Riprendiamo un lungo articolo scritto tempo fa in occasione delle proteste dei taxisti. Il testo parla del fenomeno cosiddetto della sharing economy. E’ un testo datato ma ancora attuale.
Buona lettura
Sharing economy e le nuove forme di sfruttamento globale
Recentemente, in un lungo corteo operaio che si è snodato per le strade di Genova durante lo sciopero generale, i presenti hanno potuto notare una curiosa fila di taxi a chiudere il corteo operaio. Alcune cooperative di taxisti avevano preso contatto con la Cgil locale e, assecondandone la piattaforma rivendicativa, avevano deciso di essere parte della protesta. Su molte vetture, nei mesi precedenti, si potevano notare adesivi vistosi in cui veniva esplicitato l’appoggio della categoria ai lavoratori delle aziende a rischio (Piaggio e Fincantieri).
Nel film di Robert Guediguian “La città è tranquilla” il protagonista guida un taxi per le strade di Marsiglia canticchiando ai rari clienti l’Internazionale in più lingue. L’autista era stato precedentemente licenziato come lavoratore del Porto e aveva impegnato la liquidazione per acquisire la licenza di un taxi che gli consentiva di tirare avanti. Oltre la finzione cinematografica e al di là di particolari congiunture economiche, la figura dei guidatori di taxi oggi appare abbastanza diversa da come era comunemente intesa a sinistra: una corporazione chiusa con elevati margini di profitto legati alla mancanza di concorrenza e tendente verso simpatie politiche reazionarie.
Nella realtà, attraverso un fenomeno che si accelera in situazioni di crisi economica di lunga durata, si tende a sottovalutare che un pezzo di borghesia tende a proletarizzarsi come ad esempio accade per piccoli gestori commerciali che raggiungono a fatica il denaro per vivere dopo aver impiegato i propri risparmi per rilevare un bar o una tabaccheria, trasformandosi in quelli che si definivano una volta bottegai…
Nei mesi scorsi gli addetti dei taxi, hanno messo in atto forme di protesta contro lo sviluppo italiano della piattaforma Uber. Queste proteste sono state molto dure e hanno creato una contrapposizione politica che ha spinto vari governi europei (Francia, Spagna e Italia) a bloccare alcune app (la famosa Uber Pop) in attesa di norme di regolamentazione. Cerchiamo di chiarire di cosa si tratta e soprattutto cerchiamo di analizzare il contesto generale in cui si inserisce la cosiddetta sharing economy: per alcuni la nuova frontiera di un’economia in tempo reale adatta alle esigenze dei consumatori, per altri una nuova frontiera dello sfruttamento globale. Per fare questo, affrontiamo due casi che ci sembrano significativi: lo sviluppo di Uber nel sistema dei trasporti e la piattaforma Airbnb nel campo dei servizi per il turismo.
La “distruzione creativa” di Uber
Il termine distruzione creativa è nato negli ambienti californiani della Sylicon Valley. In un mondo schiacciato dalla crisi economica, si sostiene che sia necessario sviluppare nuove strade creative per rispondere alle esigenze di un mondo in continua trasformazione. Con uno sguardo rivolto soprattutto ai consumatori, cercando di capirne le esigenze: in primo luogo la possibilità di muoversi in modo flessibile e a prezzi ridotti.
Uber è una start up che nasce nel 2009 con una sottoscrizione iniziale e si allarga in modo costante fino al valore stimato attualmente di 50 miliardi di dollari. In questo momento Uber vanta di creare in media 50 mila posti di lavoro ogni mese in tutto il mondo. L’idea è semplicissima: chiunque possieda un’auto e alcuni requisiti minimi può diventare autista di Uber. Cede all’azienda (che non lo assume in nessun modo) parte del suo tempo in cui verrà contattato dai clienti che hanno semplicemente scaricato un’applicazione sul proprio telefono. Il servizio di Uber è quello di coordinamento e di localizzazione reciproca tra cliente e autista. I prezzi sono stracciati rispetto alle tariffe dei taxi tradizionali, il sevizio più celere e soprattutto viene messo in atto il meccanismo del feedback con il quale il cliente valuta l’autista improvvisato dandogli un voto che determinerà il futuro lavorativo dell’autista free lance.
Ovviamente Uber si rende conto che un sistema così semplice rischia di entrare in contrasto con le regole dei vari stati in cui l’applicazione funziona. Decide quindi di dichiararlo lasciando agli autisti freelance il compito di mettersi in regola, pagare le tasse e rispettare le norme di sicurezza. Uber si nasconde dietro un dito: è un vero e proprio datore di lavoro ma fa finta di essere un giochino per gli smartphone. Della tariffa, che viene stabilita dall’azienda, una parte cospicua passa direttamente a Uber per il sevizio. Peccato che gli autisti non abbiano nessuna regola che li tuteli per la loro salute, la loro pensione e che tuteli la sicurezza degli utenti. Uber fa profitti sfruttando software costruiti su conoscenze informatiche pregresse e costruisce su questa proprietà un luogo di sfruttamento verso migliaia di lavoratori che perdono totalmente il contatto con il datore di lavoro se non quando (dopo una serie di feedback negativi) vengono espulsi dalla piattaforma (in questo caso forme di tutela dei lavoratori non possono neppure essere pensate). Che questa situazione sia intollerabile non va neppure spiegato: recentemente negli Stati Uniti hanno cominciato a muoversi i lavoratori del nuovo servizio che, unendosi in piattaforme rivendicative, chiedono di essere considerati alla stregua di veri e propri dipendenti almeno per quanto riguarda il rimborso di alcune spese (benzina, manutenzione del mezzo). Il tutto mentre l’azione lobbystica di Uber si sviluppa con tutta la sua forza sfruttando il desiderio legittimo dei cittadini a una mobilità meno dispendiosa, modalità che sarebbe garantibile con un servizio pubblico di trasporto che, invece, continua a subire tagli e privatizzazioni.
Nel frattempo i taxisti tradizionali, che erano obbligati al rispetto di alcune norme fiscali e di sicurezza e soprattutto dovevano trattare con lo Stato tariffe e gestione delle licenze, perdono clienti e molti di loro saranno obbligati a passare alla piattaforma, che rischia di eliminare ogni forma di tutela residua. Il tutto in nome di un’innovazione che, se non fosse gestita dal capitale, potrebbe servire per rendere il servizio più efficiente e diminuire i carichi di lavoro lasciando inalterate le tutele e la forza contrattuale dei lavoratori; invece serve solo per rendere i lavoratori sempre più precari, isolati e sfruttati aumentando a dismisura i profitti di un’azienda globale prossima ad affrontare la sfida finanziaria con la quotazione in borsa.
Viaggiare low cost. Il caso Airbnb
Nel 2015 Airbnb vale sul mercato circa 24 miliardi di dollari con un incremento di 14 miliardi di dollari solo nell’ultimo anno. La piattaforma, accessibile a tutti coloro che cercano un alloggio temporaneo, è sviluppatissima a livello mondiale e l’Italia è al terzo posto (dopo Stati Uniti e Francia) nella speciale classifica interna sulle transazioni gestite da Airbnb. Funziona in modo semplicissimo: esiste un host che, registrandosi, mette a disposizione un immobile per un determinato periodo (stanze, case o piccoli bed and breakfast) a un certo canone e un cliente che lo affitta. Airbnb è un database pubblico che fa da tramite sulla transazione, mette in contatto host e cliente e si prende una parte dei soldi pattuiti. Si tratta di una idea molto semplice e molto appetibile per chi viaggia: consente di risparmiare sulla locazione e di trovare spazio in una casa immersa nel tessuto sociale e geografico di un luogo che si intende visitare. Da molti punti di vista funziona come Uber, ma la sua influenza negativa sui lavoratori è più mediata. Mentre in Uber vi sono dei dipendenti sotto falso nome che effettuano lavori veri e propri senza alcuna tutela, Airbnb mette a disposizione immobili e quindi il suo impatto è, a prima vista, inferiore.
Il discorso cambia se però consideriamo che il settore turistico alberghiero mette all’opera milioni di addetti in tutto il mondo, già gravati da contratti con sempre meno diritti e con salari bassissimi. La concorrenza del settore informale gestito tramite Airbnb ha un impatto fortissimo sulla categoria. I dati sono ancora incompleti e si basano su ricerche che sono appena iniziate, ma lo sviluppo possente di Airbnb comporta notevoli diminuzioni degli introiti degli alberghi (soprattutto nelle fasce alberghiere medio-basse), diminuzioni che colpiscono direttamente i gestori e le catene, che poi si rifanno scaricandoli sui lavoratori. Inoltre il sistema, virtuoso per Airbnb ma dannoso per i lavoratori, può far sì che molti alberghi cessino la loro attività per trasformarsi in stanze gestite dal portale (ciò sarebbe vietato dalle regole interne, ma Airbnb dichiara di non poterci fare niente). Il fatto di trasformarsi da aziende regolari (con obblighi di legge e contrattuali) in aziende informali rende ancora più ricattabile il personale costretto a svolgere il lavoro in nero e a rinunciare a ogni diritto residuo. Inoltre, Airbnb ha l’effetto di trasformare le rendite immobiliari in fonte di guadagno per i possessori rendendo ancora più insopportabile l’effetto delle disuguaglianze sociali. A New York, per fare un esempio, la battaglia contro Airbnb è condotta anche dagli attivisti del movimento per la casa, che denunciano come il sistema tenda a favorire il permanere di case sfitte visto che, probabilmente, la rendita risulta superiore con il sistema gestito dal portale Airbnb rispetto al tradizionale mercato degli affitti, già particolarmente insopportabile. Nei luoghi in cui il turismo è una grossa parte dell’attività questo fenomeno ha un’influenza diretta sul mercato immobiliare, sottraendo case ai lavoratori per poterci guadagnare di più, spesso esentasse.
Il fenomeno è comunque in espansione anche se cominciano ad esserci restrizioni. Ad esempio il servizio è bloccato in alcune città (Barcellona, ad esempio) in cui gli affitti turistici gestiti direttamente tra privati non sono possibili e chi affitta dovrebbe pagare alla municipalità la tassa di soggiorno. Altri enti pubblici hanno invece deciso di non bloccare Airbnb ma di collaborare sulla lotta all’elusione fiscale, aspetto che non rientrava nelle pratiche iniziali di Airbnb, la quale si limitava ad avvertire clienti e host affermando, nelle regole di ingaggio, che occorreva rispettare le regole fiscali locali, mentre chi non lo faceva si assumeva la propria responsabilità.
Ovviamente, siamo consci del fatto che in situazioni particolari questo sistema ultraliberista sugli affitti può essere una valvola di sicurezza per chi fa fatica ad arrivare alla fine del mese; ad esempio in paesi come Spagna, Irlandia e Grecia i cittadini, alle prese con la crisi economica e con i tagli dell’austerità, reagiscono con i pochi strumenti disponibili. Molti avevano comprato immobili negli anni precedenti (spinti dalla bolla immobiliare) e attualmente sopravvivono affittando la casa nel modo più semplice e più remunerativo superando così una fase in cui mancanza di lavoro e di diritti rischiano di essere tali da non garantire altrimenti la sopravvivenza. In molti paesi soffocati dalla crisi vi sono fenomeni in cui le proprietà (molte volte piccole) dei genitori servono da fonti di reddito per figli che barattano la loro permanenza in casa dei genitori con la possibilità di ricavare un reddito attraverso il sistema garantito da Airbnb. Questo metodo è però il contrario dello sviluppo ragionato dell’economia che invece ha bisogno di programmazione, di un sistema fiscale efficiente e di trasformare le rendite in attività produttive. Chi campa affittando la casa dei genitori con Airbnb magari sbarca il lunario consentendo ad altri di viaggiare a costi ridotti mentre, nel frattempo, i grandi proprietari possono lucrare sui loro possedimenti improduttivi e Airbnb diventare il software che rende possibile tutto questo inanellando profitti, deprimendo i diritti dei lavoratori e sottraendo case per chi non ha neppure il salvagente di una piccola rendita. E’ evidente che dietro un tale sistema si crea alla fine un trasferimento di potere e di soldi tra chi ha la possibilità reale di mettere a profitto grandi rendite e chi alla lunga soccomberà senza neppure lo straccio di un lavoro con qualche diritto.
Felici e sfruttati
Uber a Airbnb sono soltanto gli esempi più evidenti come la retorica delle start up nasconda un fenomeno di impoverimento globale delle classi subalterne ad opera del capitale sempre più concentrato in poche mani. Il loro successo pare inarrestabile perché il capitale costante continua a essere detenuto da una nuova fascia di capitalisti che controlla i mezzi di produzione e di coordinamento delle proprietà mobili e immobili. Non è però il caso di immaginare che sia all’opera un inedito modello di relazioni sociali: sono come al solito i meccanismi della rendita che generano l’aumento delle disuguaglianze. A questo non si risponde distruggendo la tecnologia o cercando di restaurare una ipotetica e ideale età dell’oro. Lo sviluppo delle tecnologie informatiche può e deve essere pensato come un modo per aumentare le possibilità di ognuno, sia nel campo del tempo libero, sia in quello del tempo lavorativo. Non è quindi il caso di pensare a boicottaggi idealistici di questa o quella piattaforma: il nostro obiettivo non deve essere quello di impedire a qualche lavoratore di sbarcare il lunario guidando per Uber o a qualche altro di andare in vacanza spendendo cifre ragionevoli. Si tratta piuttosto di capire il funzionamento del capitale globale studiandone le ricadute sui lavoratori e sulle fasce meno abbienti: in generale lo sviluppo di queste tecnologie in mano alla logica del profitto causerà nell’immediato, ma soprattutto in prospettiva, un impoverimento di chi non detiene i mezzi di produzione e di rendita. Eppure lo sviluppo della tecnologia permetterebbe di ribaltare i rapporti di forza se queste nuove possibilità potessero essere gestite direttamente da chi lavora per rendere il servizio più efficiente, a minor costo per gli utenti e più remunerativo per i lavoratori. La diminuzione dei costi si otterrebbe così dalla decurtazione dei profitti dei padroni e dei detentori dei mezzi di produzione (in questo caso i gestori delle piattaforme globali o degli hotel che lucrano sul lavoro dei dipendenti). Nel contempo non possiamo non vedere come la variazione di composizione e di natura dei mezzi di produzione comporti l’effetto non collaterale di dividere ancora di più i lavoratori e gli sfruttati atomizzandoli, dividendoli tra chi riesce a trovare un suo piccolo spazio temporaneo per sopravvivere e chi invece perde quel poco potere contrattuale che aveva recuperato con le lotte degli anni precedenti. In questa situazione anche le lotte sindacali e sociali devono assumere nuovi parametri per cercare di unificare ciò che lo sviluppo del capitale divide; contemporaneamente la lotta sociale deve essere ancora di più unita alla lotta politica contro chi continua a detenere le leve di un potere che con nuove forme continua a creare diseguaglianze sociali in ogni paese.