E’ recentemente uscito per Derive Approdi il testo Guerra alla democrazia l’offensiva dell’oligarchia neoliberista dei filosofi francesi Pierre Dardot e Christian Laval. I due studiosi, qualche anno fa scrivevano “La nuova ragione del mondo” critica alla razionalità neoliberista, testo di riferimento per chi vuol comprendere cosa si intende per ordoliberalismo.
A differenza del precedente testo, la nuova uscita si presenta in una veste molto più agile e, riprendendo i concetti precedenti, li analizza in modo più coinciso e veloce. Il testo ci sembra comunque molto interessante e proviamo quindi a darne una lettura.
E’ diviso in capitoli che provano a tracciare un quadro della guerra alla democrazia portata dalle elite neoliberiste concentrando la propria attenzione sull’Europa. Il primo capitolo inquadra quindi il termine democrazia andando a specificare un preciso riferimento storico. Fissato uno degli oggetti della contesa si passa ad analizzare il nemico, l’ordoliberalismo, di cui si accenna una analisi storica. Come questa guerra venga condotta viene illustrato nei successivi capitoli dove viene trattato in particolare il caso della Grecia dei memorandum. Successivamente si analizzano gli autori di questa offensiva politica identificati in un complesso di agenti politici e culturali. L’ultima parte del libro accenna alla definizione di possibili forme di resistenza. Occorre quindi seguire la successione dei capitoli cercando di fissarne i temi principali.
Una definizione di democrazia
Fissare una propria definizione di democrazia è per gli autori assolutamente fondamentale in quanto la parola stessa viene usata con più significati a seconda dei contesti e dei periodi. Per farlo occorre uscire dalla vulgata comune che parla di democrazia in stretto riferimento alla possibilità per il popolo di partecipare a libere elezioni per scegliere i rappresentanti. Per gli autori la democrazia va riportata al suo spirito originario che deriva dall’unione tra demos (popolo) e kratos (lotta). La democrazia in senso originario viene quindi definita come il governo del popolo contro gli oligarchi. Un governo che deriva da una lotta che non cessa nel momento dell’applicazione della democrazia laddove si immagini che , a quel punto, la società sia pacificata e le fazioni in lotta abbiano un interesse comune. La distanza tra democrazia e oligarchia diviene poi la distanza che separa popolo da padroni e non, come normalmente accettato, un governo della maggioranza dal governo di una minoranza. Questa definizione è spesso stata dimenticata e adattata alle circostanze mutevoli dall’antica Grecia ai giorni nostri. Si tratta di un parametro importante per inquadrare l’ordine del discorso proposto dagli autori del saggio. Da lì discende tutta l’interpretazione della guerra alla democrazia riportata nel titolo.
In realtà il concetto è usato normalmente in termini più vaghi visto che la sua interpretazione, nel corso della storia, è legata a specifiche esperienze. Rimane il fatto che con lo sviluppo dell’ordoliberalismo, anche la semplice opportunità di scelta dei rappresentanti diviene fonte di scandalo fino alle recenti prese di posizione ripetute contro il suffragio universale. D’altra parte è evidente che, nelle società in cui viviamo, si tenda a variare il quadro normativo della democrazia attraverso successivi aggiustamenti istituzionali atti a rendere gli esecutivi espressione di minoranze. A saltare è, evidentemente, la possibilità per le elite di convincere le maggioranze della validità intrinseca delle loro proposte. I casi della Brexit e dell’elezione di Trump sono, in tal senso, gli ultimi esempi di uno scollamento tra chi governa e chi viene governato.
Questo scarto è un segnale di una crisi di rappresentanza del sistema dominante legato alla crisi ma, soprattutto, legato allo sviluppo di politiche che tendono a considerare inutile la necessità di legare ampi strati di popolazione ai governi e alle politiche dominanti.
L’ordoliberalismo
La definizione proposta dagli autori è legata al concetto di liberismo ordinato. La parola order sta per imposto dall’alto attraverso l’introduzione di una vera e propria “costituzione economica” in grado di fissare alcuni parametri invalicabili riferibili al diritto privato. L’introduzione di tali concetti risale agli anni ’30 in cui un gruppo di economisti come Von Hayek ipotizzavano che il semplice utilizzo della mano invisibile di Adam Smith non era sufficiente per combattere i nemici del libero mercato annoverati indistintamente tra fascisti, comunisti e keynesiani. La concorrenza e la preminenza del contratto economico da rispettare dovevano quindi essere il risultato imposto attraverso una serie di norme preminenti rispetto agli altri poteri.
La costituzionalizzazione del diritto privato fornisce quindi una cornice giuridica prevalente all’azione dell’esecutivo (i governi) e del legislativo (i Parlamenti nazionali) visti come influenzabili dall’opinione pubblica e in preda all’azione sia delle varie lobbies che dei movimenti popolari e sindacali. Nel dopoguerra l’economia sociale di mercato aveva fornito una cornice differente all’azione dei diversi stati europei usciti dal conflitto. Come sostiene Vladimiro Giacchè(1) si trattava di creare Costituzioni Nazionali (quella italiana ne è l’esempio lampante) che mettessero il diritto privato e la tutela dei profitti del capitale come subordinati ai diritti dei lavoratori e favorissero la partecipazione dei soggetti più deboli alla ricostruzione dell’economia. L’ordoliberalismo diventa invece predominante dopo gli anni ’70 in cui si apre la fase di crisi successiva alla fine di dell’epoca di Bretton Woods. Nei paesi centrali del capitalismo (USA e Inghilterra in primis) si sviluppano le politiche di Reagan e Thatcher avvisaglie di ciò che diverrà la regola nei trattati europei che accompagnano lo sviluppo della UE e della moneta unica nel periodo che parte dagli anni ’90 in poi.
E’ difficile non vedere che questa versione del capitalismo sia effettivamente un dato concreto nelle politiche che stiamo subendo. Lo si vede dall’analisi dei trattati europei da Maastricht a Lisbona e trova corrispondenza diretta nell’introduzione dei vincoli di bilancio alle spese degli stati la cui versione italiana più nota è l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione (articolo 81).
In una recente analisi del testo precedente di Dardot e Laval, il collettivo Militant(2) fa le pulci alla teoria qui espressa. Viene notato giustamente che gli autori tendono a considerare l’ordoliberalismo come una sorta di complotto ordito ai danni del sistema di relazioni sociali in Europa basato sull’estensione del welfare state. Giustamente, l’analisi di Militant mette in luce che la versione ordoliberale del capitale può svilupparsi e diventare predominante non attraverso complotti ma perché necessaria a rispondere alle esigenze di un capitale che entra in crisi di sovrapproduzione. In tal senso l’ordoliberalismo è una categoria che rimane centrale non come una negazione dello sfruttamento capitalista ma come la sua concreta realizzazione in un periodo storico ben preciso.
Si tratta qui, a ben vedere, di una discussione che attiene a una precisa visione del mondo. Se pensiamo che l’ordoliberalismo rappresenti un qualcosa di imposto dall’alto e sostanzialmente non legato alle contraddizioni intrinseche del capitale possiamo tranquillamente sostenere che la lotta contro le politiche di austerity sia una lotta contro le storture di un sistema che ha tutte le possibilità di mostrare un volto più umano e progressista. Se consideriamo invece l’ordoliberalismo come un figlio diretto dello sfruttamento capitalista (adatto alla fase in cui la caduta tendenziale del saggio di profitto obbliga le classi dominanti ad aumentare il tasso di sfruttamento dei lavoratori) allora ci dobbiamo porre il problema di capire come la lotta all’austerity possa essere compiuta in un periodo storico in cui la crisi del capitale sembra irreversibile.
Gli attori della società ordoliberale
Un sistema così pervasivo ha bisogno di attori impegnati nella sua diffusione ed estensione. Gli autori propongono la definizione di blocco oligarchico neoliberale intendendo in questo modo quattro categorie di attori divisi per funzione. Le quattro categorie vanno divise tra gli attori della governamentalità statale (politici e dirigenti dello Stato), gli attori economici a capo di imprese e istituti finanziari (corporate power), gli attori dell’informazione e dell’intrattenimento e il potere legato alle Università e ai centri di ricerca.
Tra le categorie si crea quasi una simbiosi e uno scambio di ruoli in cui ogni attore, cambiando campo, da un lato mette a disposizione il proprio ruolo e la propria esperienza in un nuovo campo ma contemporaneamente nega la sua funzione originale in un meccanismo che viene definito corruttivo.
La vastità del blocco sopra descritto pervade l’intera società creando le condizioni affinché ogni alternativa sia negata alla radice e il sistema neoliberista venga dipinto come naturale e indiscutibile. Gli autori discutono soprattutto del caso francese ma è difficile non vedere come questo sistema sia sostanzialmente all’opera anche in altri paesi.
In Italia il blocco governamentale è garantito principalmente dal Partito Democratico e dai dirigenti di stato in gran parte selezionati da questi. Le aziende e le banche coinvolte nel corporate power sono quella frazione di borghesia imperialista vincente che risiede soprattutto nelle grandi holding industriali e finanziarie da cui però è, almeno parzialmente e in questa fase, esclusa la frazione della piccola impresa e del commercio. Il blocco dei media e dell’intrattenimento è ben rappresentato ad esempio dall’impero di Repubblica sempre più largo e invasivo anche a livello di produzione di spettacoli e cultura con il proprio marchio. Le Università e i centri di ricerca sono in mano da anni a cricche di baroni e affaristi che tendono ad autoriprodursi attraverso la fedeltà al sistema.
Un blocco che tollera pochissima opposizione interna che stabilisce le categorie politiche in maniera totalmente confacente ai propri interessi (ad esempio la distinzione tra destra e sinistra in base a categorie totalmente astratte e sganciate da ogni caratterizzazione di classe).
Sconfiggere questo blocco è il compito di chi vuole lottare contro l’ordoliberalismo. Che tipo di politica e che tipo di organizzazione serva allo scopo verrà dagli autori affrontato nella parte finale del testo. Prima però occorre ancora specificare meglio gli attori in campo tra cui la sinistra liberale che gli autori definiscono con l’ossimoro “sinistra di destra”. Per farlo la scelta ricade su un caso di scuola: la resistenza greca e la resa di Syriza.
Il caso Grecia mette a nudo la reale natura antidemocratica del sistema
Il caso viene affrontato con una breve cronologia del rapporto instaurato tra l’UE creditrice e il debitore ellenico. Si tratta di quel che viene indicato come il ricatto del debito che porta non solo ai vari memorandum della Trojka ma anche a una serie di cambi di esecutivo dettati direttamente dall’esterno anche prima dell’avvento di Syriza come la sostituzione di Papandreu con Papademos ex direttore della Banca Centrale Greca (sostituzione che ricorda il siluramento di Berlusconi e l’arrivo di Monti in Italia).
Sui vari passaggi che scandiscono il rapporto tra l’esecutivo Syriza e la UE non ci soffermiamo rimandando al nostro testo “Grecia dalla resistenza alla resa” ed. Pigreco 2015(3).
Sostanzialmente gli autori mettono in evidenza l’impreparazione politica con la quale il Governo di Tsipras ha affrontato le trattative cercando di convincere con la forza di argomentazioni democratiche chi in realtà aveva in testa diversi concetti di democrazia.
Nel caso greco emergono tutti i caratteri dell’ordoliberalismo, in particolare il fatto che le cosiddette regole siano in realtà in contrasto con le aspirazioni espresse dai popoli fosse anche solo attraverso il voto. Gli autori ne ricavano l’idea che una democratizzazione dell’Europa e dei trattati è una pia illusione che riguarda tanto la sinistra liberale quanto i movimenti come Diem 25 dell’ex ministro Varoufakis. Giustamente viene notato come l’euro, lungi dall’essere uno strumento neutro, è un dispositivo disciplinare e di ricatto. Ne trarremmo le conclusioni che l’Unione Europea è una gabbia di acciaio da far saltare in aria ritornando alla sovranità nazionale? In questo senso ci si dovrà chiedere quale ruolo gioca la sinistra di classe nel contendere al populismo di destra la battaglia contro la UE? In realtà nelle conclusioni la prospettiva politica degli autori è molto diversa.
Sperimentare il Comune?
Sulla sconfitta storica della socialdemocrazia non vengono fatti sconti. Su questo gli autori sono molto chiari e, anzi, denunciano il ruolo primario delle socialdemocrazie nello sviluppo del sistema ordoliberale. Non si può che essere d’accordo se non che, come già nella discussione sulle origini dell’ordoliberalismo, si perdono per strada le ragioni politiche oggettive che hanno portato la socialdemocrazia a trasformarsi nel migliore alleato politico dei liberisti.
Qui non si tratta di negare il tradimento ma di inquadrarlo all’interno della variazione politica intervenuta dagli anni ’70 fino ai giorni nostri in virtù della crisi intrinseca del capitale.
La redistribuzione dei redditi nei trenta gloriosi non era infatti figlia di dirigenti di valore ma la realizzazione pratica di uno sviluppo del capitale che potendo garantirsi margini di profitto, in parte li redistribuiva con lo scopo di rendere partecipi del proprio sviluppo quote maggioritarie di forza lavoro. Il tutto in concorrenza con lo spauracchio del campo sovietico almeno fino al 1989.
Su questa differente impostazione con gli autori occorre insistere in quanto dobbiamo aver presente che il sistema di relazioni capitalistico era in funzione anche prima e, pur in una fase espansiva, creava le condizioni per una fase di turbolenza. Nella fase di crisi, la strutture politica di riferimento per forza di cose assumono carattere diverso. Il crollo della socialdemocrazia è quindi figlio di condizioni oggettive e non esclusivamente soggettive. Ne è l’emblema la trasformazione del PCI in PD attraverso le varie fasi di transizione. Ricordiamo che all’inizio si tenne una battaglia interna: per alcuni il nuovo partito della sinistra avrebbe dovuto semplicemente certificare la sua natura di Partito Socialdemocratico rinunciando al vecchio nome e adeguandosi anche a livello simbolico alla nuova fase. Per altri, risultati poi vincenti, si doveva prendere atto che, per la nuova fase, era impossibile definirsi socialisti perché la funzione sociale e storica di quel movimento (la redistribuzione dei redditi e la difesa del welfare) si avviava a essere impossibile.
In questo senso il PCI che diventa PDS fino alle varie trasformazioni che hanno dato origine al PD, alleato internazionale dei Partiti Socialisti in Europa diventati gli alfieri del neoliberismo, ne è stato l’avanguardia uguagliata solo dalla stagione del New Labour di Tony Blair.
La socialdemocrazia non tradisce affatto, semplicemente esaurisce la propria fase.
Questo significa che partiti con queste caratteristiche perdono la loro funziona storica e si trasformano quindi in gruppi di potere o di esperti che sono in preda a una degenerazione che non ha vie di uscita. Non è quindi la forma partito a essere necessariamente sbagliata ma l’adeguamento di quella struttura al pensiero dominante. Lo stesso Podemos, che per gli autori è visto come una possibile esperienza virtuosa, si è trasformato di fatto in un partito la cui definizione di movimento è di comodo e buona solo per convenienza.
Questo fatto è centrale e segnala una nostra distanza irriducibile dalle tesi degli autori. Qui non si tratta di disdegnare il linguaggio negriano o foucaltiano (sarebbe da un lato facile ma poco sensato) ma di contestare le proposte formulate in quanto non adatte a contrastare quel blocco oligarchico così efficacemente descritto in precedenza. Così come ci sembra poco sensato sostenere che la UE sia irriformabile e l’euro uno strumento di dominio e non immaginare che sia necessario innanzitutto distruggere tali strumenti.
Altra questione è il ruolo dello Stato. Qui siamo d’accordo con gli autori che descrivono uno Stato per nulla superato o obsoleto ma strumento indispensabile alle classi dominanti per regolare e applicare i principi ordoliberali. Il problema è stabilire se è possibile (con uno sforzo di immaginazione che viene richiesto esplicitamente) bypassare il tema della conquista del potere in qualche anello delle sue articolazioni auspicando invece una rete internazionale di buone pratiche del Comune. Ci chiediamo come ciò non aspiri al cosiddetto esodo in una riserva indiana che al più potrà essere tollerata a patto che non si allarghi. Se il blocco oligarchico che viene descritto ha quella potenza di fuoco è possibile combatterlo con strumenti di quel genere?
Sul concetto base di democrazia
Il libro in questione è quindi molto interessante e analitico. Su alcuni temi troviamo molto concordanza ma arriviamo a conclusioni molto diverse da quelle degli autori. Pensiamo quindi sia utile concludere questa riflessione riprendendo il nocciolo della questione per come viene espresso nel titolo “Guerra alla Democrazia”. Non si tratta infatti di negare la validità intrinseca o la presenza reale dell’ordoliberalismo ma di risalire al concetto inizialmente espresso di democrazia. La questione filologica è interessante in quanto tale ma, in realtà, ci pare che il concetto di democrazia rappresenti realmente cose di natura diversa e che la definizione proposta ne rappresenti solo una delle possibili. L’ordine neoliberista della UE è infatti perfettamente compatibile con un concetto democratico ampio. La preminenza del diritto privato e di una costituzione economica autoritaria non nega infatti il cuore della democrazia ma la spinge verso un territorio diverso. Più autoritario e più gravoso per la classe lavoratrice ma ancora legato al concetto di rappresentanza democratica. I trattati della UE e le pretese di un pilota automatico che garantisca la concorrenza a favore dei profitti contro i lavoratori non sono infatti la negazione della democrazia ma il risultato di rapporti di forza particolarmente favorevoli ai capitalisti e particolarmente gravosi per i lavoratori. Che questa disparità cominci a scricchiolare e a creare resistenze è un fatto positivo e non necessariamente negativo solo perché alimenta pulsioni reazionarie e xenofobe.
D’altronde, la democrazia come storicamente si è intesa nell’occidente capitalista è un concetto intimamente legato al modo di produzione capitalista. Tutti coloro che hanno contestato alla radice questo modo di produzione sono stati ascritti nel campo dei nemici della democrazia. Per un sistema di relazioni basato sulla sfruttamento è assolutamente normale che si introducano politiche e forme di governo atte a realizzare i propri obiettivi. Ciò mina la democrazia classica e storica nel senso che ne diminuisce la portata rivendicativa e di difesa dei subalterni. Non è un fatto trascurabile e per questo, tra le altre cose, è stato giusto impegnarsi nel referendum costituzionale italiano ma la posta in gioco non era la democrazia tout-court ma il livello di garanzia che essa permette.
Ciò non significa per nulla che dobbiamo rinunciare alla battaglia democratica ma dobbiamo affermare con forza che quella battaglia per la volontà popolare dovrà dotarsi di strumenti adeguati non per ripristinare concetti filologicamente corretti di democrazia ma per una democrazia di tipo nuovo in cui la lotta (kratos) per l’affermazione dei subalterni affermi nelle sue istanze concetti di democrazia totalmente diversi e non rinunci a imporre limitazioni alla democrazia liberale e alla libertà di sfruttamento. Tutto questo mal si concilia con l’idea della rinuncia alla gestione del potere che richiede invece l’attivazione di una serie di pratiche organizzative all’altezza dei nemici.
Nonostante questo gli autori giungono comunque a una serie di conclusioni interessanti. Mettono in evidenza che il ruolo dello Stato è ancora centrale, stabiliscono che il sistema di relazioni ordoliberista è un sistema invasivo e omnicomprensivo, capiscono che l’era della politica socialdemocratica e del keynesismo non è più riattuabile.
Secondo noi ciò significa che bisogna attrezzarsi per una battaglia di lungo periodo per rimettere al centro il tema della rivoluzione e del potere. Cosa difficile e faticosa ma molto più sensata rispetto a teorie immaginifiche che si scontrano continuamente con la realtà di un potere che non fa sconti e usa la crisi per farne sempre di meno.
Collettivo Comunista GCS
Note:
- Vladimiro Giacchè: “La Costituzione Italiana contro i trattati europei”. Il conflitto inevitabile Edizione Imprimatur 2015
- Collettivo Militant: recensione a “La nuova ragione del mondo” http://www.militant-blog.org/?p=13928
- Rete Nazionale Noi Saremo Tutto: “Grecia dalla resistenza alla resa” Edizioni Pigreco 2015