Riflessioni sulla pratica rivoluzionaria a un secolo dall’ottobre rosso e dall’assassinio di Rosa Luxemburg

Gramsci scrisse che uno dei lasciti più nefasti del pensiero borghese è l’interpretazione degli sviluppi storici su base esclusivamente cronologica, approccio che mistifica la continuità della vita e quindi della storia stessa che nulla presenta di deterministico, ma anzi si pone agli antipodi di un mero scadenziario di “fatti”.
 
Anche nell’ottica di ricollegarci al suo pensiero, in questa sede intendiamo spendere qualche riflessione su due ricorrenze che hanno caratterizzato questi mesi: gli anniversari dell’ottobre rosso e del tragico epilogo della rivolta spartachista tedesca.
 
In particolare vogliamo riattualizzare il confronto che si sviluppò tra le due figure di riferimento di quegli avvenimenti: Vladimir Lenin e Rosa Luxemburg.
 
Com’è noto, il primo, smentendo la teoria marxista guidò il processo rivoluzionario all’interno di una realtà capitalisticamente arretrata, plasmando le forze sociali che resero vittorioso il rivolgimento, attraverso l’opera dei “quadri politici”, autentici professionisti della rivoluzione, strutturati nel partito bolscevico.
 
Rosa Luxemburg, invece, fu la prima ad intuire che il modello rivoluzionario leninista non era applicabile ad ogni realtà di classe, in particolare in Paesi di spiccata organizzazione operaia come la Germania del 1919, e che l’organizzazione di partito su modello dei quadri bolscevichi, se fu essenziale all’emancipazione dei sudditi di Nicola II, covava in seno il germe della burocratizzazione e dello scollamento tra classe dirigente rivoluzionaria e masse, che poi effettivamente si realizzò all’interno del blocco sovietico.
 
Nell’universo comunista, le due posizioni sono tutt’oggi oggetto di dibattito, che non è ancora giunto ad una sintesi condivisa capace di recidere il nodo gordiano in questione.
 
Nel corso del ‘900, i processi storici hanno replicato l’anomalia teorica per cui le rivoluzioni sì sono realizzate in paesi capitalisticamente arretrati, mentre la barbarie, più o meno mediata dalla socialdemocrazia, ha di fatto monopolizzato le nazioni capitalisticamente avanzate del blocco occidentale.
 
Questa realtà storica crediamo confermi, anzitutto, la posizione condivisa da Lenin e Luxemburg che identifica nella socialdemocrazia un nemico di classe, focalizzato su un orizzonte riformista incapace di emancipare le masse dal destino di sfruttamento riservatogli dal modo di produzione capitalista.
 
Al contempo, crediamo inoltre che la riflessione della Luxemburg sulla criticità insita nell’applicazione del modello bolscevico alle società “avanzate”, abbia colto con largo anticipo una problematica che si è poi fattualmente presentata nell’occidente del secondo dopoguerra, in modo specifico a seguito del ’68 prima e del ’77 poi.
 
Segnatamente in Italia, il decennio poc’anzi delimitato registrò la divaricazione tra movimentismo e forma partito, ponendo le basi per la sconfitta di entrambi. I movimenti, infatti, si sono autoconfinati nel vertenzialismo poi sconfitto dai paradigmi “tecnici” declinati in politica e nella vita sociale; paradigmi che in contemporanea hanno dismesso anche i corpi sociali intermedi, annullandone pure gli orizzonti riformisti e trasformandoli in comitati elettorali più o meno dotati di retorica civilista.
 
In un contesto di questo genere, crediamo che un punto di svolta possa essere identificato da una saldatura tra le esperienze di cui si fecero portatori tanto Lenin quanto la Luxemburg.
 
L’assenza di coscienza di classe tra le masse destrutturate dalla riorganizzazione capitalista successiva alla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, impone necessariamente l’esistenza di quadri politici in grado di veicolare nuovamente tra le masse una percezione di se condivisa e antitetica all’individualismo dominante. Al contempo, tuttavia, la complessità sociale stimolata dall’evoluzione del modo di produzione capitalista, impone anche l’inclusione delle masse nei processi riguardanti la propria emancipazione, non soltanto a livello “operativo”, ma anche in forma teorica essenzialmente per due motivi:
– intercettarne aspirazioni e attese, sottraendole all’egemonia culturale borghese;
– rinnovare costantemente la composizione dei quadri dirigenti per adeguarli alla prevedibile reazione del capitale e alle continue metamorfosi che esso imprime alle società che domina
 
In questo senso, i processi attualmente più significativi pensiamo siano da ricercare in America Latina: dal perdurare della rivoluzione cubana, alla resistenza del bolivarismo venezuelano.
 
Quest’ultimo in particolare è divenuto foriero di risultati che attualizzano e in parte ridefiniscono la vulgata populista, affrancandola dai connotati esclusivamente destrorsi con cui siamo stati abituati a connotarla e delineando un bacino sociale di riferimento che può trovare riscontro anche nelle precarizzate e atomizzate società occidentali post-fordiste.

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