Appuntamento a Roma per il corteo promosso da Eurostop, rete dei movimenti per il no sociale e studenti in lotta.
Ore 14,30 Porta San Paolo, metro b Piramide
La crisi nelle classi dominanti
Il 25 marzo, i capi di stato e i burocrati della UE terranno a Roma un vertice in occasione del sessantesimo anniversario dell’avvio del processo di integrazione europeo. Sarà una celebrazione ma sarà soprattutto un vertice che tenterà di rilanciare un processo di integrazione che negli ultimi anni ha subito diverse battute di arresto e mostrato tutti i suoi limiti.
Ricordiamo che, laddove i cittadini dei singoli stati sono stati chiamati, in questi anni, a sostenere il processo di integrazione hanno sempre espresso voti contrari a questo processo.
Potremmo partire dal referendum francese sulla bozza di Costituzione Europea fallito per la mobilitazione dei sindacati nel 2005, passando dall’oxi greco del luglio 2015 fino alla Brexit inglese. Anche il referendum sulla nuova Costituzione Italiana proposta dal governo Renzi stava all’interno di un tentativo di ristrutturazione dello Stato Italiano compatibile con una nuova forma di governance europeista.
I limiti che sono evidenti a tutti portano all’avanzata in tutti i paesi di forme politiche che vengono definite euroscettiche o populiste, spesso con segno reazionario di destra il cui contrasto pare la nuova frontiera politica delle forze liberali e di centrosinistra che si aggrappano alla UE come baluardo di civiltà.
La recente vittoria negli USA di Trump aggiunge un nuovo tassello alle difficoltà della UE che si trova sempre di più schiacciata tra il nuovo corso degli USA, il riemergere della potenza russa e l’avanzata del colosso cinese. Vengono al pettine tutti i nodi di un processo di integrazione gestito da una frazione del capitalismo mondiale che ha distrutto ogni funzione progressista immaginabile all’inizio come possibile. Negli anni 90 avviene una trasformazione evidente quando la crisi economica portava alla luce la necessità di ristrutturare l’economia e la governance europea in funzione di una competizione internazionale in cui l’obiettivo era l’abbassamento dei diritti dei lavoratori per competere in un mercato globale dove la caduta del blocco sovietico sembrava avere distrutto ogni alternativa di società basata sul socialismo.
Il progetto politico della UE negli anni 90
Il naufragio della natura auspicabilmente progressista della UE ha dei passaggi precisi.
Il trattato di Maastricht del 1992, la cui opposizione in Europa era stata gestita in modo molto blando da alcune forze di sinistra, si era inserito in una fase in cui la crisi mondiale si preparava a far deflagrare alcuni assetti consolidati. Da quel trattato in poi la UE ha cominciato un processo di continua sottrazione di sovranità agli Stati nazionali sia dal punto di vista economico che politico. Il successivo trattato di Lisbona del 2007 disponeva una serie di regolamenti che sostituivano la mancata nascita di una Costituzione Europea con la possibilità di intervenire sulla politica degli Stati sempre di più regolata dai burocrati della UE.
L’unificazione monetaria era il passaggio chiave per il governo dell’economia nella zona europea che doveva servire alla creazione di un competitore economico coeso in grado di interagire con gli USA nella gestione della crisi. La UE diventava un progetto politico che per marciare aveva bisogno di ristrutturare totalmente il modello sociale in senso neo capitalista, trovando in ogni momento la possibilità di governare sottraendo ai cittadini dei singoli stati la possibilità di incidere sulle scelte. L’introduzione del fiscal compact, e in Italia dell’articolo 81 della Costituzione con il pareggio di bilancio, serviva appunto a una marcia a tappe forzate per risanare le economie dei paesi più deboli con massicce dosi di tagli, privatizzazioni e politiche antipopolari.
Una resistenza di classe
Nella vulgata comune dei media di potere si fa notare che le forze che propongono una rottura con la UE sono forze di destra. Questo ragionamento è viziato alla radice. Il primo intoppo al processo di integrazione UE avviene infatti in Francia con la bocciatura della Costituzione Europea. In Grecia, l’anello debole degli ultimi anni, la possibile rottura arriva da sinistra con la stagione degli scioperi generali e con la vittoria di Syriza alle elezioni fino allo straordinario risultato del referendum del luglio 2015 in Grecia. In Gran Bretagna la Brexit ha fatto breccia soprattutto nelle zone popolari ed è stato un voto fortemente sociale legato alla classe operaia inglese.
Si badi bene che non occorre confondere il dato sociale con quello politico. Fatta salva la questione della Grecia, appare evidente che le forze della sinistra in Europa hanno deciso scientificamente di abbandonare l’idea di una rottura della UE per lasciarla alle forze di destra. Il caso limite è quello del Partito Laburista inglese che, elegge Corbyn sulla base di un sentimento anti UE ma viene abbandonato dal leader laburista (schiacciato dalla propria burocrazia) in occasione del referendum sulla Brexit. La situazione diviene surreale degli ultimi mesi dove Corbyn cerca di imporre ai laburisti il sostegno parlamentare alla Brexit nonostante l’opposizione dei propri quadri di partito che cercano (senza successo) di farlo destituire.
Ma il caso limite è sicuramente quello greco. Non è qui il momento di sottolineare (ancora una volta) le ambiguità del programma di Syriza che ne hanno causato la sconfitta e poi la hanno resa complice del massacro continuo delle classi popolari del proprio paese. La questione che ci riguarda è invece il fatto che la vittoria della sinistra greca avviene sulla base di una radicalizzazione del popolo greco che vuole respingere i continui memorandum della trojka e non semplicemente modificarli. Il referendum di luglio fa cadere l’ultimo velo sulla reale natura della UE. La volontà di imporre ai lavoratori greci ulteriori tagli non cessa neppure di fronte all’espressione della volontà popolare che si esprime nel grande successo dell’oxi. La natura di Syriza fa il resto, cedendo alle volontà imposte e rifiutando la rottura con la UE, dimostrando che all’interno della cornice della UE non è possibile alcun sostegno né dai lavoratori di altri paesi (che non si mobilitano a favore degli omologhi greci) né dalle varie sinistre europeiste né socialdemocratiche (che sono il nemico) né radicali (che consigliano a Syriza di cedere e continuano a sostenerla ancora oggi). Il naufragio greco fa emergere all’interno della sinistra almeno tre ipotesi. L’ipotesi legata alla sinistra europeista e alla difesa dell’operato di Syriza, l’ipotesi di una radicale trasformazione in senso democratico della UE attraverso la disobbedienza ai trattati (incarnata nell’ipotesi dell’ex ministro Varoufakis e nel movimento Diem 25 per la democrazia in Europa) e l’ipotesi dell’irriformabilità della UE legata in Italia alla piattaforma sociale Eurostop.
Ad oggi non esiste lotta a livello locale, nazionale o internazionale che non abbia come controparte l’Unione Europea. E’ stato così per il contrasto al jobs act italiano, come nella lotta contro la Loi du Travail in Francia. L’Unione Europea è responsabile delle leggi di liberalizzazione (come la Bolkenstein) che colpiscono indiscriminatamente lavoratori tradizionali come i portuali come pezzi di ex ceto medio come i taxisti o i piccoli albergatori.
L’Unione Europea decide cosa finanziare in Europa e cosa no. Decide di sostenere le grandi opere come la TAV e non progetti di recupero del territorio o delle periferie.
L’Unione Europea è responsabile della politica delle privatizzazioni dei servizi pubblici in tutta Europa anche in settori strategici come i trasporti, l’elettricità e l’acqua.
Vengono dettate direttamente dalla UE anche le riforme del sistema dell’istruzione, le riforme draconiane contro le pensioni, la distruzione della sanità pubblica.
Chi lotta contro queste politiche lotta contro la UE, contro i suoi regolamenti imposti. Una sinistra che voglia rappresentare gli interessi delle classi popolari e contemporaneamente sostenere l’ineluttabilità del processo di integrazione è costretta a salti mortali incomprensibili o a tradimenti drammatici come in Grecia. Rinunciare a questa battaglia è quindi un errore e se si vuole compiere una lotta politica seria per le classi popolari e contro l’austerità bisogna avere il coraggio di dichiararsi contro gli strumenti attuali del dominio.
Sovranità nazionale vs internazionalismo?
Sulla questione della sovranità nazionale si gioca una partita tutta ideologica. L’accusa che viene da più parti è infatti viziata di ideologia in senso deleterio, nel senso di falsa coscienza.
La necessità di rottura della UE e del suo strumento monetario è una necessità per rappresentare non tutta una nazione ma la sua parte di classe. Chiunque può vedere che una parte del capitale, anche nel nostro paese, ha tutto l’interesse a sostenere la UE vista come strumento per affermare la supremazia del libero mercato e imporre sacrifici ai lavoratori. Nel processo imposto dalla UE la parte del capitale vincente è perfettamente a proprio agio, ne sostiene le politiche e lavora a sostegno delle forze politiche che stanno in questo campo. Vi è una parte di borghesia perdente che mal sopporta queste politiche che si fa rappresentare dalla destra ma è una parte che in questo momento non possiede le leve del comando. Il problema della borghesia perdente, a ben vedere, riguarda più la crisi economica che il comando liberista dei trattati.
A loro viene data una in risposta una politica e un atteggiamento populista in senso reazionario. Le loro domande inevase ricevono risposte da una destra che spara a zero sulla UE perché sfrutta un risentimento in cui stanno insieme la lotta all’immigrazione come la lotta contro i trattati che favorirebbero un capitale solo straniero contrapposto a un capitale nazionale in crisi.
Non a caso, quando governa, la destra segue fedelmente le politiche del centrosinistra privatizzando, aumentando la precarietà del lavoro e distruggendo il welfare. Usa poi il problema migratorio in maniera totalmente strumentale per deviare la rabbia popolare verso il nemico più debole essendo incapace di capire che il motore della crisi è legato alla struttura del capitalismo transnazionale e alla sua crisi sistemica aperta fino dalla metà degli anni 70.
In questa fase la scomparsa della centralità della nazione come luogo di decisione politica è stata la carta usata dal capitale per superare la crisi. Questa carta è fallita clamorosamente. All’interno di questo fallimento, le classi ex dominanti reagiscono ma sono divise. Trump e Le Pen rappresentano una parte di queste classi, Clinton e Merkel l’altra parte. In questo senso la lotta tra due visioni generali è una lotta tutta interna alla borghesia. In questa lotta occorre inserirsi cercando in primo luogo di togliere al potere le armi del proprio comando.
Queste armi oggi si chiamano UE ed euro. Dichiararsi radicalmente per la distruzione di queste armi in mano al nemico ci sembra una base di partenza minima ma assolutamente necessaria e indispensabile.
La necessità di coniugare protesta e proposta
Il sentimento verso le politiche della UE e legate al suo strumento monetario è diffusa. In questo momento non si scontrano solo il blocco europeista (il centrosinistra europeo e le ex socialdemocrazie) e un blocco antieuropeista definito tout court come blocco populista incarnato a livello di rappresentazione mediatico come un blocco di destra reazionario. In realtà la situazione è ben più complessa. All’interno della sinistra europea si fa strada infatti l’idea che le sorti progressive del processo UE non siano più tali. In questo senso si muovono pezzi della vecchia sinistra comunista (non solo il Partito Comunista Portoghese e il KKE, ma anche settori importanti della sinistra spagnola e francese e i movimenti indipendentisti socialisti come la CUP in Catalogna) e alcuni movimenti sociali.
Questa parte di sinistra sarà in piazza il 25 marzo rappresentata dalla piattaforma Eurostop e dalla rete per il no sociale al referendum del 4 dicembre. Noi crediamo che sia un bene che queste prospettive si incontrino in piazza il 25 per contestare la UE e non solo per chiedere una democratizzazione dell’Europa come invece faranno altri soggetti della sinistra radicale. Non pensiamo però che si possa costruire qualcosa con il solo criterio della nemicità. Occorre infatti avere e sviluppare un progetto politico che porti a una sintesi programmatica. Non crediamo infatti che basti l’idea di alimentare le lotte contro il mostro europeista che sta saltando in aria per le sue contraddizioni interne e per il difficile quadro delle relazioni globali.
Per inserirsi nella crisi delle classi dominanti occorre infatti avere un programma di uscita. Questo quadro dovrà per forza di cose essere all’interno di una prospettiva nazionale se lo Stato che abbiamo in mente ha la possibilità, almeno teorica, di sviluppare politiche di riappropriazione di uno spazio pubblico per la produzione (rinazionalizzazione del sistema bancario, ritorno in mano pubblica di alcuni settori fondamentali della produzione, sviluppo di relazioni tra un sistema misto di produttori statali, sociali e privati con la predominanza dei primi due settori) e per lo sviluppo di relazioni con altri stati per favorire la pace. Tutto questo non significa pensare che lo Stato o la moneta nazionale siano strumenti amici ma siano forme su cui la classe operaia e le lotte sociali hanno la possibilità di incidere.
Il silenzio dei media sulla contromanifestazione del 25 marzo, le strette repressive del Governo contro il nostro corteo sono un segnale che, per le classi dominanti, noi siamo l’unico nemico pericoloso. Destre fasciste e sinistre europeiste potranno sfilare tranquillamente per le vie di Roma perché assolutamente compatibili con chi governa. Noi invece gli facciamo paura.
Un motivo in più per esserci e soprattutto per continuare un processo di riaggregazione politica intorno alla piattaforma sociale Eurostop che avrà un passaggio importante nell’assemblea del giorno dopo.
Collettivo Comunista GCS