Mettiamola in un altro modo: non ci servono anni per procurarci gli armamenti, ci servono settimane. Facciamo tutto il possibile per incrementare la produzione adesso. Le nazioni si sono mobilitate. Le persone fanno ricorso all’inventiva, per esempio stampando parti di ventilatori in 3D. Possiamo farcela; ci serve solo più tempo. Chi non attenderebbe qualche settimana pur di procurarsi le armi necessarie a combattere un nemico mortale?
Non è questa l’unica capacità che ci serve: avremo anche bisogno di operatori sanitari al più presto possibile. Dove li troviamo? Dobbiamo formare persone comuni per l’assistenza agli infermieri in attività, e dobbiamo richiamare medici e infermieri dal pensionamento. Molti paesi hanno già cominciato, ma ci vuole tempo; qualche settimana può bastare, ma non se tutto crolla.
Decremento della contagiosità pubblica
La gente ha paura. Il coronavirus è nuovo. Ci sono tantissime cose che ancora non sappiamo come fare! La gente non ha ancora imparato a non stringersi la mano. Ancora si abbraccia. Non apre la porta con il gomito. Non si lava le mani dopo aver toccato una maniglia. Non disinfetta il tavolo prima di sedersi a mangiare.
Quando avremo abbastanza mascherine, potremo usarle anche al di fuori del sistema sanitario; adesso, è meglio riservarle al personale medico. Se però non scarseggiassero, bisognerebbe indossarle anche nella vita quotidiana, diminuendo la probabilità di contagiare altri se siamo malati e, con la giusta formazione, riducendo anche la possibilità di infettarci se non lo siamo. (Nel frattempo, mettersi qualcosa è meglio che non mettersi niente.)
Questi sono tutti modi poco costosi di ridurre il tasso di contagio. Meno il virus si propaga, meno misure dovremo adottare in futuro per contenerlo. Ma ci serve tempo per educare il pubblico sulle misure stesse, e per equipaggiarlo.
Comprensione del virus
Ne sappiamo molto poco. Ma leggiamo articoli nuovi in proposito ogni settimana.
Il mondo si è finalmente unito contro il nemico comune, e ovunque la ricerca si sta mobilitando per capire meglio questo virus.
Come si diffonde?
Come si può rallentare il contagio?
Qual è la quota di portatori asintomatici?
Sono contagiosi? Quanto?
Esistono terapie efficaci?
Quanto sopravvive il virus?
Su quali superfici?
In che modo influenzano il contagio le varie misure di distanziamento sociale?
Quanto ci costano?
Quali sono le migliori prassi di tracciamento?
Quanto sono affidabili i tamponi a nostra disposizione?
Risposte chiare a queste domande contribuiranno a rendere la nostra reazione più mirata che mai, minimizzando nel contempo i danni collaterali economici e sociali. E le otterremo nel giro di settimane, non di anni.
Scoperta di terapie
Non solo: e se nel giro di settimane trovassimo un farmaco adatto? Ogni giornata che riusciamo a guadagnare è d’aiuto in questa ricerca. Al momento ci sono già diversi candidati, come il Favipiravir, la clorochina e la clorochina in combinazione con l’azitromicina. E se nel giro di due mesi trovassimo un farmaco per il coronavirus? Che figura da fessi faremmo, se avessimo già provocato milioni di morti con una strategia minimizzante?
Comprensione del rapporto costi/benefici
Tutti gli elementi suddetti possono aiutarci a salvare milioni di vite; dovrebbe bastare così. Ma sfortunatamente, i politici non possono pensare solo alla vita dei contagiati: devono pensare a tutta la popolazione, e pesanti misure di distanziamento sociale hanno un impatto su tutti.
Al momento non sappiamo in che modo le misure di distanziamento riducono il contagio, e non ne conosciamo neanche i costi economici e sociali.
Non è un po’ troppo difficile, decidere quali misure ci servono sul lungo periodo senza conoscerne costi e benefici?
Qualche settimana in più ci darebbe il tempo necessario per cominciare a studiarle, capirle, metterle in ordine di priorità e decidere quali adottare.
Meno contagi, maggiore comprensione del problema, aumento delle risorse, comprensione del virus, comprensione del rapporto costi/benefici delle varie misure, educazione del pubblico… Questi sono alcuni degli strumenti primari per combattere il virus, e per metterli a punto ci basta qualche settimana. Non sarebbe da stupidi, sposare una strategia che al contrario ci getta impreparati tra le fauci del nemico?
4. Il pugno di ferro e il balletto
Adesso sappiamo che la strategia minimizzante è quasi certamente la scelta peggiore, mentre la strategia repressiva presenta un enorme vantaggio sul breve periodo.
Ma giustamente l’opinione pubblica nutre delle remore su questa linea d’azione:
- Quanto durerà effettivamente?
- Quanto costerà?
- Ci sarà un secondo picco altrettanto grave, come se non avessimo fatto niente?
Adesso andiamo a vedere come si strutturerebbe una vera strategia repressiva, che chiameremo «il pugno di ferro e il balletto».
Il Pugno di ferro
All’inizio si agisce con rapidità ed energia. Per tutti i motivi già esposti, dato il valore del tempo, dobbiamo soffocare questa cosa al più presto possibile.
Tra le domande più importanti c’è questa: quanto durerà?
La paura di tutti è quella di ritrovarsi chiusi in casa per mesi di fila, con relativo disastro economico ed esaurimento nervoso. Idea che sfortunatamente il celebre studio dell’Imperial College prendeva in considerazione:
Ve lo ricordate, questo grafico? L’area azzurra che va dalla fine di marzo alla fine di agosto è il periodo di tempo consigliato dallo studio per la fase Pugno di ferro, la repressione iniziale che comprende il pesante distanziamento sociale.
Se sei un uomo politico e ti rendi conto che un’opzione è quella di lasciar morire centinaia di migliaia, oppure milioni di persone con una strategia minimizzante, e l’altra è fermare l’economia per cinque mesi per poi attraversare un altro picco di contagi e decessi, nessuna delle due sembra troppo allettante.
Ma non deve andare per forza così. Questo studio, che al momento informa molte decisioni politiche, è stato pesantemente criticato per alcuni difetti di base: i suoi estensori ignorano il tracciamento dei contatti (che è invece alla base, tra l’altro, delle politiche sudcoreane, cinesi e di Singapore) e i divieti di spostamento (cruciali in Cina), oltre a ignorare l’impatto degli assembramenti…
Il tempo necessario al Pugno di ferro è di settimane, non di mesi.
Questo grafico mostra i nuovi contagi in tutta la provincia dell’Hubei (60 milioni di abitanti) ogni giorno dal 23 gennaio. Nel giro di due settimane il paese tornava al lavoro; nel giro di circa 5 l’epidemia era sotto controllo, e nel giro di 7 settimane le nuove diagnosi arrivavano con il contagocce. Non dimentichiamo che stiamo parlando del peggiore focolaio cinese.
E non dimentichiamo neppure che stiamo parlando di barre arancioni; le barre grigie, cioè le malattie conclamate, erano calate molto prima (cfr. tabella 9).
Nell’Hubei si sono prese misure molto simili a quelle adottate in Italia, in Spagna e in Francia: isolamento, quarantena, obbligo di rimanere in casa salvo casi di emergenza e spesa alimentare, tracciamento dei contatti, tamponi, aumento dei letti negli ospedali, divieto di viaggiare…
I particolari contano, però.
Le misure cinesi erano più stringenti: per esempio, solo a una persona per famiglia era consentito uscire di casa per la spesa, e solo ogni tre giorni. Non solo, la sorveglianza era severissima, ed è probabile che questa severità abbia contribuito a una più rapida sconfitta dell’epidemia.
In Italia, Francia e Spagna le contromisure sono state meno drastiche, e la sorveglianza del rispetto meno rigorosa. La gente cammina ancora per strada, e molti sono senza mascherina. È probabile che questo rallenterà il Pugno di ferro: ci vorrà più tempo per prendere definitivamente sotto controllo l’epidemia.
Alcuni traggono da questo fatto la seguente conclusione: Le democrazie non saranno mai in grado di replicare questa riduzione dei casi. Ma hanno torto.
Per diverse settimane, la Corea del Sud ha visto la situazione peggiore fuori dalla Cina; adesso l’epidemia è largamente sotto controllo. E ci si è riusciti senza chiedere alla gente di stare in casa. Il risultato è stato ottenuto con una intensa politica di tamponi, tracciamento dei contatti, quarantena e isolamento obbligatori.
La tabella successiva dà un’idea efficace di quali sono le misure adottate in vari paesi, e di quale esito hanno avuto (questo è un lavoro in corso, gli aggiornamenti sono graditi).
Si vede bene che i paesi più preparati, con una più forte autorità epidemiologica, popolazione istruita sull’igiene e il distanziamento sociale e una precoce politica di rilevamento e isolamento non hanno dovuto pagare in termini di misure più pesanti in seguito.
Di contro, paesi come l’Italia, la Spagna e la Francia non hanno subito applicato al meglio le misure più pesanti e hanno poi dovuto adottare il Pugno di ferro verso il fondo per recuperare.
Colpisce invece la scarsità di misure negli Usa e nel Regno Unito, e negli Usa specialmente. Questi paesi ancora non stanno facendo quel che ha permesso a Singapore, alla Corea del Sud e a Taiwan di controllare il virus, malgrado la crescita esponenziale dei focolai. Ma è solo questione di tempo: o questi paesi vedranno un’epidemia massiccia, oppure si accorgeranno in ritardo dell’errore e dovranno sovracompensare con un Pugno di ferro ancora più pesante. Non si sfugge.
Ma si può fare. Se si può controllare un focolaio come quello sudcoreano nel giro di settimane e senza imporre il distanziamento sociale, i paesi occidentali che già stanno usando il Pugno di ferro con un distanziamento severo potranno senz’altro controllare il focolaio nel giro di settimane. È questione di disciplina, modalità di esecuzione e rispetto delle regole da parte della popolazione.
Una volta messo in atto il Pugno di ferro e preso il controllo del focolaio, comincia la seconda fase: il Balletto.
Il Balletto
Se si aggredisce con mano ferrea il coronavirus, nel giro di poche settimane se ne prende il controllo e si è maggiormente in grado di affrontarlo. Adesso arriva lo sforzo di lungo periodo per contenere il virus fino all’arrivo del vaccino.
Questo è probabilmente il più grosso e importante errore che facciamo quando pensiamo a questa fase: credere che dovremo stare chiusi in casa per mesi. Non è così, per niente: anzi, è probabile che la nostra vita si riavvicini presto alla normalità.
Il Balletto nei paesi che ce l’hanno fatta
Com’è che in Corea del Sud, a Singapore, a Taiwan e in Giappone si riscontrano casi già da tempo, nel caso sudcoreano a migliaia, eppure la gente non è chiusa in casa?
In questo video, la ministra degli Esteri sudcoreana spiega come si è agito nel suo paese. In maniera piuttosto semplice: tamponi efficaci, tracciamenti efficaci, divieti di viaggio, isolamento e quarantena efficaci.
Questo studio spiega la strategia di Singapore:
Vogliamo indovinare che misure hanno adottato? Le stesse della Corea del Sud con l’aggiunta, nel caso di Singapore, di aiuti economici ai cittadini in quarantena, divieti di viaggio e ritardi.
È troppo tardi, per questi e altri paesi? No. Il Pugno di ferro rappresenta un’autentica possibilità di raddrizzare la rotta. Più si aspetta, e più a lungo e con maggiore durezza lo si dovrà usare, ma è in grado di controllare l’epidemia.
Ma se poi queste contromisure non bastano?
Il Balletto di R
Ho battezzato «Balletto» il periodo di mesi fra l’introduzione del Pugno di ferro e l’arrivo di un vaccino o di una terapia efficace perché in questo lasso di tempo le contromisure non saranno sempre le stesse, così severe. In alcune zone si vedranno nuovi focolai, ma in altre no, e per un bel pezzo. A seconda di come si evolvono i casi, si dovrà dare un giro di vite quanto al distanziamento sociale, o lo si potrà allentare. È il balletto di R: un balletto di contromisure tra il riprenderci la nostra vita e la diffusione della malattia, tra l’economia contro l’assistenza sanitaria.
Come funziona questo balletto?
Gira tutto intorno al fattore R che, abbiamo detto, rappresenta il tasso di contagio. All’inizio, in un paese normalmente impreparato, si situa in un qualche punto tra 2 e 3: nelle poche settimane in cui si rimane infetti, si possono contagiare in media da 2 a 3 altre persone.
Se R è maggiore di 1, l’infezione cresce esponenzialmente fino a diventare epidemia; se è minore di 1, si esaurisce.
Durante il Pugno di ferro, l’obiettivo è portare R vicino allo zero il più presto possibile per soffocare l’epidemia. A Wuhan si è calcolato che R avesse un valore iniziale di 3,9 che è sceso, dopo l’istituzione della zona rossa e della quarantena centralizzata, fino a 0,32.
Ma una volta che si passa al Balletto, non è più necessario arrivare fin lì. Basta solo che R si mantenga inferiore a 1: molte misure di distanziamento sociale chiedono un pedaggio durissimo alla popolazione. La gente rischia di perdere il lavoro, l’attività, le abitudini più salutari…
Ma si può restare a R < 1 con pochi e semplici accorgimenti.
Questa è un’approssimazione di come i diversi tipi di pazienti reagiscono al virus, nonché della loro contagiosità. Nessuno conosce la vera forma di questa curva, ma abbiamo raccolto dati da diversi studi per tentarne una rappresentazione.
Dopo aver contratto il virus, ciascun contagiato presenta lo stesso potenziale di trasmissione ogni giorno; insieme, tutte queste giornate si cumulano in 2,5 contagi in media.
Si ritiene che alcuni contagi avvengano già durante la fase asintomatica. Dopo di che i sintomi crescono, la gente di norma va da dal dottore, viene diagnosticata, e la contagiosità diminuisce.
Per esempio: all’inizio abbiamo contratto il virus ma non abbiamo sintomi, perciò ci comportiamo normalmente. Però ci tocchiamo il naso, apriamo una porta, e la persona che toccherà la maniglia e poi si toccherà il naso dopo di noi si infetterà.
Più il virus ci cresce dentro, più siamo infettivi. Poi, una volta che cominciamo ad avere sintomi, pian piano smettiamo di andare al lavoro, ci mettiamo a letto, indossiamo la mascherina oppure andiamo dal dottore. Più pesanti i sintomi, maggiore il distanziamento sociale, con il risultato di ridurre la diffusione del virus.
Una volta ricoverati, pur essendo molto contagiosi non diffondiamo più il virus come prima perché veniamo isolati.
È qui che si vede l’impatto delle politiche introdotte a Singapore e in Corea del Sud:
- Se la popolazione viene testata in massa, si possono individuare i contagiati ancora prima che mostrino sintomi. Se messi in quarantena, non diffonderanno niente.
- Se le persone vengono addestrate al riconoscimento precoce dei sintomi, si riducono le giornate azzurre e quindi la contagiosità complessiva.
- Se le persone vengono isolate al primo apparire dei sintomi, i contagi della fase arancione scompaiono.
- Se le persone vengono istruite sul distanziamento, l’uso delle mascherine, il lavaggio delle mani e la disinfezione degli spazi, diffondono meno virus per tutto il periodo.
Solo quando tutte queste contromisure falliscono c’è bisogno di un distanziamento sociale più pesante.
Il ROI (return on investment) del distanziamento sociale
Se con tutte queste misure abbiamo un fattore R ancora molto superiore a 1, è necessario ridurre il numero medio di persone che ciascuno incontra.
Ci sono modi poco costosi di realizzare l’obiettivo, come vietare gli eventi con un numero di partecipanti superiore a una certa soglia (50, 500, eccetera) o chiedere alla popolazione di lavorare da casa, quando può.
Altri invece sono molto più dispendiosi dal punto di vista economico, sociale ed etico, come la chiusura di scuole e università, l’obbligo per tutti di rimanere a casa e la serrata delle attività.
Questa tabella è inventata perché al momento non può esistere: nessuno ha ancora fatto ricerche sufficienti in merito né messo insieme tutte queste misure in maniera tale da poterle confrontare.
È un peccato, perché sarebbe la tabella più utile al processo politico-decisionale delle autorità: illustra ciò a cui stanno davvero pensando.
Nella fase Pugno di ferro, le autorità intendono ridurre il più possibile il fattore R mediante contromisure tollerabili per la popolazione: nell’Hubei sono arrivati fino a un valore di 0,32. Ma magari a noi non serve, potrebbe bastare uno 0,5 o 0,6.
Al contrario, nella fase del Balletto di R, è meglio stare più vicini possibile a 1, pur rimanendo sempre al di sotto nel lungo periodo. Così si impediscono nuovi focolai, eliminando al tempo stesso le misure più drastiche.
Questo significa che le autorità, che se ne rendano conto o no, stanno:
- Elencando tutte le misure adottabili per ridurre R
- Facendosi un’idea dei benefici delle misure stesse: la riduzione di R
- Facendosi un’idea del loro costo: economico, sociale ed etico
- Ordinando le iniziative in base al rapporto costi/benefici di ciascuna
- Scegliendo quelle che forniscono la maggiore riduzione di R fino a 1, al costo minore
Inizialmente, la fiducia basata su questi numeri sarà bassa. Ma è comunque in questi termini che le autorità pensano — o dovrebbero pensare.
È però necessario formalizzare il processo: capire che questo è un gioco numerico nel quale dobbiamo capire al più presto a che punto siamo con R, qual è l’impatto di ciascuna misura su R, e ridurre il costo sociale ed economico delle misure stesse.
Solo allora si potranno prendere decisioni razionali su quali misure adottare.
Conclusione: Fateci Guadagnare Tempo
Il coronavirus si sta ancora diffondendo quasi ovunque. I paesi dove sono presenti casi sono oltre 150. Stiamo correndo contro il tempo, ma non siamo obbligati: esistono modi nitidi di affrontare il problema.
In alcune nazioni, specie quelle che non sono ancora state pesantemente colpite dal virus, ci si chiede: succederà anche qui? La risposta è: probabilmente è già successo, solo che non ve ne siete ancora accorti. Quando succederà, il vostro sistema sanitario sarà in condizioni anche peggiori rispetto a quelle dei paesi ricchi in cui la sanità è forte. Meglio eccedere in prudenza; sarebbe il caso di cominciare ad agire subito.
Per le nazioni in cui il virus è già arrivato, le opzioni sono chiare.
Da una parte, si può imboccare la strada della minimizzazione: lasciar scoppiare un’epidemia massiccia, travolgere il sistema sanitario, lasciar morire milioni di persone e diffondere ovunque nuove mutazioni del virus.
Dall’altra, si può lottare. Si può dichiarare una quarantena di qualche settimana per guadagnare tempo, stendere un piano d’azione basato su dati e controllare questo virus finché non arriva un vaccino.
Oggi molte autorità in tutto il mondo, compreso il governo degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Svizzera hanno fin qui scelto la strada della minimizzazione.
Vale a dire che si stanno arrendendo senza lottare. Vedono che altri paesi hanno dato battaglia e l’hanno vinta, ma affermano: Noi non possiamo fare così!
E se Churchill avesse detto la stessa cosa? I nazisti sono già in tutta Europa. Non possiamo combatterli. Lasciamo perdere. È questo che molti governi al mondo stanno facendo. Non ci stanno dando la possibilità di combattere. Dobbiamo pretenderla.
Passiamo parola
Sfortunatamente, ci sono ancora milioni di vite in gioco. Condividiamo questo articolo, o altri dal contenuto simile, se pensiamo che possano far cambiare idea a qualcuno. Chi ci governa deve capire che si tratta di impedire una catastrofe. Bisogna agire adesso.