L’assemblea convocata dai compagni e dalle compagne dell’ex opg a Roma è stato un evento che segna una netta discontinuità con le pratiche che, nel recente passato, hanno contraddistinto la sinistra radicale.
Una discontinuità che va assolutamente evidenziata senza tuttavia omettere quelli che a noi paiono come i limiti della proposta.
Anzitutto la composizione della platea e degli interventi hanno evidenziato che a essere protagonisti del progetto sono quei compagni e compagne che vediamo nelle lotte, nei cortei e al nostro fianco negli scioperi.
Per una volta il palco è stato loro e non dei professionisti del disastro che normalmente guidano i processi, soprattutto quelli elettorali.
La presenza della sinistra “ufficiale” è rimasta, dunque, sullo sfondo ed è apparso ben chiaro che, se il processo avrà senso e fortuna, a guidarlo dovrà essere quella platea di attivisti e attiviste che si sono alternati negli interventi.
Inoltre, fa ben sperare la presenza di un folto gruppo di giovani compagni e compagne che possono garantire quel ricambio generazionale di cui abbiamo bisogno per liberarci da una sindrome della sconfitta che ha colpito tutti gli attivisti, anche coloro che in questi anni sono rimasti coerentemente dal lato giusto della barricata.
L’impressione è quindi che in assemblea ci fossero presenti i nostri compagni e non quelli che in questi anni abbiamo verificato non essere più i nostri amici, ma molto spesso nemici, coloro che sono abili nell’intestarsi lotte e mobilitazioni per sfruttarle a fini carrieristici del tutto personali.
Vogliamo essere chiari: se non ci interessa più di tanto la retorica della costruzione dal basso o l’idea che il problema stia semplicemente nella forma partito novecentesca (lasciamo queste trattazioni alla cosiddetta società civile i cui danni prima o poi andranno quantificati), dobbiamo anche affermare che siamo stufi di essere accomunati ad ex partiti le cui strutture di base semplicemente non esistono più o si sono trasformate in meri comitati elettorali o di gestione del potere, che negli anni hanno distrutto ogni idea di alternativa.
Un primo elemento positivo dell’assemblea del Teatro Italia sta tutto qui. Non è poco, è la precondizione per fare qualcosa di serio, una condizione che ad oggi è sempre mancata.
Potere al Popolo
Viviamo in una società che tende ad escludere da pur minimi livelli di tutela una larga parte della popolazione. La crisi non risparmia nessuno e se ad essere colpite sono soprattutto le fasce più deboli (lavoratori, precari, disoccupati e immigrati), non viene nemmeno risparmiata una buona parte di piccola borghesia. Siamo cioè nella situazione in cui esistono (per dirla con Laclau) ampi strati di popolazione le cui richieste (il più delle volte legittime) non possono essere evase dai “soliti” rappresentanti. Ciò crea quel fenomeno in cui si manifesta la suddivisione tra gli “esclusi” e il “potere” che è tipica dell’insorgere di una contronarrazione populista.
Ne prendiamo atto e non riteniamo neppure particolarmente negativa l’idea di tirare giù un programma in pochi punti facilmente comprensibili da tutti. D’altronde, se Laclau ci insegna qualcosa è che il populismo rappresenta, soprattutto, un elemento discorsivo e ben si adatta a talune situazioni (specie quelle elettorali).
Contemporaneamente, occorre avere ben presente che gli interessi dei lavoratori sono molto diversi dagli interessi di altri settori sociali e che la differenza, per noi, sta tra sfruttati e sfruttatori e non tra “popolo” ed “elite”.
Questa specificazione non è di poco conto. Durante il dibattito nell’assemblea è emersa più volte la necessità di porre paletti precisi alla discussione. In particolare è stato toccato il tema delle nazionalizzazioni delle imprese strategiche e dei rapporti con i poteri della UE. Noi non crediamo che questi temi siano divisivi anzi siamo convinti che vadano discussi. Per farlo, visto che sulla questione si confronteranno ipotesi diverse, riteniamo necessaria l’elaborazione di riflessioni attente, che inseriscano nel dibattito un fatto al momento sottostimato rispetto al suo potenziale dirompente.
Ci riferiamo al processo di divaricazione tra politica e potere, per cui la politica è sempre più ridotta entro i canoni del “talent show” con cui si rappresenta la formalità dei processi democratici, mentre il potere diventa appannaggio di una “aristocrazia tecnica” ormai in grado di guidare la macchina amministrativa e burocratica di uno Stato senza più la necessità di alcun indirizzo politico, ormai determinato a livello sovranazionale e collettivamente normalizzato da una cultura che, nonostante 10 anni di crisi, continua a considerare l’ordine del profitto privato come l’unico orizzonte delle relazioni sociali, politiche e produttive di una società.
Quanto appena affermato, inevitabilmente cozza con la “urgenza elettorale” che accompagna il progetto dei compagni napoletani, ma svela un tema più strategico: la mancanza di una organizzazione di classe adeguata all’assetto con cui il modo di produzione capitalista ha, oggi, ristrutturato la gestione del potere nella società in cui viviamo.
Unire le lotte esigenza primaria
Siccome non nasciamo ieri sappiamo benissimo che se i compagni dell’ex opg avessero lanciato una assemblea nazionale in cui la piattaforma prevedesse la creazione di una struttura permanente di sostegno a lotte e mobilitazioni o un abbozzo di organizzazione politica plurale, senza mettere in campo l’ipotesi elettorale, il risultato non sarebbe stato lo stesso. La riuscita dell’assemblea è, dunque, un segnale che va colto ma ne vanno colti anche i limiti. L’idea di sviluppare una organizzazione politica plurale fatta dai compagni e dalle compagne che oggi sono attivi e che il lavoro sporco, quotidiano, lo sanno fare è un obiettivo che richiede tempi lunghi, che non fa balenare risultati immediati e che sconterebbe ancora più censura di quella già totale che ha oscurato l’assemblea del Teatro Italia.
Ma se questa condizione la conosciamo bene, se capiamo effettivamente l’esigenza di farci i conti, rimane comunque l’idea che senza organizzazione il tutto rischia di morire in culla. Noi non crediamo infatti che una lista elettorale possa essere propedeutica alla costruzione di un’organizzazione. Crediamo che quest’ultima sia esattamente ciò che manca di più in questo momento.
Ovviamente è un dibattito che lasciamo aperto. Non esiste una teoria meccanica da applicare alla storia, troppe cose cambiano, e cambiano i contesti in cui si opera.
Sappiamo però che il rischio dell’operazione è elevato. Perché, come abbiamo imparato in questi anni col naufragio di Syriza, nei balbettii di Podemos sulla Catalunya o in altre occasioni, è assolutamente necessario attrezzarsi per combattere nemici molto potenti e organizzati, altrimenti si rischia di fare il gioco dell’avversario. Inoltre, è concreto il rischio di non raggiungere il risultato atteso bloccando l’intero processo riaggregativo che, al contrario, si pensava di sostenere, come spesso si è verificato in anni recenti. D’altra parte, le organizzazioni del movimento operaio sono state costruite per questo, hanno sempre considerato le elezioni un mezzo e non un fine, hanno subito sconfitte ma hanno mantenuto le strutture, hanno sviluppato resistenze, avanzamenti, ritirate. Tutte cose che solo una organizzazione può fare e che un cartello elettorale difficilmente può mettere in campo, pur con tutta la buona volontà del caso e al netto delle buone intenzioni.
Conclusioni
Abbiamo scritto queste poche riflessioni di getto, dopo un primo giro di discussione al nostro interno. Il fatto stesso che un collettivo comunista come il nostro, poco abituato a ragionare in termini elettorali, lo abbia fatto significa comunque che ciò che abbiamo visto al Teatro Italia è per noi, effettivamente, una novità di cui occuparci.
Come avrete notato il discorso non arriva a conclusioni. Tuttavia, la proposta dell’ex opg ha per noi un valore fondamentale: ha squarciato il velo sulle difficoltà in cui si dibatte la sinistra di classe, su un mondo di militanti imprescindibile per chiunque di noi. Per tutti coloro che da anni, nonostante l’azione militante, sono impossibilitati ad intervenire intervenire in un discorso politico escludente; stretti tra una destra sempre aggressiva e reazionaria e una sinistra istituzionalizzata, che non possiamo neppure nominare senza provare un moto di disgusto.
Occuparci della questione è, quindi, un nostro problema, ringraziamo dunque i compagni dell’ex opg per la sterzata. Chi fa politica tra la gente e tra i lavoratori sa che queste cose servono.
Servono muscoli, coraggio e cuore. Ma serve anche intelligenza e sguardo lungo. D’altra parte ciò che vogliamo raggiungere è noto a tutti: la rivoluzione. Per farla serve coscienza di classe, sguardo sulla società e ambizione politica.
Il dibattito sul “che fare” nell’immediato per noi è aperto. E tutto questo è un bene.