Pubblichiamo sul blog della radio un lungo documento: una intervista in più riprese a Gianni Alasia. Ringraziamo il compagno Sergio Dalmasso, autore dell’introduzione che ha recentemente prodotto un numero della rivista Cipec monografico sul compagno Alasia recentemente scomparso. Cliccando qui la versione pdf
INTRODUZIONE
Gianni Alasia compirà 80 anni il prossimo 7 febbraio 2007. Avremmo potuto limitarci a una bicchierata al gruppo regionale di Rifondazione che Gianni, instancabilmente, frequenta ogni giorno.
Altra ipotesi, molto più ambiziosa, è stata quella di un film che ripercorresse con una intervista la sua lunga vita, intrecciando a questa dichiarazioni di militanti politici e sindacali ed immagini di repertorio sulla sua, in fondo nostra, storia. Ci ha bloccati il costo, per noi proibitivo.
Questo quaderno, frutto di un lavoro collettivo di Vittorio Rieser, Fabio Dalmasso, Claudio Vaccaneo, oltre che mio, serve a “festeggiare” un compleanno, ma soprattutto a riflettere su alcune questioni superano la grandezza e la personalità di Gianni:
-
Torino, “città fabbrica” e le sue profonde trasformazioni, strutturali, culturali, urbanistiche, in più casi indotte dal fenomeno migratorio.
-
Il movimento operaio torinese nelle sue specificità, dagli scioperi del 1943 all’insurrezione, dalle speranze del dopoguerra alla successiva sconfitta, dalla difficile realtà degli anni ’50 alla ripresa dei primi ’60, dall’autunno caldo allo sciopero nell’autunno 1980, sino alle radicali trasformazioni della struttura e delle condizioni di lavoro
-
La CGIL torinese, formazione atipica nel panorama nazionale. E’ questa, anche negli anni in cui Alasia ne è segretario, ad innovare profondamente politica, scelte e prassi, a contribuire alla scelta per l’articolazione nelle lotte, ad affrontare (quanto diversa è la realtà di oggi!) l’emergenza della migrazione meridionale, a dialogare con posizioni “eretiche” (i Quaderni rossi di Panzieri), ad essere attrice della ripresa di vertenze (i cotonifici della Val Susa, gli elettromeccanici, la Fiat), a interloquire criticamente con il movimento degli studenti. Non è la Cgil degli apparati, ma quella di Sergio Garavini, di Angelo Dina, di Emilio Pugno, di Aventino Pace, del dialogo con una Cisl (soprattutto la Fim) avanzata ed anch’essa atipica. Indubbio il ruolo di Gianni in questo processo.
-
Il complesso cammino della sinistra. Gianni aderisce giovanissimo al Partito socialista, partecipa all’impegno della sinistra interna contro l’adesione ai governi di centro – sinistra e al rapporto privilegiato con la Dc, è attore della scissione che dà vita al Psiup,nel 1972; alla scomparsa di questo si iscrive al Pci e nel 1991 è tra i fondatori di Rifondazione Comunista.
-
Il legame istituzioni – movimenti. Alasia è in Regione consigliere e Assessore per quattro anni, assessore per altri quattro, parlamentare per una legislatura. Sempre, al centro del suo impegno, il rapporto con la base, con i lavoratori, con una società che pulsa, con un movimento operaio fatto di uomini e donne in carne ed ossa.
-
Le nuove emergenze. Se ognuno/a di noi ha una personalità “datata”, legata cioè agli anni della formazione, agli interessi inizialmente acquisiti e quindi coltivati, Gianni ha avuto ed ha la grande capacità di rimetterli in discussione, confrontarli, tentare di attualizzarli. L’utilizzo dell’energia solare, la riconversione dell’industria bellica,la discussione e la storicizzazione del nodo violenza/non violenza, la formazione professionale e i “saperi” sono temi non solamente di interesse astratto,ma di tentativo di intervento politico.
Sono queste le questioni che questo quaderno – intrecciando intervista, racconto, flusso di ricordi – propone,rifiutando “culti di personalità”, agiografie, “vite dei santi”.
Il movimento operaio in tutte le sue componenti, a cominciare da quelle maggioritarie, socialista e comunista, presenta una storia contraddittoria in cui il grande ideale di liberazione si è coniugato spesso con errori, cinismi, egoismo,frustrazioni… cause non secondarie di tante sconfitte, rimozioni e della difficilissima situazione di oggi.
La lettura di queste pagine che ci portano dagli anni ’20 alle contraddizioni di Rifondazione possono essere piccolo, ma utile strumento per conoscere meglio una significativa personalità del movimento operaio, non solo torinese, e per una riflessione collettiva
Sergio Dalmasso
Intervista a Gianni Alasia
Intervistatori: Vittorio Rieser, Sergio Dalmasso, Fabio Dalmasso
Operatore: Claudio Vaccaneo
Torino Novembre 2006
Possiamo partire dalla lunga vita di Gianni, quasi 80 anni, dai primissimi ricordi sul suo quartiere, sulla sua famiglia, sulla sua città…
Se mi consentite faccio una premessa che mi sta a cuore: vi ringrazio di questa iniziativa che credo e spero sia utile perché ho imparato che la vita di ogni uomo contiene elementi di interesse, sia in positivo che in negativo. Io leggo sempre le biografie che tu, Sergio, scrivi sul bollettino; ad esempio ho letto quella biografia bellissima e impegnata, del compagno Spartaco: non la condivido in alcuni punti, ma, per me, è una testimonianza molto ricca, che insegna parecchie cose. Una seconda considerazione: conosco i rischi che si corrono quando si fanno queste testimonianze, a tanti anni di distanza. Il rischio peggiore, il più grave, secondo me, è quello di giudicare, affrontare i tuoi atteggiamenti di ieri con l’accumulazione politica e culturale che hai oggi: oggi sei un altro. La nostra vita non è stata facile; è stato un formarsi processuale; siamo cambiati mille volte: ho detto tante volte che non è stata la marcia trionfale dell’Aida, ma piena di brusche scosse. Io credo di poter affrontare scrupolosamente questo rischio perché ho 16.000 pagine di diario e 160 faldoni, già promessi all’Istituto Storico, dove c’è già il mio materiale del periodo clandestino.
Sono nato a Torino nel 1927, in pieno e affermato regime fascista; sono nato da una famiglia operaia: mio padre era un muratore, colto, che mi insegnò La Divina Commedia, la Gerusalemme liberata, tanto che a 15 anni io conoscevo trenta canti a memoria. Ho questa gratitudine per mio padre che era un antifascista senza militanza, anzi diceva che era un “deamicisiano”.
Mia madre era una povera donna, portinaia di una casa di ricchi, che diceva “l’ei gnanca fait la tersa mignin”, aveva fatto la seconda e poi non era più andata a scuola. Ricordo ancora la sua calligrafia, come segni di una gallina, , come diceva lei, povera donna. E poi mio fratello Antonio, minore di 16 mesi da me. Questo era il mio ambiente famigliare.
Ancora qualche parola su un momento formativo per me molto importante della mia prima infanzia, che mi ha segnato e mi porto dentro con i suoi valori, profumi, ricordi incancellabili. Quando nacque mio fratello Antonio, sedici mesi dopo di me, sorsero problemi delicati. I nostri genitori lavoravano entrambi tutto il giorno; la mamma poi, come portinaia di una casa di signori, non aveva orario, cioè l’aveva prolungatissimo: alle cinque e mezza era già a lavare le scale di marmo. Accudire noi diventò un problema serio. Dopo vari accorgimenti, spostamenti etc…, anche dolorosi, mio fratello fu dato a “balia” a una famiglia che chiamavamo il “Mago”; i miei genitori decisero di mandarmi dalla mia Madrina Serafina e dallo zio Calinu, che chiamerò poi sempre “parin”, contadino di Pratomorone di Tigliole, nell’astigiano. Erano due esseri deliziosi, miei secondi genitori per tutta la vita. L’impatto non fu facile per un bambino. Ma brevissimo. Credo furono i due anni più felici della mia intera vita. Furono certamente formativi, anche se non i più formativi. Intanto c’era una grande cascina che, a confronto alla “supanta”, una stanza tramezzata dove vivevamo a Torino, doveva sembrarmi un castello. C’era il calore della stalla, la paglia, ove alla sera venivano ragazzi e ragazze e anziani, nella stagione più fredda, a “viè”, cioè vegliare. Si raccontava, si cantava, si taceva e pensava. Nelle sere fredde Marina preparava una specie di telaio chiamato “frà” all’interno del quale poneva una padella con brace. Quando la mia culla era riscaldata Parin mi portava su, nella loro stanza matrimoniale. Sento ancora oggi quel calore. C’erano cugini e cugine con vari anni più di me. C’erano tanti, tanti animali: mucche, vitellini, tantissimi conigli che vivendo una vita inferiore e noi consideravamo stupidi. C’era la gallinella nera, detta americana, che Marina ubriacava per farle covare le uova delle galline, portandosi poi appresso ridicolmente pulcini più grossi di lei; c’era la pecora, la mia amata “berrina”. C’era una gatta, con la quale giocavamo e tormentavamo tutto il giorno, che, nelle fredde ore del mattino, arrivava nel nostro letto, bagnata di rugiada, a far le fusa e prendere calore. Povera gattina che,qualche anno dopo, sarà la prima vittima della guerra: i ragazzi in partenza per il fronte nella gazzarra strapaesana del tempo che cantavano: “anch’oi l’è l’ultim dì, duman l’è la partenza…” spararono alla mia gattina. E poi c’era il mio amatissimo Brill, cane da pagliaio mezzo spinone, col quale passavo giornate intere slegandolo dalla rozza catena che gli era stata confezionata da Parin. Un giorno fui preso da uno stranissimo tormento: perché mai Brill non doveva mangiare le cose più buone che mangiavamo noi? Finsi di lasciar cadere la ciambella dolce confezionata dalle mie cugine che chiamavamo “turun”. Da quel giorno fra me e Brill si stabilì questa tacita furbizia. Nell’età fra i cinque e i dieci anni ritornerò sempre a Pratomorone. E poi ancora oggi faccio qualche solitaria scappata a scarpinare fra le vigne ove trovo migliaia di fossili, fra il muschio ove lavoravano le api selvatiche produttrici di un miele amaro, dolce, buonissimo e poi la loro cera che noi modellavamo; nelle valli ove pescavo gamberi, rane e sanguisughe che vendevamo a San Damiano a una specie di santone farmacista, qualche soldino per noi che raccattavamo fra ferri vecchi; talpe catturate e pelle di coniglio che girovaghi passavano a comprare al grido di “peli, peli!”. L’Istituto Storico di Asti ha pubblicato un mio lungo ricordo di questa mia gaia infanzia dal titolo significativo: “Ricordi di castella e vigne, della mia gente e dei miei animali”. Una sera del dicembre 1942, mentre ero convalescente a Pratomorone dopo aver subito una dolorosa operazione di peritonite, con relativa “estrema unzione” e poi resurrezione, mentre fantasticavo sul prato sotto la “topia” o pergolato di “gnanga”, una bianca dolcissima uva, vidi i terrificanti bagliori rossi del primo massiccio bombardamento su Torino; boati cupi, “bengala” che illuminavano il cielo. Con sgomento presto al mattino rientrai a Torino. Da quel giorno cambiava la mia vita. Altra gente, altri incontri. La classe operaia.
Vivevamo in una casa di ricchi signori, di ricca borghesia torinese e che era tutta brava gente, hanno avuto tanti riguardi per noi; abitavamo in un borgo che, in linguaggio popolare, chiamavamo “le ville dei pescicani”, tanto che ho fatto un libro su questo, perché erano tutti gli arricchiti di guerra del ’14-’18. Ce n’era uno che noi sprezzantemente da bambini chiamavamo “Ponzio Pilato” e che si diceva fosse uno di quelli che portavano dentro alla Fiat i vagoni pieni di acqua, se li facevano pagare per benzina e poi scaricavano l’acqua in un altro posto. Era un borgo pieno di ricchi e pieno di ebrei ricchi: Treves, avevano una villa con cani a far custodia a queste ville; Segre, Sacerdote e altri. Eravamo tutti a scuola assieme e c’erano anche due fasce, in questo borgo, di poverissimi: il casermone di corso Moncalieri, dell’epoca napoleonica, pieno di sottoproletariato, di povera gente, i più poveri di Torino, e poi c’era un altro pezzo, in corso Moncalieri, che si chiamava la Funda: io sempre creduto che si chiamasse così perché era al fondo, anzi, interrato, invece era una vecchia fonderia del tempo napoleonico. Questa era la gente povera.
A scuola eravamo accomunati con delle differenze perché, ad esempio, io portavo le scarpe, che sembra una cosa da poco, anche perché me le davano i signori della mia casa, le scarpe dei loro figli; ho vestito quasi sempre questa roba qui. Invece questi della Brocca e della Funda portavano gli zoccoli di legno, le soche, che gli dava il patronato fascista. Questa era la nostra infanzia: eravamo bande incredibili, eravamo tutte le famiglie degli sposi del dopoguerra, eravamo cresciuti assieme in questo bellissimo borgo che ogni tanto vado ancora a vedermelo perché è un borgo stupendo. Eravamo una banda.. andavamo in collina a rubare le ciliegie, le pesche etc… a la “maroda”.
Quando ci sono stati i primi provvedimenti contro gli ebrei: pensate a questi dislivelli, dai bambini della Funda e della Brocca, questi che avevano i genitori che, al mattino presto, giravano il borgo gridando: “Cavei del pentu, sacramentu” e comperavano i capelli delle nostre mamme perché li usavano per fare le corde di marina. Quando ci sono stati i primi provvedimenti contro gli ebrei non ho mai visto un atteggiamento vergognoso e infame da parte di questi poveri, c’era anzi un atteggiamento di solidarietà. Ricordo che un giorno uno si era azzardato a fare l’orecchio da porco all’ebreo, come aveva insegnato il fascismo: han reagito. Questi erano i ragazzi della mia infanzia.
La scuola ci accomunava ricchi e poveri e poverissimi; scarpe di cuoio di proprietà o regalati dai più ricchi e zoccoli di legno, doni del Patronato Fascista, per i poverissimi. Quando il mio amico Enzo Segre si ammalò di scarlattina, e io continuai a giocare con lui anche staccandogli la pelle morta, era curato amorevolmente in casa, Enzo infettò anche me. Ma per me non c’era casa. Ero un bambino povero che non doveva contagiare e doveva essere ricoverato. Venne un furgone del Municipio, scese un uomo con una coperta militare: ricordo ancora la ruvidità e il grigio verde. Mi arrotolò in quella coperta, mi pare amorevolmente, ma sbrigativamente e mi portò all’ospedale Amedeo di Savoia. 45 giorni di permanenza. Se penso a quei giorni li ricordo solo come un grigio indistinto uniforme. Uniforme, senza lagne, anche la tristezza. Mi diedero subito una scodella: pensai fosse caffelatte, invece era olio di ricino. Eravamo in una camerata di venti letti. Ricordo un ragazzino di 5 anni: per 45 giorni non aprì bocca, sembrava una piccola sfinge. Quando seppe che il giorno appresso sarebbe stato dismesso per tornare a casa diventò di una loquacità incredibile. Pochi giorni prima di lasciare l’ospedale mi portarono nel giardino del padiglione. Provai la tenerezza del primo sole primaverile e raccolsi alcune violette. Questa indicibile sensazione di ritorno alla vita. Due personaggi in quel reparto: Suor Ilaria, una vera cattiva strega che gracidava contro di noi tutto il giorno con allusioni anche sessuali che avrei capito anni dopo; Fratel Soave, un frate di una bontà infinita. Di nascosto portava via il cibo che non gradivo. Sentivo alla sera litigare, nel loro retro – reparto, suora e frate. Ero convinto che l’Ilaria picchiasse Fratel Soave. Non posso dire. Ma imparai, rudemente, che non basta appartenere a una stessa parrocchia, fede o partito per essere uguali. Enzo, più tardi, al tempo delle legge razziali, cambiò cognome, prendendo quello della madre cattolica. Durante l’occupazione nazista aiutammo lui e la famiglia a nascondersi nelle basse di Carignano. I giorni dell’insurrezione venne con noi, ma solo per isolarsi, senza nulla fare. Girava nelle nostre stanze dove bivaccavamo con un terrore visibilissimo delle armi, specie delle bombe a mano. Non lo rividi più per anni. Un giorno, forse era nel 1963, a una trattativa da Umberto Agnelli, nell’anticamera trovai Enzo insediato come segretario e dirigente Juventus e ricordo che congedandomi dissi: “Adesso che so dove sei ti vengo a trovare…”. La sua risposta mi raggelò: “Giovanni, è meglio che uno come te non sia visto con uno come me…”. Per me fu una sferzata e risposi: “Se quelli come te non avessero incontrato gente come noi saresti passato per il camino di Dachau…”. Poi mi pentii di tanta perentorietà. Ricevetti la sera stessa una cassa con tutti i souvenir della Juventus che poi mi importava un bel niente. Suo zio, direttore del Banco di Sicilia, ebbe sempre grande riconoscenza per mio padre e ogni capodanno spediva al mio vecchio padre panettone e champagne. A me periodicamente, il “Notiziario Economico” della Banca con nitidissime valutazioni dell’economia italiana e internazionale.
A casa nostra venivano, alla domenica, i miei vecchi zii che erano tutti antifascisti a parole, perché poi erano iscritti al Fascio: il più intransigente di questi, che quando parlava di Mussolini diceva: “Cul bastard” (e poi sarà torturato dai fascisti), aveva la sua brava cicca, la “cimice”, iscritto al Fascio, se la portava dietro.
Venivano e cominciavano a parlar male di Mussolini, con mia madre che correva a chiudere le finestre e diceva: “En di o l’aut anduma tuti in galera e sti cit cosa faran?”. Io mi domandavo perché dovessimo andare in galera, non lo capivo nemmeno;: ricordo degli episodi: “A Radio Barcellona ha parlato il figlio di Matteotti”, non era vero niente, il figlio di Matteotti non era mai stato in Spagna, ma avevano sentito questa voce. Ricordo questa mormorazione dei miei zii che fu il primo, primordiale ed elementare elemento di formazione nostra; ti formavi sulle piccole cose e sulle barzellette, tanto che qualche anno fa abbiamo fatto un volume di barzellette: non volevo farlo, mi sembrava una cosa strana fare un volume di barzellette, ma poi mi sono detto che era stata una leva di massa. Abbiamo imparato così. Questa è la prima infanzia, l’ambiente famigliare.
Voglio ricordare a questo punto a proposito di violenza – non violenza: il mio zio Demarchi Dalmasso, quello che di Mussolini diceva “cul bastard”, negli anni 1935 – 1936 mi raccontava di quando era al fronte italo – austriaco: con qualche pretesto e sotterfugio si rifiutava sempre di sparare. Detestava un suo commilitone che tutto il giorno da una feritoia sparava sulla trincea austriaca per colpire un soldatino che aveva solo il torto di chiamarsi austriaco. “Mi sun Ghandista” affermava lo zio. Allora io capivo poco. Quando dieci anni dopo sarà arrestato e torturato dalla Brigata Nera i giorni della Liberazione fu liberato. Io avevo un mitra a tracolla. Lo zio, ghandista, mi abbracciò ed esclamò: “Giovanni, benedet cul mitra”. Come vanno storicizzati i discorsi: diversamente non si capisce né Cristo, né Spartaco, né Marx, né Lenin. Io sono contro la violenza. Ho imparato dalla vita – e non da tante ciancie – quel che Brecht diceva: “anche l’ira per l’ingiustizia stravolge la faccia”. Si rischia di diventare quel che combattiamo. Sono per l’assunto della Conferenza di Rifondazione di Venezia: “la non violenza è un approdo relativo e non un assoluto”. Ma pare che disinvoltamente l’abbiamo dimenticato: è rimasto solo l’assoluto.
Nella nostra infanzia – giovinezza, anni 1935 – 1938 – 1939, ilRegime fascista era trionfante. Erano gli anni che lo storico De Felice definisce un po’ approssimativamente del “consenso”. Quando poi si gratta al di là delle apparenze c’era anche una forte mormorazione ed un disagio sfociato poi in malcontento. A mia madre, come a tutte le donne italiane, avevano preso la fede matrimoniale; “l’unico oro” che aveva: “dono” alla Patria per sostenere la guerra d’Abissinia. Ma mia madre non sopportò mai quell’offesa. Comunque noi ragazzini eravamo tutti inquadrati: “figli della lupa”, “balilla”, “avanguardisti” etc… E poi ancora “tamburini”, “moschettieri” etc…
Al “Sabato fascista” ci portavano in collina fare marce guerresche, saltare il fuoco, presentare le armi. Eravamo una “maschia gioventù con romana volontà”. Anzi, eravamo “virili”, cosa che alla mia età di 8 – 9 anni stentavo a capire. Poi, per mia fortuna, qualche anno dopo l’ho capito, senza peraltro la precisazione dei fascisti.
A sei anni mi consegnarono la mia prima tessera da Balilla; stava scritto: “giuro di eseguire gli ordini del DUCE e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista”. Ma io giurai un bel niente e nessuno, peraltro, me lo chiese.
Passando il tempo e avvicinandosi la guerra avevamo un comandante della Milizia, un certo Casassa. Non l’ho mai sentito parlare. Urlava solo e sempre. Con una lunga bacchetta e con ostentata cattiveria ci bastonava duramente sulle mani. Un giorno mi apostrofò duramente poiché dopo la marcia e trovandomi in prossimità di casa mia chiesi di poter andare a casa. Urlò al suo vice, un “Giovane fascista”: “Vallino prendi il nome di questo mascalzone!”. Finalmente, finita la marcia, ci portarono ai giardini Cavour, tutti squadrati, sull’attenti. Sul terrapieno nel giardino c’era un basso muretto nero (c’è ancora oggi). Li saliva un gerarca e urlava: “Viva il Re, saluto al Duce” e noi dovevamo gridare: “Viva il Re, viva il Duce”. Al che il gerarca rispondeva: “Sciogliete le righe”.
Qualche anno più tardi, sui 12 – 13 anni, ero cresciuto; la divisa di Balilla non mi andava più bene e quella d’Avanguardista i miei non vollero comprarla. Eravamo 30 – 40 in queste condizioni. Fra gli altri ricordo Sergio Garavini, di famiglia ricca e fascisteggiante. Ci misero tutti al fondo della fila, quasi appestati. Ma nel 1939 la mormorazione e il malcontento erano cresciuti. Un giorno, al rituale “saluto al Re etc…” dalle nostre file si levò una voce: “Daie la biava a l’asu!”. Finì in un pandemonio. Ci portarono tutti nel cortile di una scuola; tutti rigidi sull’attenti. Venne uno “squadrista”, quelli del ’20. Noi li conoscevamo perché sulla camicia nera d’orbace portavano gradi rossi. Questo personaggio ridicolo si mise a sbraitare: “Figli di puttana. Vi faremo vedere noi fascisti chi siamo”. E mentre paonazzo in volto così sbraitava e si agitava gli cadde il “fez”, come veniva chiamato il berrettaccio nero col fiocco: si scoprì una testa pelata. Nostra grande sghignazzata.
Del Comandante Casassa ricordo anni dopo di averlo incrociato i giorni della Liberazione in via Po. Tutto subito ebbi un moto: volevo attraversare la strada e dirgli: “Si ricorda di me? Sono il mascalzone”. Poi lo guardai era invecchiato e rattrappito; storto, incurvato. Non feci quel passo che sentivo impietoso e indegno.
A 13 anni sono andato a lavorare da un ingegnere al quale facevo le bollette della riscossione degli affitti; a 14 anni sono andato a lavorare stabilmente come apprendista in quella azienda tessile di piazza Solferino: non mi è mai piaciuto essere lì, mi ha rovinato i polmoni perché respiravamo tanta di quella polvere. Per dare un dato di riferimento mio padre guadagnava allora circa 500/600 lire al mese, la paga di un muratore; un operaio Fiat aveva molto di più e so che mio padre imprecava perché aveva lavorato, nel dopoguerra, in Francia e fare il muratore era un lavoro pregiato, stimato, mentre qui era disprezzato, si usava dire: “Campa giù, muradur”, come dire è un lavoro grossolano. Io avevo, allora, nel 1942, 167 lire al mese: erano proprio poco.
Un giorno vennero i sindacati fascisti, questo fu il mio primo approccio sindacale: vennero in azienda con dei registroni; ci mandarono a chiamare uno per volta in direzione e questo stupido, pover’uomo, gerarchetto fascista del sindacatomi dice: “Ti, gagnu, vaire l’as al meis?” e io risposi: “167 lire” e lui mi guarda (siamo nel 1942, quindi si celebra il ventennale della rivoluzione fascista) e mi dice: “Bene, nui fasista da duman ne fuma dè 206, sei contento?”. Certo che sono contento, di un colpo aumento di un terzo il mio stipendio. “E allora ringrazia il Duce” e io mi sono sentito umiliato dopo, ma per lui, non per me, e ho fatto quello che mi avevano insegnato: “Viva il Duce, grazie al Duce”. Mi avevano insegnato così. Ero così contento di questo aumento di stipendio che sono uscito di lì, alla sera, venivo giù a piedi naturalmente, e passo in via Mazzini, entro in un bar e faccio una cosa che non avevo mai fatto in vita mia: mi faccio dare un’aranciata, mi piacevano molto le aranciate. Bevevamo mezza aranciata a testa quando facevamo l’inventario lì dentro, crepando nella polvere e poi ci avevano dato mezza aranciata quando venne Mussolini allo stadio Mussolini, e ci tennero tutto il giorno sul cemento armato. Nel bar vedo questo affare giallo, lo prendo e bevo: mai sentito un gusto così, mi bruciavano perfino le orecchie. Questo mi guarda e mi fa: “Co fas ti gagnu, et beivi la bira d’ iauti?”. Era birra: io non conoscevo la differenza tra la birra e l’aranciata. Non ero un cretino. Ero solo un povero bambino. E dire che a casa nostra non mancava niente dell’essenziale. Ecco, questo fu il mio primo approccio al “sindacato”, chiamiamolo così.
Un anno dopo c’è il colpo di stato monarchico e lì le cose iniziano a diventare di massa: io ero in corso Fiume quando, al mattino presto, scendevano gli “sfollati della notte”, li chiamavamo, cioè coloro che andavano fuori Torino per non stare a Torino durante i bombardamenti; tutti che imprecavano contro Mussolini. E io mi sono imbattuto in un grosso corteo, poi siamo finiti in collina, nella villa del federale fascista: abbiamo rotto tutto, spaccato tutto. Siamo usciti con sfilze di salami, farina etc… tutte le cose proibite di allora… era “una grama turba, che tutto porta via festante”, come dice il poeta. Poi, di lì, mi sono ficcato nel corteo, che era prepolitico, era cosa eravamo noi: per prima cosa, arrivati in corso Moncalieri, abbiamo iniziato a spaccare la targa dei tabaccai perché il tabaccaio era una privativa di Stato e c’erano due fasci littorio e abbiamo fatto questa “grande” opera antifascista di rompere le targhe. Da lì siamo andati a Casa Littoria, Palazzo Campana ora: questa è una scena significativa. Lì c’era gente che spaccava tutto, venivano giù persino i muri giù dal balcone e a un certo punto cade dalla finestra, dalla parte di via Carlo Alberto, un grande ritratto di Umberto di Savoia con la gente che applaude perché nell’immaginario popolare era la monarchia che ci liberava dal fascismo. Si è alzato un compagno, che avrà avuto 30 anni, io allora non sapevo chi fosse, e dice: “Compagni, non fatevi ingannare, la monarchia è responsabile del fascismo, l’ha portato al potere”. Prese un sacco di botte dalla gente. Poi è arrivato un cordone di alpini, ho saputo poi che c’era Nicoletta, il comandante poi della Val Sangone, che lo ha liberato, l’ha lasciato andare via.
Tre giorni dopo passo in piazza San Carlo e questo fu il mio primo incontro con un comunista organizzato: vedo questo tale tutto pesto. Siccome non avevo capito bene lo avvicino e gli dico: “Scusi, ma lei l’altro giorno, non ho capito perché gli antifascisti l’hanno picchiato, ma lei era antifascista ho capito”. E lui mi dice: “C’eri anche tu con quella marmaglia monarchica?”. Tira fuori la pistola e poi dice: “Ma si, ho capito”, mette la pistola in tasca e dice: “Sai chi sono io? Io sono uno degli 80 comunisti torinesi. Sai chi sono i comunisti?”. Io dissi: “Non lo so, quelli dei baffi” (c’erano le caricature di Stalin da parte dei fascisti). E lui mi ha detto: “Un giorno capirai ragazzo”. Io non l’ho mai più visto, l’ho visto tragicamente, morto, steso a terra in piazza Statuto con altri nove, era Gardoncini, credo fosse lui. Questo fu il mio primo approccio.
Per evitare di raccontare le storie in modo agiografico, che mi dà fastidio: l’ho già detto mille volte, la nostra non è stata una marcia trionfale dell’Aida, ma abbiamo cambiato mille opinioni, mille scosse, devo dire che subito all’8 settembre 1943, anzi il 9 o il 10, non era ancora arrivata la Gestapo a Torino, c’era quel periodo interregno, io sono andato con il povero compagno Parussa nelle caserme. Adesso si dice: “Il popolo diede l’assalto alle caserme”. Il popolo diede l’assalto a un cavolo di niente! Il popolo entrò nelle caserme per prendersi la pasta, le coperte etc… andavano via persino con i muli: in corso Moncalieri, dove c’erano gli alpini, c’era una sfilza di muli, spaventati, che correvano per le strade e mi han sempre fatto una grande tenerezza questi muli, sofferenza e fatica di alpini e animali. Perché poi mica potevano tenersi il mulo in casa: la pasta la mangiavano, ma un mulo…poi, quando sono arrivati i tedeschi, li hanno messi sulla strada. Io sono andato con Parussa a portar via armi: siamo andati a interrarle nel terrapieno di Villa Genero. Poi il povero Parussa l’han preso, l’hanno torturato e l’hanno fucilato con altri 27 al Pian del Lot. Io sono qui vivo.
Quando è arrivata la Gestapo a Porta Nuova io ero presente, credo di essere l’unico ancora vivo: sono arrivati con le mitragliatrici, avevano delle facce di ghisa, cose incredibili, terribili, sembravano pezzi di ghisa. Son scesi, han posato le mitragliatrici , due balle di fieno e prendevano i nostri soldatini, che arrivano coi treni, e che la pietà popolare li aveva messi in borghese, ma non ci avevano pensato e avevano tenuto gli scarponi, perché la roba di cuoio era più pregiata del vestito. Li hanno presi tutti per gli scarponi. Dopo aver nascosto le armi, io e Parussa siamo scesi dal Monte dei Cappuccini e di lì sotto, dalla strada, nascosti nel verde, contavamo, segnavamo diligentemente tutti i carri armati, i cannoni, ce n’era una sfilza interminabile, truppa tedesca che andava al fronte. Mica lo facevamo per sport! Lo facevamo perché ci avevano detto, correva una voce popolare, che gli inglesi avrebbero lanciato su Torino due divisioni aviotrasportate Noi l’uma spetaie di meis, non son mai arrivati, però lo facevamo per dare queste segnalazioni. Poi vado a casa, avevo tutta sta roba scritta, non sapevo con chi prendere contatti, ho strappato questa roba e l’ho gettata nel cesso, per mia fortuna. Poi per sei mesi ho fatto esattamente niente: questa è stata la mia resistenza; fino al giugno 1944 quando ho preso contatto con Carlo Valsasna, che morirà lì vicino a casa sua, gli sparano le SS, e ho iniziato ad entrare nella clandestinità.
In questo periodo lavoro; sento strane voci sul fatto che ci fossero i ribelli qui, i ribelli là, sento le cose più stupide del fascio, per esempio c’era una canzonetta, prima dell’8 settembre del ’43, che diceva: “Vieni, c’è una strada nel bosco, è la strada dell’amore…” etc… poi quando erano arrivati i fascisti l’hanno proibita perché era allusiva ad una scelta. Poi ho preso contatto e le cose sono diventate molto serie, avevamo strani intrecci…
Il contatto l’ho preso perché ho conosciuto dei compagni coetanei che erano nella cospirazione ed abbiamo cominciato a parlare un po’ e loro mi hanno detto che Valsasna, che conoscevo, era uno dei loro. Io lo conoscevo dai tempi in cui veniva da mio padre a raccontare le cose sulla Spagna: lui era un antifascista da sempre. Allora ho incontrato Valsasna e sono entrato nel giro che significava prendere contatto con le situazioni più diverse. La casa di Valsasna era una casa di cospirazione, son passati tutti: Michele Giua, che poi sarà senatore, è passato Pertini. Lì io ho conosciuto Pertini: ricordo che era il 7 novembre del 1944 e Pertini era in questa casa. Io non sapevo che era Pertini, ma anche se mi avessero detto che si chiamava Pertini, non mi diceva niente. Sento suonare il campanello, prendo il mitra e vado a controllare dallo spioncino e vedo uno che non conoscevo: non sapevo che fare, ma alla fine ho aperto. Questo mi dice: “Scusa ragazzo, c’è qui Sandro?” e io ho risposto: “No, qui non c’è nessun Sandro, siamo la famiglia Valsasna e stiamo facendo la polenta” e questo va via. Eravamo a 600/700 metri dal primo bunker tedesco, con filo spinato e le mitragliatrici. Dopo mezz’ora suonano di nuovo; controllo ed è di nuovo questo: apro e lui mi dice: “Caro giovane compagno, non farmi perdere tempo: io sono stato al confino con Sandro ed è mezz’ora che, dalla strada, sento tutto quello che grida”. Io non ero molto allertato ma ho capito che se questi erano i cospiratori meglio non tornare più qui. Ho avuto questi rapporti: lì, in questa casa, veniva anche Morandi, che io però non sapevo ancora chi fosse. Questo è stato il mio ingresso in queste vicende.
La mia famiglia, in questo periodo, lavora e non capisce mai nulla di quello che faccio io finché un giorno viene su imbufalito mio padre: noi eravamo portinai di questo stabile e io dormivo in un sottoscala, in una cantina che mi aveva dato il conte Bosco di Ruffino: erano tutti nobili in quella casa, era gente bravissima. Il figlio era uno squadrista. Era un galantuomo: ci prendeva in macchina, ancora prima della guerra, ci portava in collina, ci dava i francobolli etc… Probabilmente era diventato uno squadrista perché era volontario in guerra nel ’14-’18 e aveva visto gli antifascisti picchiare gli ufficiali, chi lo sa? Un giorno arriva mio padre, con un fascio di giornali, e mi chiede “Cosa sono?”, e io: “Sono giornali”. Lui allora: “E cosa te ne fai?” e io: “Li leggo” e allora mio padre disse: “Hai bisogno di 40 copie per leggere? E poi cos’è questo Partito Socialista di Unità Popolare?” e io:”No, papà, Proletaria” e lui: “Si, fai ancora lo spiritoso”. Di lì hanno capito un po’ cosa combinavo: poi scappavo di casa etc… Ad esempio avevamo un gruppo di ragazzini che avevano 15 anni ed erano stati presi nel casalese dalla Brigata Nera che disse loro: “O con noi o vi deportiamo in Germania”. Sono andati nella Brigata Nera, ma avevano rapporti con noi e tutte le volte che andavano in rastrellamento nascondevano le armi e poi ce le vendevano. Poi avevamo uno strano rapporto con Chiaramello, che poi sarà sottosegretario, vice sindaco di Torino etc… e andavamo a chiedere i soldi per acquistare queste armi e lui diceva:”Andiamoci piano ad armare questi giovani matti che poi potrebbero uccidere anche qualcuno”. Detto allora…
Questa era la strana baraonda del Psi: ma io non capivo ancora tutte queste implicazione; sentivo parlare nelle riunioni clandestine in cui dicevano: “Andiamoci piano con lo sparare perché se spariamo noi, sparano anche quegli altri. Il problema: aspettare che arrivino gli alleati. Quando saranno arrivati, i comunisti vorranno sicuramente il posto di Sindaco di Torino, ma tu farai il vicesindaco e tu l’assessore etc…”. Si spartivano già tutti gli enti: io non è che capissi queste cose,ma le intuivo; ricordo che il giorno in cui decidemmo lo sciopero preinsurrezionale, cioè sette giorni prima dell’insurrezione eravamo in una fabbrica (o nella vecchia Ricambi o nella Lingotto) e questa riunione era presieduta da Morandi che non sapevamo chi fosse. Si stava per decidere lo sciopero preinsurrezionale, ma la maggioranza dei socialisti non voleva: noi giovani volevamo farlo. In quei giorni non c’erano più i bombardamenti di massa su Torino,ma quelli mirati e in quel momento è suonato l’allarme e decidemmo così, brutalmente, per la nostra partecipazione allo sciopero. E fu una cosa enorme: non ho mai vissuto una grande giornata di emozioni come quella. Avevo 18 anni e mi hanno assegnato di percorrere, con il compagno Doria, tutto corso Regina Margherita, Porta Palazzo, via Milano fino al Municipio dicendo: “Noi stiamo arrivando”. Avevo un giaccone, il mitra e la pistola sotto. Abbiamo fatto tutto questo percorso, entrando nei negozi, con la gente che ci abbracciava e noi che dicevamo: “Stiamo arrivando”. Non era mica vero: saremmo arrivati una settimana dopo, ma era una festa popolare, con la gente. I fascisti non sono usciti dalle caserme fino all’una: sono poi usciti con i camion con le mitragliatrici sopra. Non sapevano se era ‘insurrezione, non sapevano nemmeno loro. Ricordo che abbiamo fatto questo percorso: siamo arrivati vicino a Maria Ausiliatrice e ho suggerito al compagno Doria di entrare e suonare le campane. Il sacrista ci accoglie felice: “Bravi!” e noi gli diciamo di suonare le campane, ma lui risponde: “No, non suono le campane, arrivano le SS e mi ammazzano”, insistiamo, ma alla fine abbiamo desistito. Fu una giornata impressionante: vedevi la gente per la strada, tutti i tram bloccati. E una settimana dopo ci fu l’insurrezione.
Dove vivi nei mesi tra il giugno 1944 e l’aprile 1945?
Bisogna capire una cosa: ora si fa in fretta a fare le distinzioni, le separazioni. C’era un tale marasma e un tale intreccio, rapporti tra città ed esterno, fra ruolo politico e ruolo militare. Cos’erano i Comitati di Agitazione? Erano solo comitati che facevano gli scioperi? Ma noi avevamo armi, eravamo armati: c’era questo intreccio tra militare e politico. Sapevamo e non sapevamo: arrivavano le notizie più strane, magari mesi dopo: cosa sapevamo del Patto di unità d’azione firmato a Roma dai partiti del Cln per la costruzione della Cgil unitaria? A chi chiedevi? L’ho saputo mesi dopo. C’era stata tutta una serie di processi, venivamo già dall’esperienza degli scioperi del 1943, in pieno regime monarchico – fascista, non c’era ancora stato il colpo di stato.
L’intelligenza dei comunisti fu quella di anticipare la rivendicazione elementare economica e sociale a quella politica: allora la sequenza fu: vogliamo il pane,la pasta, l’olio,la tredicesima mensilità, l’indennità di sfollamento e poi, dopo tutta la sequenza, la testa di Mussolini. Ma la testa di Mussolini veniva preparata con questa agitazione elementare che si identificava con questo stato d’animo delle grandi masse. Non so nemmeno se sapessi il significato di “sciopero”,però ci siamo ritrovati con quelle parole d’ordine, perché ce le avevamo nel nostro sangue, nelle nostre condizioni di vita. E fu questa l’intelligenza dei dirigenti comunisti. C’era quindi questo complesso intreccio di cose.
La notte del 24 aprile la mia formazione è entrata alla vecchia Ricambi, abbiamo fatto prigioniero subito quell’inserviente dei tedeschi che era lì, si chiamava commissario di guerra, in ogni fabbrica ce n’era uno. Eravamo la mia brigata e un gruppo si gappisti, molto agguerriti, qualcuno anche barabba. La mattina del 26 è scesa dalla collina una mezza colonna della Brigata Nera, del posto di blocco di Cavoretto. Sono venuti in corso Dante dove c’era un galoppatoio e appena sono arrivati giù hanno tirato fuori le mitragliatrici pesanti (noi eravamo di fronte, dentro alla Ricambi) e per tre ore è stato un inferno, ci hanno sparato dentro. Per nostra fortuna avevamo dietro questi blocchi di cemento enormi… ricordo che i colpi arrivavano dall’alto, piovevano schegge di vetro ovunque: era un inferno. Noi eravamo lì dentro e ogni tanto piazzavamo un colpo e ne abbiamo ammazzati tre o quattro sul corso; dopodiché siamo usciti e li abbiamo presi prigionieri. Quella è stata una scena tremenda: abbiamo preso il camioncino e li abbiamo portati dentro; erano 13 più un tenentino di 20 anni e non sapevamo cosa farne e li abbiamo portati sotto nel bunker e li abbiamo chiusi lì. Uno era ferito a una gamba, è caduto e uno dei nostri ha iniziato a picchiarlo con il fucile. Alla sera ho detto: “Portiamo del mangiare a questi disgraziati”, allora siamo scesi sotto: avevamo gli elmetti tedeschi con falce e martello, con i giacconi (lì c’erano i pompieri) di amianto, sembravamo il classico bolscevico descritto dai fascisti. Con la pila, visto che non c’era la luce. Questi erano sul tavolaccio, avevamo portato del riso, ne avevamo tanto, con pezzi di cioccolata. Al che un uomo sui 40 anni inizia a dire: “Non ammazzateci, non abbiamo fatto niente, è il tenentino che ha ordinato il fuoco”. Il tenentino, 20 anni,mi dice: “Voi siete i banditi e la rovina d’Italia. Se vi avessi preso vi avrei fucilati, tutti. Io so quel che mi tocca”. Alla sera l’abbiamo portato su e fatto il processo: se non l’avessimo ammazzato quel giorno lì sarebbe stato vivo tre giorni dopo,ma questo ci dice queste cose. Io mi sono pronunciato contro la sua fucilazione perché ho capito che era di quelli di Salò, “la terra ai contadini, la fabbrica agli operai”, alla Salò, socialisteggiante. I compagni hanno deciso di fucilarlo.
25 anni dopo sono a una cena e scopro che con noi c’era il fratello di questo, che era Parigini, del sindacato Rai, nostro compagno. Aveva fatto parte del Cil, il Corpo Italiano di Liberazione che aveva percorso tutta l’Italia combattendo contro i fascisti e i tedeschi. Questo mi dice: “Sai Gianni, sono arrivato a Torino e ho scoperto che i partigiani hanno fucilato mio fratello;, ho scoperto che l’hanno gettato nel Po” e io risposi:”Si, avevamo un camion di morti, dove vuoi che li mettessimo? Dal Ponte Isabella li abbiamo gettai nel Po” tanto che ancora settimane dopo c’erano i cartelli sul Po: “Acqua infetta. Cadaveri”. E poi è incominciata un’altra vita. Ma non è vero quello che ha detto Giuliano Ferrara a 8 ½ l’altro giorno: “Come mai, dopo la Liberazione, solo i comunisti hanno tenuto le armi?”. Solo i comunisti? Avevamo armi da tutte la parti, le abbiamo conservate. Ho scritto queste cose già alcuni anni fa: Norberto Bobbio ha detto: “Gianni Alasia è stato l’unico sincero” e Nuto Revelli ha detto: “Bravo Gianni, ricordo che qualche giorno prima delle elezioni del2 giugno eravamo nella nostra sezione a Cuneo seduti su due casse di bombe a mano e di mitragliatrici e a 15 metri di distanza c’era l’ufficio della Questura che sapeva benissimo tutto”. Armi ne avevano tutti. In via Valeggio avevamo una villa con dentro un ufficio D, ufficio Difesa, e avevamo un arsenale per armare due brigate. Qualche giorno prima del voto del 2 giugno 1946, cioè 13 mesi dopo la Liberazione è venuto da me il cognato di Pertini, ex comandante delle Matteotti, socialista, e gli consegnai tre mitragliatrici, un Mauser, qualche mitra, qualche moschetto e un sacco di bombe a mano. Non erano mica comunisti quelli. Era il partito che avrebbe dato all’Italia due Presidenti della Repubblica: Saragat e poi Pertini. Erano armati tutti, da una parte e dall’altra. Questo fu l’inizio del dopoguerra.
In questo periodo ero già nel Partito Socialista: ho la tessera del 1944, che è un giglio di Firenze e che era una reclame delle scarpe. Prima avevamo una mezza lira, poi s’è cambiato.
Perché vai in questo partito?
Perché vado in questo partito? Gli altri più vecchi sapevano, per esempio, usare armi pesanti, che non è una piccola cosa: io ho imparato a sparare da uno della Milizia Fascista che era con noi. Vado in questo partito perché le scelte erano anche occasionali:se fossi stato nell’Ossola, magari, sarei andato con gli Autonomi, chi lo sa? Conoscevo Valsasna, avevo avuto questa storia etc… mi sono trovato lì, non sapevamo niente: eravamo politicizzati dalla rabbia che avevamo, ma politici molto rozzi. Le prime cose di economia che ho letto sono state sui giornali del Partito d’Azione, “I quaderni di GL”, che faceva delle cose pregiate e che le curava quel professore ucciso dalle Brigate Rosse, Casalegno. Il mio compagno Franchetti, che poi sarà ammazzato dalle SS nelle ultime ore in via Stradella, mi parlava di questo professore. Noi ci scambiavamo armi, documenti, giornali e io leggevo questo giornale di fabbrica del Partito d’Azione che si chiamava “Realtà operaia”.
La scelta fu dettata molto da circostanze: qualcuno l’ha fatto in modo più mirato, qualcuno che veniva da vecchie storie, ma cosa sapevamo noi? Quel qualcuno ci ha dato molto, ci ha spiegato, ci ha raccontato, sono stati una scuola per noi. Subito dopo la Liberazione, Torino era libera, e la colonna corazzata tedesca è andata a Grugliasco a fare la strage, noi abbiamo avuto notizia di questo, ma il distaccamento dov’ero io, che prima era una sede delle SS e ospedale dei militari tedeschi, quel giorno i compagni erano tutti sbronzi, festeggiavano. M’è presa una rabbia tale che sono partito da solo per andare contro la colonna corazzata , in bicicletta, col mitra: quando sono arrivato all’altezza della Venchi Unica c’era un posto di blocco partigiano,mi fermano e mi chiedono dove stessi andando. Risposi: “Vado contro la colonna” e questo compagno, sui 40 anni, era Tibaldi, che dieci anni prima era stato garibaldino in Spagna, e mi disse: “Non fare lo stupido,torna indietro” altrimenti oggi, invece di piazza 66 martiri, sarebbe piazza 67 martiri. Per dire anche l’ingenuità.
Eravamo nel maggio 1945 e, come dice Ingrao, “sognavamo la luna”: era la fine di tutti i mali: non puoi chiedere a una generazione di fare cose grandi e terribili, come quelle di ammazzare e farsi ammazzare senza che in loro non ci sia la speranza della fine di tutti i mali, che ci sarà un mondo di felicità etc… Sognavamo la luna, a differenza dei compagni che erano già stati bruciati da altre esperienze. Ingrao era più grande di noi, e la differenza di anni conta: ci sono dei periodi in cui l’accelerazione è enorme. I giorni del colpo di Stato badogliano siamo andati anche alla Camera del Lavoro, nel palazzo storico degli operai di Torino, in corso Galileo Ferraris, era tutto chiuso, c’era il Sindacato fascista, noi abbiamo messo una scala a pioli da via Meucci e siamo entrati nel salone e abbiamo iniziato e bruciare tutto, a bruciare casa nostra. E’ arrivato un compagno, sui 40 anni, che poi sarà impiccato a Villafranca d’Asti, Capriolo, ci ha detto: “Ma ragazzi sapete cosa state facendo? Sapete cos’è questo palazzo? Questo palazzo è stato costruito dagli operai alla fine dell’altro secolo portando il mattone e il “marenghin” e i fascisti l’hanno sconsacrato e bruciato tre volte. Adesso tornerà ad essere il nostro palazzo”. Siamo andati via come cani bastonati, siamo tornati 20 mesi dopo col mitra e non abbiamo più rotto niente, abbiamo conservato tutto.
Siamo cresciuti più in quei 20 mesi che non in 20 anni prima. Tra l’altro siamo entrati e ho trovato una vecchia targa della fine ‘800 con scritto Società culturale dei lavoratori d’ambo i sessi, che era una dichiarazione di avanguardia, di emancipazione.
Savigliano – Giorni della liberazione
Dal maggio 1945 in poi faccio il segretario della mia sezione socialista in corso Moncalieri 61: dietro la lapide che ricorda i granatieri di Sardegna allora c’erano tutti i miei mitra e fucili. Ci fu una scena buffa: per farci un favore il Sindaco comunista mandò dei muratori a riparare quella casa mezza diroccata. Quando, lavorando, trovarono le armi, le presero e se le portarono via. Allora il giorno dopo ho fatto una scena madre e alla sera ritrovai tutte le armi. Per dire l’onesta popolare. Ricordo la madre del nostro compagno Foppa, una donna meravigliosa: suo marito era stato deportato in Germania e tornò vivo. Nei giorni dell’insurrezione i partigiani hanno sparato a un carro armato sulla autostrada Torino – Milano, si è ribaltato ed è uscita una borsa, con 50 milioni. Lei, con figli e marito deportato, ha preso la borsa e l’ha portata a noi. Negli anni di crisi della Fiat, il marito, che lavorava alla Fiat, arrivò a casa e disse: “Basta da domani faccio il crumiro anche io” e lei disse: “Io non faccio da mangiare ai crumiri”. Dove cercheresti oggi una cosa del genere? Ricordo la fatica per la raccolta delle firme per le commissioni interne: scene strane, con certi mariti compagni che erano d’accordo e le mogli che ci cacciavano subito di casa mentre altre mogli ci davano ragione.
Intervista a Gianni Alasia
Intervistatori: Vittorio Rieser, Sergio Dalmasso, Fabio Dalmasso
Operatore: Claudio Vaccaneo
Gruppo Rifondazione Comunista Torino – 8/11/2006 – Parte 1
Io vorrei dire una cosa prima di iniziare: Vittorio Rieser mi ha mandato una lettera che ho consegnato a voi tre/quattro che seguite queste cose: io lo ringrazio, è una lettera molto affettuosa e molto intelligente politicamente. Mi ha fatto piacere. Rieser mi dà atto che ho mantenuto fede all’impegno assunto, non fare l’esaltazione acritica etc… e mi dice poi, in questa lettera, “caro Gianni, spero che, nella seconda parte, sarai altrettanto obiettivo e non ti lascerai prendere da un certo settarismo che, qualche volta, ti capita in questa seconda parte”. Rieser ha ragione e io farò questo sforzo. Vorrei però fare una considerazione: quando consideri le cose nel lungo tempo, come ho fatto in questa prima carrellata, si deposita anche il velo della comprensione, della maggior tolleranza, anche rispetto alle cose che, allora, ti hanno indisposto perché le esamini con un certo distacco. Nel più breve tempo sei più perentorio: io dirò poi come e quando e in che circostanza sono stato settario, però tu (Vittorio) puoi anche ricordare alcune cose: per esempio: entreremo nel merito della unificazione socialdemocratica e io devo ricordati che venne Francesco De Martino a Torino e fece una riunione con noi; dopo quella riunione tu e i giovani avete fatto un comunicato “falso” sull’incontro con De Martino che era del tutto irriverente e diceva: “Il compagno Francesco De Martino dopo l’incontro con i giovani di Torino ha dichiarato: «Ma compagni, siete tutti Matteotti? Mi Paresce di essere stato abbastanza Chiaramello e di aver ribadito con Vigorelli la nostra opinione al riguardo. I socialdemocratici sono tutti Bonfantini che vogliono Cambiale Pagella politica»”. (Questi nomi corrispondono tutti a leader socialdemocratici del tempo). Quando noi avevamo spiegato che avevano rubato un po’ di soldi. Ecco, c’è la perentorietà di tutti, Vittorio.
Fatta questa premessa, siamo arrivati alla fine della guerra: vi ho raccontato come sono diventato segretario di una sezione socialista e poi sono entrato in fabbrica.
Io di questo periodo voglio subito dire una cosa: per me l’esperienza della fabbrica è stata la più formativa che ho avuto in tutta la vita. In questa parte racconto i miei rapporti con i contadini, è stata per me una cosa molto bella ed emotiva che mi porto dietro, ma non c’è nessun confronto con la fabbrica. La fabbrica per noi era una comunità, era un modo di essere comune; la fabbrica cominciava ad essere, anche se non lo abbiamo teorizzato, allora, l’intreccio fra problemi interni della lavorazione e della produzione e i problemi esterni di società. Era un “qualifica” che avevi , ma era la scuola serale alla quale andavamo: io sono subito andato a una scuola serale di elettrotecnica perché lavoravo a fare i trasformatori, gli alternatori. E’ stato il momento più formativo della nostra vita.
Questo periodo però si intreccia con il lavoro politico in sezione etc… L’altro giorno ho voluto ricordare su Liberazione, ma voglio citarlo perché è significativo di come si faccia storia: in un dibattito a “8 e ½” Giuliano Ferrara, in questi giorni, ha detto: “E poi dovete spiegarmi perché solo i comunisti avevano le armi dopo la liberazione”. Io gliel’ho spiegato e son passati venti giorni ha ancora da rispondermi: gli ho spiegato che intanto non puoi mai astrarre dal contesto e il contesto era: il separatismo in Sicilia; problema istituzionale aperto; Governo dell’ AMGOT; correvano insistentemente voci di un colpo di stato, che poi per fortuna non ci fu perché Umberto di Savoia ebbe il bon gusto di andar via senza piantare casini. Non puoi astrarre da questo. In secondo luogo non è affatto vero, non è vero, perché le cose che scrivo io, con nome e cognome, o sono pazzo o ho ragione: non è affatto vero che le armi le avevano solo i comunisti, li avevano tutti i partigiani, come ho già ricordato nell’episodio in cui consegnai delle armi al cognato di Pertini pochi giorni prima del 2 giugno 1946. A Napoli s’è fatto tutto il giorno la spola, non sapendo se ci sarebbe stato il colpo di stato, fra la Federazione Socialista e la Federazione del Partito d’Azione portando moschetti. Questa era la situazione e queste cose vanno ricordate per quel che sono.
Veniamo adesso alla fabbrica: sono entrato in fabbrica nel dicembre del 1945: va premesso che le Officine Savigliano, dove sono entrato a lavorare e sui cui ho scritto anche un libro che abbiamo presentato l’altro giorno, era una fabbrica che faceva lavorazioni in serie, poche; e lavorazioni su commessa, molte. C’era una differenza fondamentale: la lavorazione su commessa durava magari 4/5 anni; io ho lavorato, per esempio, per il ponte sul Po a Piacenza lavori durati cinque anni.
Le lavorazioni su commessa erano la maggioranza perché erano alternatori, trasformatori, condotte forzate, carri ferroviari, carrozze, locomotori, deviatoi, cioè tutte le cose che servivano in quel momento per ricostruire l’Italia. Le lavorazioni in serie erano piccole cose: apparecchi radio, attrezzature telefoniche etc…
In noi c’era la filosofia della produzione, del produrre: eravamo fieri di questo, sembra retorica, ma non lo è. Vittorio Foa dice, in suo scritto sull’epoca, che se le condizioni materiali erano terribili, visto che venivamo da una guerra, “c’era uno spirito di volontà, gli spiriti erano molto alti: la ricostruzione materiale fu fatta molto in fretta. Pensate che il salario medio di allora, del 1945, era un po’ più della metà di quello che era nel 1938”. E c’era una situazione lacerante perché sono arrivati in Italia, e anche nella mia fabbrica, milioni di reduci, dai campi di prigionia, persin dall’India, dagli Stati Uniti; poi c’erano i reduci partigiani che rientravano che avevano la volontà di fare tutto e subito, possibilmente prima, con manifestazioni anche di settarismo, che noi abbiamo combattuto, per altro. Poi c’era il congiungimento con le famiglie non facile: si fa in fretta a fare la retorica sulla famiglia, ma era gente che da 4/5 anni era sparsa per il mondo: ricordo miei compagni che sono tornati con una tedesca; con un’altra famiglia che si erano fatta, cose comprensibili; c’erano lacerazioni profonde: o magari anche la ragazza si era fatto un altro compagno. Questo era il quadro. E in questo quadro noi abbiamo lavorato come bestie: mi ricordo che ho fatto degli straordinari senza farmeli pagare perché avevamo questa fierezza del lavoro ben fatto. Ricordo che nel 1949-1950 quando avevamo 6/7 mesi di salario arretrato non pagato, il direttore mi mandò a chiamare, io, Morra, compagno della commissione interna, e ci disse: “Ragazzi, io capisco le vostre condizioni, devo dire che ho ricevuto questo tot di milioni da una commessa che aspettavo e adesso posso darvi un pezzettino del vostro salario arretrato. Oppure questo mi serve per comprare il grande tornio a giostra americano” – che poi fu quello che ci servì per fare tutta la parte idroelettrica, ma soprattutto elettrica, l’alternatore, per la centrale di Chivasso – “quindi scegliete: o compriamo il tornio o vi prendete un pezzo di stipendio”. E noi non abbiamo riflettuto tanto e abbiamo detto: “Prendete, per cortesia, il tornio”, abbiamo scelto per il tornio. Adesso si può discutere se fosse cedimento o meno, se era integrazione etc…: io voglio dire le cose come stavano.
Se non sbaglio alla Savigliano c’era anche Fernex: siete stati licenziati insieme?
Siamo stati licenziati insieme: Fernex era un carissimo compagno che poi fu, con Trentin, segretario nazionale della Fiom; era un ebreo, aveva fatto il partigiano in Val di Lanzo, suo padre era morto su in montagna, ci siamo trovati lì ed è una delle amicizie più care che ho. Era molto intimo di Trentin, hanno lavorato insieme. Abbiamo fatto tutte le battaglie insieme: io sono diventato segretario del Consiglio di gestione della Savigliano, facevo le elaborazioni di queste cose qui; Fernex curava sia il Consiglio di gestione che i rapporti esterni perché avevamo un comitato esterno di solidarietà, molto grosso: pensate, era diretto da un generale, il generale Lacroix, monarchico pulito, brava persona, che manteneva i rapporti… mantenevamo noi, sostanzialmente, ma lui faceva il diplomatico con le istituzioni. Noi avevamo fatto lotte che lascio immaginare quanto aspre, ma non abbiamo mai perso il rapporto con questa dimensione istituzionale; noi abbiamo investito il prefetto di Torino, di Cuneo, il conte Gloria, i parlamentari, gli incontri con i ministri etc… e lui curava questi aspetti. Era una lotta molto articolata, diremmo sul territorio e nella fabbrica.
Com’era la situazione nelle altre fabbriche torinesi? Questa ricostruzione – restaurazione…
Questa ricostruzione – restaurazione fu poi un fatto generale in Italia: dopo la prima fase costruttiva, che ci aveva impegnato molto, è cominciata la fase della riconversione e ristrutturazione. Ci furono migliaia di licenziamenti in tutta Italia, fu il periodo in cui noi fummo capaci di contrapporre a queste migliaia di licenziamenti il piano confederale, cioè una capacità propositiva di lavorare, poi posso dettagliarlo per quello che riguarda la mia fabbrica. Epifani, qualche settimana fa, parlando di questo, diceva che fu un passaggio storico della Cgil: “da una Cgil confinata, relegata a una rivendicazione normativa e salariale, soldi e contratto, si passava a una Cgil che poneva, parallelamente a questo, il problema delle scelte produttive, della politica economica”.
Sempre a proposito di questo rapporto tra settarismo, intransigenza etc… vorrei ricordare… ho letto questo bel libro di Destefanis che dice, a un certo punto, “Fernex e Alasia avevano la stessa origine e Alasia con Vittorio Foa si diede molto da fare per l’avvicinamento della Camera del Lavoro dei primi gruppi universitari” che non era mica facile. Noi li abbiamo ospitati alla Camera del Lavoro; usavano il nostro ciclostile, il nostro inchiostro, le nostre sedie etc… per scrivere contro di noi, voglio vedere chi è più tollerante di così. Io trovai Viale all’università in quei giorni e gli ho detto: “Allora, caro Guido, cosa pensi di noi?” e lui: “Penso che siate marci e sporchi fino alle midolla” che non era stile di Viale tra l’altro. Gli ho detto: “Io ti do un pugno sul naso perché non è scritto da nessuna parte che un bel pugno sul naso non sia democratico. Perché io devo dirti che non ho mai avuto qui dentro più della metà dello stipendio che avevo come tecnico alla Savigliano, allora, per cortesia, figli di papà, non veniteci a dare queste lezioni”. Naturalmente il pugno non l’ho dato.
Rieser: Bisogna dire che il rapporto tra studenti e sindacato ebbe inizio nel 1957 quando convocammo un’assemblea studentesca all’Unione Culturale, che trovammo sprangata. Allora andammo alla sede della Camera del Lavoro che ci ospitò. Da quel momento nacque un gruppo di circa quindici studenti che si riuniva regolarmente presso la Camera del Lavoro: fu una vera e propria formazione sindacale che apprendemmo dalle lezioni di Alasia, Fernex, Garavini e altri. Nel 1959 ci fu la presenza di studenti ai picchetti dei lavoratori della Fiat: da quel momento prese il via la partecipazione ai lavori di Lega (Barriera di Nizza, Borgo San Paolo e, in seguito, Mirafiori). Poi nacquero i Quaderni rossi, avvenne la rottura con il sindacato e il movimento studentesco fu dominato dagli estremi: in questo contesto si inserisce l’episodio che Gianni ha raccontato su Viale.
Alasia: Sempre a proposito del rapporto tra settarismo e intransigenza voglio ricordare una cosa molto bella che scriveva Gramsci su “La città futura”, che era il giornale dei giovani comunisti: “L’intransigenza è infatti il predicato necessario del carattere e insieme la volontà unica che plasma una determinata collettività come organismo sociale vivo. L’intransigenza nell’azione ha però, come suo presupposto, la naturale tolleranza del dibattito che precede la decisione”. C’era una rivalutazione… e poi scriveva ancora: “Sono partigiano. Vivo. Sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare quella attività della città futura che la mia parte sta costruendo. Vivo. Sono partigiano. Perciò odio chi non patteggia, odio gli indifferenti. Quando discuti con un avversario prova a metterti nei suoi panni: lo comprenderai meglio e, forse, finirai con l’accorgerti che ha un po’ o molto di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi, ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire”.
Voglio ricordare che quando avevamo 6/7 mesi di salario arretrato, cioè non pagato, e vi lascio immaginare cosa fosse, non ricordo l’anno, tra il 1949 e il 1952, i nostri 30 mesi di lotta, venne alla fabbrica una signora benefattrice che era la moglie dell’ingegnere Tedeschi, venne a Pasqua con grossi camion carichi di uova di Pasqua per distribuirli a tutti noi. Noi sdegnosamente rifiutammo questo: avevamo ragione, era mica un fatto di settarismo e dicevamo: “Pagaci invece, caro ingegnere, dacci quello ci devi dare” e demmo la parola d’ordine di non prendere le uova. Io ricordo, però, di un compagno (ma anche altri) che aveva 4 o 5 figli che, poverino, andò a prendere le uova. Non ti dico quel che è successo: gli abbiamo tolto il saluto a questo povero diavolo. Io so che ci sono momenti in cui devi non avere incertezze e devi stringere i denti e quando stringi i denti saltano anche dei pezzi. “Non perdere la propria tenerezza” scriveva Che Guevara. Io lo considero, adesso, tutto sommato un atteggiamento settario quello: allora non so come mi sono comportato, non ho detto niente. So che non lo rifarei, so che cercherei di spiegargli, però va anche capito il contesto nel quale succedeva.
Questa ricostruzione – restaurazione alla Fiat, per esempio, o nella tua fabbrica, come avviene, cosa comporta e come si muovo il sindacato e gli operai?
Nella mia fabbrica comporta la liquidazione della fabbrica per ragioni complesse, interne ed esterne ricordate. Perché non è vero che non ci fosse lavoro da fare: noi abbiamo denunciato nella provincia di Cuneo, dove c’era la Snos, a Savigliano, c’erano 1500 carri ferroviari danneggiati giacenti che noi potevamo riparare, eravamo attrezzati per quello. Ma noi siamo andati fino alla liquidazione totale della Savigliano. Altre fabbriche si sono ristrutturate con noi che, contemporaneamente alla nostra lotta qui a Torino, c’era la grande lotta Nebiolo, caratteri per tipografia, macchine tipografiche e macchine tessili. Anche quella è fallita negli anni ’50, salvata e presa dalla Fiat negli anni ’60 che la liquiderà poi negli anni ‘70. Credo ci abbiano fatto un museo adesso nella sede della circoscrizione. Le altre fabbriche si ristrutturavano e noi, rispetto a questo, abbiamo avuto un ritardo enorme nel capire queste cose. C’era una denuncia prevalente sulla repressione, da parte nostra: era anche comprensibile, perché ci licenziavano a migliaia, perché a Torino c’erano i reparti confino, perché i compagni impegnati erano all’O.S.R., Officina Sussidiaria Ricambi, e noi l’avevamo battezzata Stella Rossa,; era anche comprensibile questa denuncia perché corrisponde a un parte di vero, ma non c’era solo questo: c’era anche una mobilità, c’era un salario aziendale che mutava, le qualifiche che cambiavano. E c’era l’iniziale e incipiente fenomeno immigratorio che poi ha avuto le dimensioni che ha avuto. Questo durante gli anni ’50.
Il fenomeno immigratorio era molto complesso perché, intanto, i primi arrivati si avvicinavano a Torino andando nei comuni della cintura; si avvicinavano alla grande produzione: non entrarono mica subito tutti in Fiat, anzi, andavano ai mercati generali a scaricare etc… Poi erano ragazzi che avevano sicuramente una storia e una tradizione di rivolta, rivoluzionaria, ma era una tradizione di rivolta rivoluzionaria da jacquerie contadina nel Mezzogiorno: non era la nostra tradizione etc…
Sta di fatto che il movimento operaio e sindacale torinese, parlo della Cgil e della Cisl, non parlo della Uil, che li aveva fatti assumere in Fiat, fu aperto a questa problematica: nel giro di qualche anno il 75% dei nostri delegati (poi facemmo i delegati per il superamento della commissione interna etc…) erano meridionali, tutti giovani meridionali: avevamo cambiato il sindacato. Tenete presente che negli anni precedenti, della sconfitta, siamo crollati: a Torino i metalmeccanici non avevano gli iscritti che aveva il sindacato pensionati, che era il nostro primo sindacato.
Tornando al 1946 – 1947 – 1948, i partiti come si muovono, il partito comunista e l’allora Psiup, che poi si scinde nel gennaio 1947?
Si muovono con le incertezze che c’erano in ognuno di noi, forse, in una certa fase, fu prevalente la denuncia dei licenziamenti, della repressione; subentrò, però, poi anche un ripensamento, ma non in tutti i sindacati, non in tutti i partiti e non a tutti i livelli. Penso a un fatto significativo, per esempio: erano usciti 10 volumi sui mutamenti della fabbrica e abbiamo presentato con Angelo Dina e Garavini alla sede dell’Unione Culturale, a Palazzo Carignano: era una cosa preziosissima di riflessione sui mutamenti tecnologici in fabbrica. Quella sera a presentarli erano in 40, però in quei giorni girava Luciano Lama, non ho nessuna esitazione a dirlo, che secondo me non aveva mai letto un libro, ma faceva comizi e diceva: “Compagni, rinnovarsi o perire” e aveva una turba plaudente perché capire profondamente i processi e le cose è, come diceva quel avvocato al generale borbonico in Sicilia nel film di Bronte, “Costa tempo e fatica e non ha mai coperto di gloria nessuno” . E’ più facile fare il comizio.
Anche al nostro interno un ripensamento iniziava ad esserci: ma chi, come, in quale misura e a quali livelli?
La scissione di Saragat, nel gennaio 1947, che non era solo scissione di destra, ma che conteneva al suo interno elementi potenzialmente positivi, poi si trasforma in un’altra cosa: che effetto ha sul vostro partito qua?
Ultimamente, siccome ho letto le opere di Saragat, ho rivalutato, in una certa misura, Saragat nella misura in cui rifiutava quello schema frontista, di riferimento all’Unione Sovietica etc… Ci sono delle cose molto interessanti. Secondo me Saragat era il migliore dei saragattiani, se posso dirla con una battuta. Però le cose non furono così limpide perché poi lui, con questa considerazione, prestò il fianco… il Partito Socialdemocratico, allora, era una cosa innominabile. Tieni presente che Fernando Santi, che era un critico della sinistra, è venuto a testimoniare (abbiamo presentato un libro di recente) cos’erano. Questi, in un momento in cui c’era l’immigrazione, c’era questo ripensamento etc…, c’era un rilancio dell’autonomia della vera autonomia operaia, questi sono venuti a proporre il sindacato di colore, il sindacato socialista: ci sono delle pagine bellissime di Santi che dice “proprio perché son socialista sono contro il sindacato socialista perché oggi c’è un rimescolamento di carte e bisogna che il sindacato sia il sindacato di tutti i lavoratori”.
Ma nel 1947, sei iscritto al Psi e sei segretario di una sezione, che effetto produce la scissione su di voi?
Avevamo una rabbia con i saragattiani. Noi eravamo, come Partito Socialista, il secondo partito d’Italia, a Torino no, il Pci era forte. Siamo crollati dal 20% e oltre a 13-14%.
E la campagna elettorale del 1948 come viene affrontata? Con quale spirito, quali speranze?
Viene affrontata in termini molto frontisti: termini molto riferiti al modello sovietico, c’era questa contrapposizione col modello sovietico esasperato; i manifesti con i cosacchi che si abbeveravano sul Tevere se avessimo vinto noi. E’ stata una campagna furibonda, piena di propaganda e di poca riflessione. Mettevamo i manifesti dappertutto: el caval ‘d bruns era tutto tappezzato di manifesti, non vedevi più il cavallo. Poi i manifesti si mettono perché si leggano: macchè! Io ricordo che con Bruno Fernex sono andato davanti alla nostra fabbrica e abbiamo messo una serie di volantini molto belli che dicevano: “Per la Savigliano, per la nostra Savigliano”, nostra operaia. I volantini si mettono per leggerli, noi macchè: abbiamo messo i volantini così che formassero una grande scritta PACE, che era poi una fuga nel generale.
Il Partito Socialista diventò una cosa impossibile, tanto che uno come lo storico Gaetano Arfè scrisse del periodo morandiano di direzione, malgrado queste sovrapposizioni di carattere nazionale, il partito “riguadagnò la dignità di partito”. Costituimmo i comitati di corrente, i Nas. Io ricordo in fabbrica il ripensamento delle condizioni, le nuove generazioni.
Il voto del 18 aprile 1948 cosa produce? Una delusione, uno scoraggiamento?
Si, certo, molta delusione, un arretramento di tutto. Per esempio, noi alla Savigliano, e in tutte le fabbriche, avevamo fatto questa grossa battaglia sui consigli di gestione che esistevano di fatto, ma non di diritto. C’era una dichiarazione del Cln Alta Italia, in periodo clandestino, credo, del 17 aprile 1945, cioè il giorno dello sciopero preinsurrezionale, firmata da tutti, dai comunisti ai liberali, e rivendicava la costituzione dei consigli di gestione delle fabbriche. Dopodichè il Ministro Morandi, socialista, e D’Aragona, presentarono un progetto di legge che fece l’iter interno al Governo, fu sempre bocciato. Addirittura De Gasperi sveniva: quando arrivava quest’ordine del giorno andava via, si sentiva male. C’è una dichiarazione di De Gasperi che ricordo a memoria perché l’ho scritta ultimamente per presentare un libro, che diceva: “I consigli di gestione dovranno avere certamente una tutela giuridica, è importante dare forza di legge etc.. ma io dico che le riforme si fanno in periodi di ripresa e non di crisi. In periodi di crisi bisogna tirarsi su le maniche della camicia e lavorare tutti per la ripresa” che era, poi, la tesi dei liberali. E allora noi li costituimmo di fatto, solo che nella mia fabbrica l’accordo era stato, dopo la Liberazione, che venisse istituita la Commissione Paritetica, di noi e della rappresentanza della direzione. Il che diceva niente. Il mio direttore, l’ingegner Loria, quando siamo arrivati ai ferri corti per l’occupazione etc… noi abbiamo iniziato a chiamarci consiglio di gestione, del tutto arbitrariamente, ma per collegarci a quella rivendicazione di assetto legislativo: rivendicavamo i consigli di gestione. E lui mi diceva: “Voi gestite un bel niente, voi non gestite”; aveva capito qualcosa, “siete strumento di collaborazione” e noi dicevamo: “Collaborazione in che cosa? Licenziare? Noi collaboriamo qui sul piano tecnico”. Un giorno venne il presidente della società che era l’ingegner Virginio Tedeschi, padrone della Ceat cavi e della Ceat gomme, che si definiva progressista; venne da noi, fece grandi discorsi dicendo: “Compagni, i nostri comuni sacrifici durante la Resistenza” perché lui era un ebreo. Veniva a spiegarci la sua filosofia della collaborazione; questo era un terreno conflittuale. Un giorno è venuto e ha detto: “Io mi preoccupo molto del vostro posto di lavoro, ho pensato, visto che qui ci sono molte donne che lavorano” – noi avevamo molta maestranza femminile perché serviva per i lavori più minuti della costruzione idroelettrica, per esempio pulire tutti i cavi etc… – “ho persin pensato, per la manodopera leggera un lavoro che possa fare la donna e ho un progetto di fare una moto leggera, perché adesso i ragazzi voglio una moto leggera; ho persin pensato il nome: la chiamerei Libellula” e noi abbiamo detto: “Questa è un’idea produttiva” e l’abbiamo preso sul serio. Siamo andati a Milano, come consiglio di gestione, alla Mostra del ciclo e motociclo: ci siamo documentati e abbiamo chiesto una stanza per studiare la cosa. Avevamo 170 tecnici di reparto che collaboravano con il consiglio di gestione e noi, con un tecnico che chiamava Bottallo abbiamo costruito un’intera moto, con il carico di lavoro per il motore, per il telaio etc… tutto dettagliato, i costi. L’abbiamo presentato all’ing. Tedeschi il quale ci ha elogiati e ha detto: “Queste sono le cose che deve fare una commissione paritetica”, noi gli abbiamo detto: “L’ha fatto il consiglio di gestione”. Ha detto: “Bene, molto bravi”. Non abbiamo più saputo niente del destino della Libellula. Intanto, però la Piaggio etc… costruirono la Vespa e la Lambretta. Io ho sempre avuto il sospetto che lui avesse usato questa faccenda in termini di pressione sui produttori della Vespa e della Lambretta per piazzare le sue gomme, non son sicuro di quello che dico, però la conclusione fu che non ci diede mai più risposta. Era un terreno fattivo del nostro lavoro. E poi abbiamo fatto proposte per tutto: per i carri ferroviari, per i locomotori, per i pali a traliccio, per le paratoie, calcolando i tempi, i minuti etc…
Lì c’era una situazione folle, l’abbiamo denunciata, io l’ho denunciata, in un libro sul piano del lavoro dell’Università di Modena, di Vittorio Foa, io ho fatto lì una lunga testimonianza sulla politica di “revisione prezzi”. E’ stato, per me, uno strumento d’intervento del padrone che giocava sull’inflazione: noi avevamo commesse che duravano anche 4/5 anni, in un periodo di inflazione forte. Allora, quando facevi il contratto, dicevi questo contratto, questo lavoro, è costituito dai prezzi in vigore oggi in questo modo: l’incidenza del rame è tanto percento, l’incidenza della manodopera è tanto etc… col variare di queste cose aggiorneremo il prezzo. Era giusto farlo, però intanto da noi c’era non solo il conto di spese generali: tutte le spese generali confluivano in questo conto. Eravamo arrivati a un livello che le spese generali erano 600% della manodopera pura, cioè ogni lira che io mettevo nel preventivo di manodopera dovevo mettere altre 6 lire di spese generali. Ma questo era giusto nelle grandi lavorazioni perché se io dovevo fare un alternatore a Torino e poi dovevo portarlo a Savigliano dove c’era la fossa di misurazione per farlo girare, poi riportarlo indietro, bloccare la strada, la polizia etc… questo aveva un senso, ma quando passavi ad altre lavorazioni… abbiamo scoperto che per il nostro mobiletto della radio c’era un artigiano in piazza Statuto che lo produceva a un quarto del nostro costo, quindi erano casini enormi in quella situazione. Noi siamo intervenuti anche spiegando queste cose qui: io lo so molto bene perché ho fatto 1800 volte questa revisione dei prezzi, la facevano fare a me. Le cose andavano così: una commessa magari durava 4 anni, c’erano vari stadi di effettuazione dei lavori e vari stadi di approvvigionamento dei materiali e vari stadi, nel tempo, di consumo della manodopera. Se prendo questa commessa oggi, 1950, e la finisco nel 1954 vuol, dire che ci sono 4 anni di lavoro, di approvvigionamenti. Loro facevano spostare in avanti i consumi della manodopera per poter fruire degli aumenti di contingenza degli oneri che erano intervenuti e che, invece, non erano stati pagati e consumati. Se io dicevo che avevo comprato i lamierini oggi, per fare quel lavoro, con i prezzi di oggi, ma se li avevo in magazzino, li avevo comperati ieri, io guadagnavo. E l’ho fatto per 1800/1900 volte questo lavoro; l’abbiamo anche denunciato alla direzione: ricordo che quando mi hanno cacciato fuori ho detto al presidente: “Queste sono le cose vostre: se io volessi non vado via di qui, mi fate dei ponti d’oro, ma io non sono qui a difendermi personalmente, io sono qui a difendermi con gli altri, collettivamente, e io queste cose, oggi, non le denuncio, ma verrà il giorno in cui le diremo”. Avevamo questa visione di non danneggiare, rispetto a una committenza, la Savigliano.
Io lavoro come impiegato fino al 1951, fino a quando mi sbattono fuori, dandomi una lettera che conservo che diceva: “Siamo assai spiacenti di doverci privare del suo prezioso etc…”. E sono sempre segretario di sezione Psi e sono segretario del consiglio di gestione.
Quando vengo licenziato vado subito al Partito Socialista, a fare prima il lavoro di stampa e propaganda a Torino razionalmente diretto da Panzieri, che per me è stata un’esperienza molto bella. Panzieri era responsabile “Stampa e propaganda” nazionale. L’ho conosciuto in Sicilia, dove lui era segretario regionale: io sono stato a casa di Raniero, poi mi ha portato a Trapani, dove ho lavorato. Ho fatto questa esperienza, molto bella perché Raniero aveva una grande cultura. Ricordo il giorno del primo sciopero Fiat riuscitissimo, con i cancelli di Stura che a un certo punto, tutti dentro etc… poi mi ha preso la Polizia, mi ha portato via etc… Abbiamo gridato tutto il giorno, io ero entusiasta, arriva la sera Panzieri in federazione con un pacco di quadri sotto braccio e dice: “Oggi è la rivelazione della mia vita, la conferma delle mie teorie sull’operaio collettivo”. Noi avevamo i piedi che facevano male e non avevamo più voce a forza di gridare quel giorno e lui invece ha detto: “Ero così felice che sono andato a comprare tanti quadri”.
Sono in Sicilia nel 1952/1953: dopo essere stato licenziato vengo assunto dal partito e vado a prendere 36.000 lire al mese quando, alle Officine Savigliano ne avevo 76.000, che era dura. Per fortuna avevo una famiglia che stava abbastanza bene, il rapporto con la campagna, avevamo l’alloggio che era nostro: tutte queste cose qui che contano nella vita. Mi ricordo che un giorno ero arrivato a casa e ho trovato una cesta di uva che mi avevano portato i parenti: ho pianto di imbarazzo.
Nel 1951 sono funzionario di partito, guadagno 36.000 lire; il matrimonio con Pierina, che è del 1926, è del 1950 che avevo conosciuto anni prima, in tempo di guerra; lei lavorava per suo padre: mio suocero era una artigiano del ferro battuto.
Cosa ricordi questo periodo, gli anni ’50?
Ricordo i nostri precedenti stalinisti: Ungheria e tutte queste cose. Ricordo che quando ero nell’ufficio stampa io e Pecchioli abbiamo fatto il manifesto per la morte di Stalin e l’abbiamo fatto affiggere in tutta Torino. L’abbiamo messo nelle bacheche della Federazione Socialista, sotto c’è un enorme mercato: tutte le donne che venivano con un mazzo di fiori a portare sotto il manifesto di Stalin perché era il “padre dei popoli”.
La lotta sulla Legge Truffa del 1953…
La impostiamo, lavoriamo, dicevamo cosa diciamo ancora adesso davanti alle leggi elettorali: che il mio voto sia uguale al tuo è un diritto sacrosanto, naturale e irrinunciabile. Perché tu devi pesare due e io uno o mezzo? Poi abbiamo vinto, per poco, ma abbiamo avuto spostamenti politici: non indifferente sono stai Usi, Upi, Parri, questi nobili uomini della Resistenza che hanno dato un contributo di qualità significativo.
Il vostro lavoro verso le fabbriche com’è in quegli anni?
E’ in parte di ripensamento, in parte di denuncia delle altrui ingiustizie del padrone: quando dico in parte dico a tutti i livelli, da Luciano Lama a Bruno Fernex, che fu licenziato con me qualche settimana prima. Lui partì subito e andò a Barriera di Nizza a lavorare in lega, dove c’era il compagno Gasparini, c’eravate voi, tu (Rieser)… ricordo che arrivava in federazione il professor Montalenti, era un compagno indubbiamente pulito, delfino di Rodolfo Morandi perché era membro del Cln regionale e disse a Gasparini: “Ma Giorgio, siete sempre incazzati qui dentro” perché le incazzature erano tante, e lui gli ha risposto: “Ti, cumpagn prufesur, guarda che il giorno che non ci incazzeremo più per queste nostre cose sarà un brutto giorno anche per noi perché dimostra che saremo diventati mestieranti”; adesso si direbbe politicisti.
La sconfitta alla Fiat del 1955, con la Cgil che crolla, i cambiamenti che il sindacato ha…
Aprono un periodo di grossissimo ripensamento perché è stata una cosa enorme; apre anche certe “chiusure”: noi facemmo venire a Torino, alla Camera del Lavoro, perché era della sinistra socialista, il compagno Oreste Lizzadri, segretario della Cgil e questo qui ha fatto un tale discorso che noi eravamo tutti allibiti: “Compagni, è vero che siamo stati sconfitti alla Fiat, ma guardate alla Cina, guardate alla rivoluzione del mondo che avanza nel Terzo mondo” … queste diverse considerazioni.
Ben altro modo Santi, che venne a Torino: in quel momento coi fatti dell’Ungheria etc… quando fu lanciata la formula “Uil – Unità Socialista” e noi abbiamo avuto tutta una serie di crolli: dalle fonderie, alle acciaierie, a Mirafiori, al Lingotto.
Rieser: un grande dirigente Mario Montagnana disse: “Non capisco tutto questo tormento: se noi siamo stati sconfitti la colpa è dei padroni”….da un lato c’era quel tipo di mentalità. Già nel dicembre 1955 la Fiom torinese, con l’aiuto dell’ufficio studi nazionale, produce quell’analisi delle condizioni di lavoro alla Fiat Mirafiori che è un modello di lucidità di cogliere le trasformazioni in atto, le ripercussioni sulle condizioni di lavoro. Un’analisi veramente esemplare, credo che molto ci lavoro Bruno Fernex. C’era una capacità di analisi che esisteva già. A Torino la Fiom torinese si era già scontrata con il nazionale sul tema lotte aziendali o centralizzazione, quindi il sindacato torinese era più pronto di altri nel cogliere i cambiamenti e le trasformazioni.
Alasia: Vorrei ricordare una cosa: nel 1962 noi a Torino abbiamo dichiarato uno sciopero alla Fiat che è fallito, hanno scioperato in 300; la Cgil ci ha mandati a chiamare, c’era tutta la segreteria Cgil, Garavini, io, Pugno, Fernex etc… e ci hanno detto: Gli scioperi si fanno per vincerli, non per perderli” e in effetti gli scioperi li fai per vincerli, non per perderli. Ci hanno difeso, in quella riunione, solo Trentin, Romagnoli, Foa e in parte Scheda, che era incerto. Noi dicevamo che sentivamo che c’era un potenziale di lotta, le cose sono mutate, c’è l’immigrazione, c’è la nuova classe operaia etc… e diceva Vittorio Foa: “Devi gettare anche un detonatore dall’altra parte perché poi, prima o poi, scoppia” e così fu. Il Comitato centrale del Pci ci ha accusato di avventurismo, Togliatti ci ha accusato di avventurismo e l’ho detto a quella riunione: “Poi cosa dice Togliatti al comitato centrale che noi siamo degli avventuristi”; e il segretario nazionale, Novella, mi dice: “Perché tu sei membro del comitato centrale del Pci?” e io: “Noi, io non sono nemmeno iscritto al Pci, ma cosa c’entra? So leggere i giornali e ho il diritto di leggerli anche io”. Questo era un po’ il clima dei nostri rapporti.
Quello fu il primo sciopero separato che abbiamo dichiarato con un’attenzione riguardosa da parte della Cisl che non ci attaccò e disse: “Comprendo quelle ragioni ma io non lo faccio etc…”. Ci si deve chiedere perché di lì a 3 mesi circa incominciano a scioperare in 7.000, a giugno prima in 60.000 e poi in 100.000: questa non è un’improvvisazione, questo era un accumularsi di quelle condizioni potenziali di ripresa della lotta. Non è un’esplosione subitanea: c’erano anche gli elementi di subitaneità, improvvisazione, ma era maturata una nuova classe operaia, fatta anche di immigrati. Nel 1962. Avevo una sgangherata Topolino e vengo giù da via Settembrini, c’era una marea di giovani, io ero lì come sindacato e avevo paura anche di prendere le botte: quando ho detto che ero della Fiom sti ragazzi hanno spalancato, si sono aperti, mi hanno portato in trionfo, hanno portato Pugno dentro a fare il comizio. Noi non entravamo più alla Fiat, l’unico posto dove entravamo era la Olivetti, ma alla Fiat, dalla Liberazione, non entravamo più.
Intervista a Gianni Alasia
Intervistatori: Vittorio Rieser, Sergio Dalmasso, Fabio Dalmasso
Operatore: Claudio Vaccaneo
Gruppo Rifondazione Comunista Torino – 8/11/2006 – Parte 2
Sono entrato come funzionario nel Sindacato, dopo aver lasciato il partito: devo premettere che ero stufo del Partito Socialista e ho chiesto io di andare nel Sindacato. Però tenete conto che allora le correnti nella Cgil erano previste per statuto: corrente socialista, comunista, repubblicani, anarchici etc… e io ero già membro della commissione esecutiva della Camera del Lavoro perché il responsabile massa lavoro sindacale dei partiti comunista e socialista erano nella commissione esecutiva della Camera del Lavoro, quindi c’era già una mia partecipazione sia per il lavoro che facevo in federazione sia per questo riconoscimento che non era solo formale. C’eravamo io e Cominotti del Pci. Sono entrato nel 1957, dopo Venezia. Nel 1959 divento segretario della Cgil.
Nella Cgil le “correnti” erano previste statutariamente sin dall’accordo sindacale di Roma del 1944. quando ancora c’era la guerra e l’Italia era spaccata in due. Nella situazione difficile degli anni ’50 – ’60 noi come corrente socialista avviammo iniziative per un rapporto con la Cisl (per la Uil le cose si presentavano diversamente) variamente articolato con l’intento di servire l’unità sindacale. La cosa comportava rischi, ma anche aperture. Ma il nostro ancoraggio era sui problemi. Nel tempo vi furono vari documenti dei compagni nostri di segreteria e di numerosissimi compagni di fabbrica. Di fronte a questa iniziativa l’autorevole rivista democristiana Società Nuova, diretta da Guido Gonella, nel pubblicare integralmente un nostro documento scriveva: “Il contenuto di questi documenti deve essere letto con rispetto, perché rivela sincerità nella denuncia di una crisi profonda e attaccamento sentito alla causa dei lavoratori. Da questi documenti si rivelano le gravi difficoltà di funzionamento delle Commissioni interne, per riformare le quali il nostro Rapelli ha invano presentato fin dal 1954 una proposta di legge. La nostra pubblicazione ha il solo fine di offrire uno spunto a quanti hanno, come noi, a cuore la causa operaia, per indicare le nuove strade del sindacalismo dopo quelle battute con scarso profitto e con inadeguato aggiornamento alle esigenze dei tempi” (Società Nuova – Anno IV – n. 7 – 17 febbraio 1957).
La nostra iniziativa destò preoccupazioni e critiche da parte dei sindacalisti comunisti. Non nascondo oggi (ma nemmeno ieri) che essa poteva portare a sbocchi antiunitari, ma star fermi non si poteva; ed assumere i problemi di fabbrica come riferimento fondamentale era una forte garanzia. Fu la prima e unica volta che ebbi un dissenso col compagno sindacalista Bruno Fernex. Ma gli sviluppi successivi nei rapporti sindacali fra Cgil e Cisl avrebbero dissipato i dubbi. Su Mondo Operaio del giugno 1957 dovevo scrivere diffusamente sul ruolo di corrente:
Funzione programmatica della corrente di Gianni Alasia.
La vita sindacale è attualmente divisa da contrapposizioni “paritetiche” che vengono spesso a sovrapporsi alla materia sindacale. Sarebbe perciò ingenuo pensare di risolvere il problema eliminando le correnti nella Cgil.
L’attuale strutturazione sindacale è un dato della realtà dalla quale si deve necessariamente partire per lavorare verso l’autonomia e unità sindacale. Quindi occorre innanzitutto “caratterizzare” sul terreno della realtà e non su quello “della tessera” la corrente socialista. Se noi riusciremo ad operare non come “corrente di tessera” ma come corrente programmatica richiamandoci ad alcuni principi generali che ci impegnino a riportare nel sindacato un metodo di ricerca, una interna dialettica, non solo non approfondiremo solchi artificiosi nel sindacato, ma lo aiuteremo ad avanzare, a conquistare una reale unità.
E’ chiaro quindi che questa caratterizzazione deve avvenire nell’ambito del sindacato e con la costante preoccupazione di superare l’attuale stato di cose.
La funzione di corrente, almeno così come si esprime oggi, costituisce un fatto e assolve ad un compito di transizione. Cioè le correnti, così come oggi sono strutturate, non si possono distruggere con un colpo. L’unità sindacale non può ottenersi disgregando le attuali strutture sindacali, le quali andranno invece estinguendosi via via che verrà realizzata la costruzione del sindacato autonomo e indipendente.
A questo proposito va tenuto presente che sui luoghi di lavoro e specialmente nei grossi complessi le cose camminano. I vuoti lasciati dalla carenza dell’azione sindacale sono riempiti dal padronato con una politica sindacale assai articolata, sia sul piano salariale che su quello normativo che su quello dei rapporti interni di fabbrica. Questa politica ha un obiettivo generale: privare di ogni autonoma capacità il movimento dei lavoratori, cercando di inserirlo nella propria orbita, facendone così un’appendice della propria politica. Si spiega quindi perché ogni atto che accentui lo sbriciolamento sindacale (si intende dire, naturalmente, ogni atto che porti ad inserire nella vita sindacale una artificiosa contrapposizione e non un fecondo confronto sindacale) non può che essere pregiudizievole ai lavoratori.
Quando in tesi generali ci si sente riproporre, oggi, per le elezioni delle Commissioni Interne la “lista socialista”, allora conviene riflettere. Dobbiamo esigere che si smetta di guardarci da alcune parti, da parte di alcuni compagni comunisti col pregiudizio sulla nostra fisionomia politica. Siamo nel sindacato come operai, come lavoratori fra altri lavoratori che faticosamente cercano una linea. Il pregiudizio altrui non deve però diventare un pregiudizio nostro: la etichetta di Partito non deve farci ritenere gli unici capaci, validi, spregiudicati innovatori. La capacità di innovare non si misura da una collocazione di partito, ma dalle cose che in effetti si fanno nel sindacato.
Non si può continuare a parlare di sindacalizzazione della vita sindacale per poi proporre formule anche per le C.I. che accentuano contrapposizione artificiose fra i lavoratori. Non dobbiamo concorrere a dare un contenuto “politico” alle elezioni di fabbrica introducendo nel rapporto di lavoro tutti gli elementi di contrasto propri ai partiti politici. Che cosa aggiunge quindi alla chiarezza e alla concretezza sindacale una lista socialista? La sola cosa certa è che, pur con i loro gravi limiti, le C. I. rappresentano in tutta la struttura sindacale del paese, quella istanza che gode di maggior credito, quella istanza che bene o male ha un diretto legame con l’intera maestranza: ed a queste istanze di base è indispensabile ricondursi per portare avanti il processo unitario di rinnovamento del sindacato, cercando non artificiose contrapposizioni politiche, ma piuttosto affermazioni di capacità sindacale, di comprensione dei problemi, di originalità delle soluzioni.
La ricerca di una caratterizzazione “a tutti i costi” può portare solo a contrapposizioni artificiose, a sterili contrasti che si motivano di argomenti estranei a quella politica che il sindacato deve fare. Là dove invece i diversi punti di vista emergono, là dove si rende necessario un onesto confronto sindacale fatto su problemi e valutazioni diversi, allora la contrapposizione non è artificiosa e non può falsare i termini del dibattito e della ricerca sindacale. In questo caso si sviluppa la battaglia fra il vecchio e il nuovo, cercando di guadagnare per il movimento sindacale condizioni di franco, aperto, leale dibattito.
Nell’attuale situazione, i compiti che si vanno assumendo richiedono una messa a punto delle strutture di partito, degli strumenti, delle istanze edei modi con i quali si sono seguite le questioni di natura sindacale e delle attività di massa in generale. Il rapporto che deve intercorrere tra partito e corrente, fra organismo di partito e compagni che operano nel sindacato non è affatto chiarito. Ciò accade non soltanto quando si verifica la sovrapposizione del partito al sindacato, ma anche (bisogna dirlo) quando sono gli stessi sindacalisti che determinano e gradiscono questa sovrapposizione. E’ tempo di trovare una precisa specificazione nel lavoro, nel trovare il modo di svincolare i compagni che operano nei sindacati da un certo tipo di tutela di partito,anche modificando le abitudini mentali che fanno talvolta richiedere la tutela.
I comitati di corrente devono trovare via via i modi del loro autonomo lavoro sul terreno della realtà sindacale per esprimere non tanto una caratterizzazione di partito quanto una più sollecita aderenza ai fatti, ai problemi, agli interessi dei lavoratori in quanto tali: è questa, senza dubbio, la strada migliore per arrivare al sindacato autonomo.
Nel 1959 c’era da affrontare l’iniziato rinnovamento della ricerca sulla nuova condizione: sono gli anni in cui abbiamo fatto milioni di questionari per far rispondere gli operai sulla loro condizione. Un’esperienza interessante è stata quella alla Sobrero Est di Gassino, con 600 ragazze, confezioni, per la prima volta abbiamo fatto (nel 1961 o 1962) un volantino firmato Cgil – Cisl – Uil che diceva: “Compagne, iscrivetevi al sindacato che volete,l’importante per noi è che siate sindacalizzati che è la premessa per poter partecipare, dire la vostra”. Questa iniziativa subì delle critiche anche nella Cgil perché era di rottura contro l’impostazione di contrapposizione rigida.
Esprimo un’opinione personale e muovevo una critica alla Camera del Lavoro di Torino e ai sindacati: erano troppo centrati sulla Fiat; la Fiat era un grosso impegno, l’elemento di fondo dello scontro, ma non c’era solo la Fiat a Torino e le prime lotte di massa, a Torino, non furono fatte alla Fiat, ma alla Michelin, per esempio, alla Snia. La Valle di Susa e i tessili era la storia degli stabilimenti Mazzonis che erano a Torino, a Prà Lafera (dove c’è ancora la ruota che girava con l’acqua e il bocchettone del gas che accendevano al mattino per scaldarsi) e a Torre Pellice. Questo barone Mazzonis ai tempi della occupazione delle fabbriche nel 1920 prese Giolitti e disse: “Onorevole,a Torino passa il 2° corpo di artiglieria, faccia sparare sulle fabbriche occupate” e Giolitti disse: “Va bene signor barone, comincio dalle sue” e il barone: “No, la mia no, le altre si”. Ho avuto poi delle trattative con lui. Assieme a questi c’erano 15 o 16 stabilimenti del cotonificio Valle di Susa, tutti ubicati in Valle: Borgone, Susa, Collegno, Perosa, Lanzo, Rivarolo etc… i primi scioperi era una faticaccia: io sono andato via 89 volte nel giro di 120 giorni alle 3:30 del mattino, passavo a prendere gli altri compagni e andavamo su. Sono arrivato al punto che ero rimbecillito: un mattino arrivo a Susa, alle 5, una crosta di ghiaccio, freddo, vado in un bar a farmi dare un grigio – verde, un cichetin, che mi è andato dritto al fegato e sono stato male per due mesi.
Questi erano i primi stabilimenti di Torino: la sua industrializzazione fu questa, Gramsci parlava di “industria da straccioni”, quando la metalmeccanica era già pesante in Francia e in Germania soprattutto.
Rieser: assieme alle lotte dei cotonifici ci furono anche le lotte degli elettromeccanici, ma a Torino la presenza di industria elettromeccanica era limitata alla presenza della Magnadyne, la lotta più grossa, che allora era un grosso complesso, due stabilimenti a Torino e uno fuori, a Sant’Antonino di Susa. Un’altra grossa esperienza fu la lotta di Forno Canavese, piccole boite che facevano lavorazioni siderurgiche con tradizioni di padronato, uno dei pochi posti dove all’epoca i padroni organizzarono direttamente delle bande fasciste,una situazione molto pesante. Padroncini che lavorano loro stessi. Ci fu una grande lotta, programmata solo dalla Fiom, non ancora unitaria (parliamo del ’60). C’erano i manifesti che dicevano: “Sciopero proclamato da Fiom, Cgil, Federazione Sindacale Mondiale…”, tante sigle che dicevano la stessa cosa. Fu uno sciopero che durò a lungo ottenendo parecchie cose. Una volta che siamo andati lì a fare picchetti vediamo passar uno, tutto sporco, con la tuta e una borsa e uno del nostro gruppo gli fa: “C’è sciopero” e lui: “Si lo so,ma io non lo faccio”. Allora gli disse: “Ma come non lo fai?” e lui: “Vado contro i miei interessi”; allora il compagno aveva iniziato a spiegargli e questo dice: “Si, ma guarda che io sono il padrone”. Ma era indistinguibile. E’ vero quello che diceva Gianni: l’attenzione era catalizzata sulla Fiat, sembrava non si muovesse nulla senza la Fiat, ma in realtà queste furono lotte che durarono a lungo e coinvolsero migliaia di operai e che hanno anticipato.
Luglio 1960, Tambroni: le fabbriche rispondono a questo o è più una questione politica di antifascismo?
Rispondono, ma s’era creato attorno a questa faccenda Genova – Tambroni – Congresso Msi una sorta di unità trasversale che allora non c’era. Per esempio, Martini Mauri, comandante degli Autonomi, fu alla testa di questo. Ricordo questo corteo enorme di operai: venivamo giù da via San Donato, che è stretta, e arriva il Battaglione Padova: noi dicevamo che li tenevano in una gabbia, gli davano la carne cruda e al momento buono aprivano le gabbie, arrivavano come gli Sioux sul sentiero di guerra, erano una cosa incredibile. A piazza Statuto anche sono arrivati. Comunque, tornando al 1960, quando c’è stato l’avvicinamento tra il battaglione e questo enorme corteo è saltato su una macchina Mauri (Enrico Martini) a fare un comizio infiammato politicamente. C’era quindi questa trasversalità politica che ha, sicuramente, giocato un ruolo anche di sollecitazione.
Rieser: Dopo gli scioperi contro Tambroni cominciano a svilupparsi quelli della Valle di Susa, alla Magnadyne etc… tutte lotte che vengono fuori dopo questo momento di mobilitazione. Qui, però, la Fiat era assente, anche allo sciopero proclamato alla Fiat parteciparono in 300, non ci fu nessuna scossa alla Fiat. Poi iniziò a scioperare più tardi.
Quindi negli scioperi contro Tambroni c’era una componente antifascista, ma anche un disagio materiale per le condizioni di lavoro, disagio dei giovani…
Norberto Bobbio fece con noi il primo convegno sulle libertà in fabbrica al Palazzo d’Igiene. Poi con Bobbio, tutti gli anni, facevamo la contromanifestazione dell’inaugurazione dell’anno forense.
A Torino c’erano decine di migliaia di studenti serali, cioè lavoratori – studenti: abbiamo fatto un’inchiesta su questo, con prefazione di Foa. Prima di queste cose il diritto dei lavoratori – studenti ad essere assegnati a un turno compatibile con la frequenza del corso che avevano scelto si chiamava, in termini sindacali, “buona condotta riconosciuta dal capo”, cioè non scioperi, non sei iscritto alla Cgil, alla Fiom etc… Dopo è diventato un diritto contrattato.
Rieser: Un’altra anomalia era la Riv, che era proprietà personale di Agnelli, però era una fabbrica che scioperava, sia a Villar Perosa che a Torino dove, malgrado i licenziamenti, era rimasto un certo quadro sindacale. A Villar un po’ più conservatore…
Alasia: Ma secondo me a Villar c’era un’influenza della chiesa valdese; anche lì c’erano i ricchi e i poveri, ma nella Val Germanasca tutti i pastori erano con noi, era la valle più povera; nella Val Pellice c’era borghesia imprenditoriale, intellettuale, una cosa diversa. Però, secondo me, ha influito nello sbloccare la situazione.
Chi c’era con te nel sindacato?
C’era un collettivo operaio stupendo, penso a Surdo (operaio Fiat Mirafiori), a Musso (operaio Fiat Spa e poi in segreteria camerale), a Frasca (operaio licenziato dalla Pininfarina negli anni ’50 e allora in segreteria camerale) che ha fatto delle cose importanti sull’ambiente di lavoro e nocività… adesso facile pensare al passaggio che abbiamo avuto dalla monetizzazione della salute alla rimozione del nocivo, ma fu difficile da spiegare. Ricordo il settore dell’amianto: a Torino c’era l’estrazione dell’amianto (a Balangero) e poi c’era la fabbrica di confezione, lavorazione: c’erano 6 o 7 fabbriche. Ricordo un’assemblea alla CapAmianto come abbiamo sbloccato, con mezzi rudimentali anche perché è difficile andare da un operaio che gode della paga di posto del nocivo e dire: adesso rinunci a quello per curarti la salute e per chiedere la rimozione del nocivo. Io e Carla Calcatelli abbiamo messo dei bicchieroni di acqua sul tavolo e dopo 4/5 ore abbiamo portato gli operai a vedere che si era formata la crosta di polvere d’amianto. Quello era ciò che gli operai respiravano, che andava nei polmoni. Fu una lotta non facile, come tutta un’altra serie di acquisizioni: oggi si vedono gli operai sui ponti con le cinghie di sicurezza: mio padre era un muratore, l’ha fatto 70 anni, quando ha visto questi che per primi avevano le cinture rideva quasi. Ma io dicevo: “Ricorda papà quanti tuoi colleghi sono precipitati al suolo”. Non era facile, la condizione operaia è anche storicamente condizionata, Grasmci lo spiega molto bene in “Uomini di carne e ossa”. “Nella misura in cui sono sfruttati son portatori di una rivoluzione radicale; ma vivendoci dentro cercano i margini più ampi possibili di sussistenza”.
Ricordo che parlavo alle donne della Lancia, negli anni ’50, e si facevamo le vertenze sugli asili nidi etc… e io dicevo: “Compagne, la fabbrica seleziona i vostri mariti, la scuola seleziona i vostri figli etc…” e si alza una compagna, che sembrava mia madre nel 1944, che disse: “Hai ragione Gianni, e se la fabbrica seleziona mio marito e se mio marito non mi porta poi a casa la seconda poi fa i conti con me. E se mio figlio è bocciato, se la scuola seleziona,io voglio che sia selezionato ai più alti livelli: se è bocciato gli ficco un sacco di botte”. Erano risposte sbagliate a un problema vero. Era un enorme amalgama, un enorme dialettica, con gli immigrati che dalla rivoluzione non avevano nulla da perdere fuorché le loro catene, come disse Marx. C’erano gli incontri e scontri con gli studenti: quando si è passato dalla Commissione Interna (che era in parte atrofizzata ma erano anche compagni che tenevano da decenni), al delegato abbiamo avuto problemi. Non era facile ricostruire questo. Su questi vecchi operai che hanno tenuto per anni, e hanno anche sostituito il sindacato in certe situazioni, poi arrivava il figlio del professor tal dei tali a dirgli sporco traditore. Lotta Continua disse: “Siamo tutti delegati”, ma delegato vuol dire studiare le cose, organizzare, approfondire etc… quello era un salto nel vuoto, nella demagogia. La “democrazia delle tribù barbariche che la esercita battendo le picche sul terreno e ululando” aveva scritto anni prima Gramsci.
In tutto questo ci sono due episodi: piazza Statuto, luglio 1962, dibattito nella Cgil…
Allora io ero nel Palazzo della Camera del Lavoro, sono sceso e ho trovato Pugno che stava inveendo contro Rieser perché sosteneva una certa tesi della creazione spontanea etc… e Pugno diceva invece “provocatori”. Secondo me in tutti i movimenti di massa c’è anche l’elemento della provocazione, perché negarlo? Io ero in piazza Statuto, quando hanno dato fuoco al benzinaio, spaccando tutto: all’inizio c’eravamo solo io e Garavini. Quella sera tutto il gruppo dirigente della Fiom era in un paese del Canavese a mangiare i funghi…
Rieser: Celebravano la riuscita dello sciopero, luglio 1962. C’era stato il tentativo di accordo separato di Uil – Sida con la direzione che spaccano, almeno formalmente, il fronte di lotta; poi lo sciopero che viene proclamato qui a Torino Fiom – Fim e lo sciopero è una riuscita totale. Il sabato, non c’era il sabato lavorativo per il primo turno, si forma questo corteo che va verso la sede della Uil.
Alasia: Io ho visto che in piazza Statuto è arrivato Giancarlo Pajetta, si è messo alla testa di uno di questi cortei e cercava di portarli via perché questi ragazzi arrabbiatissimi assediavano la sede della Uil, che era quella che li aveva fatti assumere e loro poi han trovato una condizione ben diversa da quella promessa. Pajetta si trascinava questi che andavano dietro lui per un po’, poi Giancarlo restava da solo e questi tornavano indietro a tirar sassi, a incendiare, a urlare etc… Io ero lì e vidi bene alcune macchine che arrivavano da Porta Palazzo che scaricavano manganelli e catene, era una cosa organizzata da qualcuno. Un pezzo di provocazione c’era. Mentre ero lì c’era Poldo, che era una vecchia “lingera” torinese che aveva il braccio proibito, e che gridava: “Perché compagni bisogna incendiare tutto perché noi della Fiat, noi della Fiat…” e io da dietro gli dissi: “Poldo, la Fiat tu l’hai solo vista in cartolina”. C’erano anche queste cose qui ed è inutile nascondercele. La spiegazione della provocazione era elementarissima e non coglieva l’aspetto nuovo, però un pezzo di provocazione c’era. Davanti al nostro palazzo della Camera del Lavoro, dove c’è il Maria Letizia, c’era tutta la polizia schierata con i mitra pronti a sparare. Il questore era stato allievo del compagno Mancini, ed era un democratico, mi ha detto: “Se voi sgarravate un momento eravamo pronti a spararvi contro la Camera del Lavoro”.
Nei grandi moti un pezzo di provocazione c’è e spinte contraddittorie ci sono: il grande moto raccoglie tutto, il politicizzato, l’estremo e quello lì che spunta in quel momento.
Su piazza Statuto come ripresa della lotta do un giudizio positivo, su altre cose non do un giudizio positivo: sono stati presi compagni e bastonati, bastonati in questura, noi abbiamo denunciato queste cose, con nome e cognome, in un opuscolo. Politicamente do un giudizio positivo per le cose che ha fatto maturare, esplodere, per le nuove generazioni che si affacciano; non do un giudizio complessivamente positivo.
Rieser: Per dare un’idea di come fossimo fuori dalla realtà noi… in quel giorno noi come “Quaderni rossi” eravamo in riunione al Centro Gobetti e facevamo analisi sulla riuscita dello sciopero etc… Verso le 7 di sera, quando in piazza Statuto c’erano già da ore disordini, è arrivato un compagno della Olivetti e disse: Ma non sapete che a pochi metri da voi c’è il più gran casino…” . Siamo caduti dalle nuvole, ma la situazione era già andata molto avanti, c’erano già state le cariche della polizia etc… Quindi in realtà noi ne abbiamo capito ben poco, non abbiamo nemmeno seguito la dinamica dei fatti.
In questo periodo esce il problema nel Psi e tu Gianni aderisci alla sinistra socialista…
Aderisco alla sinistra socialista; la spaccatura si verifica al Congresso di Venezia…
Rieser: A Venezia si evidenziano le divergenze, ma c’era ancora una gestione unitaria del partito, poi nel 1959 ci saranno le tre mozioni, Nenni – Basso – Sinistra, mentre a Venezia c’erano già queste posizioni ma non erano cristallizzate.
Alasia: Noi eravamo già tornati a Torino quando Nenni convoca il comitato centrale eletto: allora riparto da Torino e torniamo a Venezia, vedo Nenni che mi abbraccia e mi dice: “Bravo che sei qui. Adesso come usciamo da questa situazione? Dovresti convincere Filippa a non entrare nel comitato centrale perché io ho un bravissimo ragazzo intelligente che si chiama Bettino Craxi, dovresti fargli posto”.
Io sono entrato con Vecchietti, Valori, Gatto e altri, ma anche lì eravamo cose diverse: Vecchietti rappresentava un’ala filo sovietica, noi un’ala movimentista… gli scontri non sono stati facili. Rieser era nella corrente di Basso con gli altri di Torino che era, scriveva La Stampa¸”una corrente di giovani intellettuali bravi etc… capitanata a Torino da Annibale Carli” che era un vecchio sindacalista che poi diventa nenniano con questa morale: il giorno in cui c’è stata la scissione eravamo in federazione. Io ho sempre, credo e spero, colto l’aspetto umano dei compagni, e lo vedo piangere: allora siamo andati in una stanza e lo consolavo e lui mi ha detto: “Gianni, dovessi fare una scelta politica sarei con voi, dovessi fare una scelta morale sarei con voi, dovessi fare una scelta umana sarei con voi” : allora fammi capire cosa scegli!
Rieser: In quel congresso la relazione la scrivemmo un pezzo io, un pezzo Soave, uno Mottura: una relazione di alto livello, ma del tutto eterogenea… io più lombardiano, Soave più operaista etc… tutti pezzi interessanti che,però, non stavano tanto bene assieme. Fu letta da Annibale Carli con un tono da comiziante dell’800 e con tutta la gente che sapeva benissimo che non era farina del suo sacco, ma la declamò senza capire bene cosa stesse leggendo.
Alasia: I rapporti con la D. C. era una cosa complessa anche per me perché venivo dall’esperienza resistenziale dove avevo avuto molti rapporti con questi ragazzi, la D. C. era diversa allora, ma i filoni sociali dei cattolici erano presenti nei sindacalisti; Alberto Tridente e altri. Questi settori poi li trovi nella Fim e avevano determinato delle fratture nel partito della Democrazia Cristiana. Ricordo l’ingegnere Porcellana che mi disse, mentre eravamo alla sede della Cisl “Questa era la casa del mio cuore, son passato attraverso questa trafila per diventar democristiano, ma adesso non mi ci trovo più”.
Rieser: Il primo a porre l’esigenza di stabilire un nuovo tipo di rapporti con la D. C. fu Morandi, con un’impostazione ovviamente diversa da quella che avrà poi Nenni. Il tema non era trascurato a priori nel Psi, il modo in cui fu gestito da Nenni determinò poi la frattura.
Alasia: Nenni riduceva tutto alla propaganda: per lui la politica era la propaganda, non l’analisi dei fatti, “politique d’Abord”. Un giorno arrivò a Torino, dopo aver fatto un comizio a Biella e qui si trovò il palco in piazza San Carlo ed era felicissimo, anche se noi gli facevamo la lotta contro.
Nel 1964 uscite e fondate il nuovo partito: com’è?
Per fare un parallelo era come era Rifondazione all’inizio e com’è adesso, questa amarezza la vivo due volte. C’era una premessa giusta, abbiamo fatto bene a uscire, ma poi la gestione è stata disastrosa. Quando abbiamo fondato Rifondazione abbiamo detto che siamo tutti figli di una sconfitta, veniamo da tante parti, il problema è di aprire un processo dialettico che ci porti a superare… abbiamo superato un bel niente, queste cristallizzazioni ci sono. E così fu allora. Parlo del partito nazionale e di quello torinese.
Nel 1964 a Torino dicevano che c’era il pentagono che comandava: Filippa, Alasia, Dosio, Mario Giovana e Clerico. Limiti di gestione locale erano di una convivenza del nostro piccolo partito con il grande (che grande non era più) partito socialista nel sindacato. Quando sono entrato nella segretaria della Camera del Lavoro, andandomene via, con me c’era Paonni, capo della destra. Convivenza, lavoro assieme e conflitti. I problemi erano di linea politica e di comportamento.
Le trasformazioni che la città vive in questi anni?
Non è facile: questa è una città che è passata da 600.000 abitanti nel dopoguerra a 1.300.000 e poi i grandi comuni della cintura. Anche se a gradi diversi: molti si fermavano nei comuni della cintura che scoppiano: ero consigliere comunale Psiup (unico eletto) a Settimo Torinese, che, quando io ero ragazzo, era il paese dei lavandai, diventa un paese di 35.000 abitanti perché ci vanno tantissimi operai di varie fabbriche. C’è il mutamento della topografia attorno a Torino. E questo comporta problemi nuovissimi nella classe operaia, per esempio quello della pendolarità di massa. Ricordo il treno che veniva da Bra al mattino pieno di operai Fiat; da Carmagnola, Chivasso, Casale. Era un fenomeno di massa. Ancora oggi abbiamo 120.000 pendolari che da fuori vengono in Torino e 120.000 che escono da Torino, anche fino a Milano. Questo comportava stanchezza, fatica psicofisica, rivendicazioni di adeguamenti e unificazione della rete di trasporti. Comportava atteggiamenti anche complessi: abbiamo dichiarato degli scioperi sulla Torino – Asti e allora nello statuto della Cgil c’era scritto che quando facevi uno sciopero dei servizi non lo poteva dichiarare da sola una categoria, ma doveva essere sottoposta alla commissione esecutiva per vedere i riflessi sull’utente. Noi abbiamo dichiarato lo sciopero dei ferrovieri su questa linea portando i treni: passava il ferroviere che diceva “Caro compagno operaio, noi oggi siamo in sciopero per etc…ma ti portiamo a lavorare perché vuoi andare a lavorare”.
Ci sono cambiamenti urbanistici forti nella città, nuovi insediamenti umani, una periferia che cresce.
Sui modi di vita e sulla cultura i cambiamenti
Se cultura è come dice Gramsci conoscere la vita e la realtà per trasformarla era dentro questo: io non sono stato sempre la stessa cosa… Vittorio Foa mi ha fatto una critica su quel nostro libro dei lavoratori – studenti in cui dice che i compagni ponevano il problema di più scuola e non una scuola diversa. Andavi ai contenuti, era una rivoluzione culturale. Devo dire che questa critica è giusta, però in una prima fase, dopo la liberazione,la rivendicazione quantitativa era tutt’altro che indifferente perché partivi da quelle condizioni. Avere più scuola era un problema: se c’erano 50.000 bambini di Torino in età di scuola materna e i posti erano solo 7.000. Tutto questo ha ovviamente un riflesso sulla cultura. Poi si è chiesto anche una scuola “diversa”.
Al partito era una disperazione, mesi senza stipendio. Presi dopo mesi l’indennità di licenziamento dalla fabbrica e,messa in banca, attingevo di lì. Però lo stipendio era minore di molto rispetto a quello in fabbrica. Alla Cgil le cose sono cambiate, il Psi era proprio povero. Alla Cgil avevo la certezza dello stipendio, oltre alla certezza della pensione. Ho vissuto senza sacrifici economici e lo sentivo questo, tanti che stavano peggio di me.
Io Sergio Garavini l’ho conosciuto alle adunate fasciste: di sabato,dopo le esercitazioni, si andava in piazza Cavour con il saluto al Re e al Duce. Quando sono cresciuto e dovevo passare ad avanguardista avrei dovuto cambiare la divisa, ma i miei non potevano. Eravamo circa 30/40 senza divisa e li conobbi Sergio.
Intervista a Gianni Alasia
Intervistatori: Vittorio Rieser, Sergio Dalmasso, Fabio Dalmasso
Operatore: Claudio Vaccaneo
Gruppo Rifondazione Comunista Torino – 16/11/2006 – Parte 1
Affrontiamo il nodo degli anni ’60 e ’70, di cui Gianni è stato protagonista a Torino e non solo…
Faccio una premessa di carattere generale che è personale e collettiva: io ho avuto la grande fortuna,in quegli anni, di lavorare con un collettivo operaio irripetibile: tutti operai colti che studiavano la fabbrica,la società e andavano a fondo delle cose. Insieme a questi una generazione di intellettuali nuovi che si ponevano dal punto di vista di un rinnovamento profondo:penso al rapporto con gli insegnanti, che passarono dalla rivendicazione di più scuola alla richiesta di scuola diversa; penso ai giuristi, che con noi venivano a fare l’inaugurazione dell’anno forense con una contromanifestazione; penso ai medici,mortificati nella burocrazia del loro lavoro e che rivendicavano una riqualificazione in base alle nuove patologie. Per me è stata una grande fortuna per l’aspetto formativo.
Rieser ha accennato, nella sua lettera,a Pierina:questo mi induce a dire delle cose: io ho avuto la fortuna di stare tutti questi anni con Pierina che è un grande conforto; son passato dalle 76.000 lire della fabbrica alle 34.000 e la cosa ebbe notevoli conseguenze sulla famiglia. L’ho sempre avuta a fianco, anche criticamente: Pierina si iscrisse,per un atteggiamento sdegnato, allo Psiup e poi non si è mai più iscritta a nessun partito. Ogni tanto mi fa da pungolo su cose vere, su cose che semplifica, secondo me, non vivendole, ma anche questioni che io non conosco, ma è stata importante ed è importante nella mia vita. Mi è tornata in mente una cosa molto commovente che Gianni Dolino ha fatto scrivere sulla tomba di Fernex, suo cognato: “La vita è un’idea e una donna: io le ho avute entrambe”. Poi ho avuto tutti voi.
Quali trasformazioni strutturali della città, urbanistiche,modi di vita? Con il compagno Ramazzotti alcuni anni fa scrivemmo una cosa molto bella. Già anni prima mi ero occupato di questi argomenti, grazie anche al nostro collettivo di architettura che erano ragazzi molto preparati, che già allora denunciavano, sulla Fiat, circa l’intreccio tra la rendita e profitto. (Per questo periodo ho cercato la documentazione scritta).
Con Ramazzotti avevamo fatto questa nota dal titolo Torino ieri e oggi; dicevamo:meno verde, più cemento, più asfalto, più sferragliare dimezzi, invasione di auto, orari di vita più scanditi e diversa composizione sociale; i ragazzi non giocano più a pallone, non ci sono più le bande (ogni borgo aveva una banda, il mio due: era un aggregato, una socializzazione); tutti si conoscevano, oggi non conoscono il vicino di casa: pensate alla storia del Borgo San Paolo, il borgo operaio,ai sanpaolini: io oggi abito al Borgo San Paolo e conosco quella che sta al piano terreno, quella sotto e poi vedo della gente su uno scatolone che si chiama ascensore o su uno scatolino che si chiama macchina: c’è questo deperimento di rapporti; la strada è solo più un transito, non una sosta; il dialetto si parla, ormai, pochissimo e mi sono chiesto se fosse un bene o un male: la lingua italiana ha avuto un processo importante di unificazione, soprattutto con l’immigrazione, e oggi emerge un’internazionalizzazione di alcuni termini legati al processo produttivo, ma il dialetto è anche una cultura, una storia, che dev’essere tenuta in conto e recuperata (mia moglie è del Lago Maggiore, nel Museo degli ombrellai, che hanno fatto la fortuna delle pelletterie di Milano e Torino: gli ombrellai giravano tutta l’Europa. Al Museo c’è un glossario degli ombrellai: il Papa lo chiamano el Kaiser del zurla (Kaiser – imperatore, zurla – church = imperatore dei preti); in russo baiet per dire soldato come a Torino); dicevamo ancora che la città non è sentita, non parla ai giovani; scarso interesse alla cosa pubblica; nuovo ruolo delle discoteche come aggregante; i grandi magazzini; in queste nuove periferie riflette chi ha più mezzi e più scuola; le barriere di ieri avevano una forte connotazione sociale e culturale, quelle di più vecchio insediamento attorno alla fabbrica di tipo manchesteriano: penso alla Madonna Chiesa di Salute, il borgo era impregnato dalla Savigliano, dalla Ferriere, dalla Ella Zerboni etc… c’era gente che lavorava lì e poi andava a dormire a pochi passi di lì, era così in tutta Torino, penso alla Mazzonis tessile, San Paolo, Lancia etc… C’era il termine sanpaolini per indicare gli operai colti, gli ordinovisti sono nati, in parte, lì. Bisogna tenere conto di due elementi di fondo: i cambiamenti oggettivi nella struttura della città e della composizione sociale e dei mutamenti soggettivi e culturali, la mentalità dei giovani. Gli orari di lavoro si complicano, spesso si allungano, se uno fa i turni tali che nelle sue ore libere non c’è nessuno in giro cosa fa? Non a caso i maggiori utilizzatori della città, oggi, sono i pensionati.
Psiup, gruppi della sinistra etc… : devo dire, esprimendo una mia opinione abbastanza isolata allora nello Psiup, che quando si è sciolto lo Psiup siamo confluiti nel Pci; secondo me, è stato un grosso errore storico dettato dal fatto che il gruppo dirigente nazionale, e non solo, si è sentito preso dal terrore per non aver eletto un solo deputato: Se noi avessimo fatto un deputato in Sicilia, con la legge elettorale che c’era, ne facevamo 10 o 12: non l’abbiamo fatto quindi disperazione e scioglimento Psiup. Che era una visione abbastanza interna alla logica istituzionale perché non è che non puoi fare politica se non hai deputati: certo, comporta dei limiti,ma forse anche pregi. Quando siamo confluiti nel Pci io mi sono trovato quasi solo ad esprimere certe opinioni qui a Torino, con compagni che stimo (Filippa, Giovana etc…): L’Unità mi fece un’intervista in cui dicevo: “sta di fatto che, la stragrande maggioranza di noi, che aveva una matrice socialista, ha decisamente rifiutato l’ipotesi di tornare nel Partito Socialista. Oggi è nel Pci che noi ribadiamo questa scelta, non ritengo di poterla trovare nel Psi”. Poi (questo l’ho pensato dopo) cosa poteva essere la storia dello Psiup, cioè di una sinistra socialista, non staliniana e non socialdemocratica, quando il Psi è caduto nel craxianesimo ed è stato liquidato anche formalmente: poteva essere una grossa speranza come ruolo politico. Nell’intervista dicevo anche: “Debbo essere onesto con i compagni e con me stesso e dire con franchezza che queste considerazioni sull’articolazione della sinistra mi hanno costretto a meditare a lungo questa scelta anche per il contributo originale che una tale articolazione potrebbe dare all’interno del movimento di classe”. Dopo aver detto tutte queste cose non sto a predicare una cosa che non c’è più, non posso pensare che sbaglino i miei compagni ed abbia ragione solo io. E sono venuto nel Pci.
Torino 5 aprile 1974 – Manifestazione antifascista
Sugli anni ’60 ho fatto una conferenza alla Sorbonne con Marco Revelli e avevamo fatto una comunicazione: in quegli anni c’è uno distacco fortissimo dalla condizione operaia che era mutata e ci fu un fenomeno di forte desindacalizzazione: a Torino, alla Camera del Lavoro, i metalmeccanici crollarono arrivando ad avere meno iscritti del Sindacato Pensionati. Era mutata la composizione operaia: per esempio alla Fiat Mirafiori fra il 1959-1960 e 1963-1964 gli operai di prima categoria, che rappresentarono l’8% dell’intera maestranza, erano scesi allo 6,5%, quelli di seconda al 23% al 16% mentre quelli di terza passavano dal 67% al 73%: era la presenza di una manodopera di origine bracciantile che era giunta a Torino. Quindi un complessivo processo di dequalificazione. In quegli anni gli studenti hanno avuto un ruolo fortissimo di unificazione di queste nuove generazioni: Torino vede immigrare oltre 600.000 e oltre persone, fra Torino e i comuni della cintura: processo molto complicato perché ci furono comuni come Moncalieri, Nichelino, Settimo, Chivasso che raddoppiano la popolazione. Gli studenti stabilirono subito un rapporto con queste barriere e posero anche delle parole d’ordine che suonavano come provocazioni per larga parte del settore del sindacato e anche della sinistra socialista, anche del Psiup: Sclavi era contrario alla rivendicazione di aumenti uguali per tutti, mentre questi ragazzi dicevano: “Ma come, la bocca sotto il naso ce l’abbiamo tutti,aumenti uguali per tutti”. La scuola, che non era più una rivendicazione di “più scuola”,ma di una scuola diversa, di contenuti. Sono convinto che non avremmo avuto l’inserimento nella vita sindacale prima e politica poi dei giovani immigrati se non ci fosse stato questo impegno grosso degli studenti.
Questo processo di ripresa del sindacato era iniziato prima del 1968: era iniziato nel 1962: preparammo milioni di questionari. Volantino alla Sobrero Est che invitava le operaie ad iscriversi a qualunque sindacato. Abbiamo fatto inchiesta sulla condizione operaia (il lavoro di Fernex,intensissimo). Sciopero Fiom alla Fiat febbraio 1962, fallito (meno di 300 lavoratori), successiva polemica e riuscita degli scioperi a luglio e agosto, frutto di un lavoro paziente teso a tessere migliaia di rapporti fra una nuova generazione, e non fu facile.
Furono gli anni in cui si fece un salto di qualità nei contenuti: la scuola; la salute e la prevenzione, con i lavori di Surdo e Tosetto, Musso, operai colti, sulla condizione di nocività che non era più la battaglia di indennità del nocivo, cioè la monetizzazione della salute, ma era la richiesta di rimuovere le cause di nocività, dicendo la salute non me la paga nessun soldo. Non fu una lotta facile (vedi esempio amianto, bicchieri sul tavolo).
Per i lavoratori studenti essere assegnato a un turno compatibile con il corso che avevano scelto significava allora, in termini sindacali, “buona condotta riconosciuta dal capo”, cioè non ti iscrivi alla Fiom, non fai sciopero etc…
Diritti in fabbrica: gli scioperi ci hanno portato dentro, ricordo la manifestazione con Pugno in Mirafiori: prima per noi entrare in fabbrica era violazione del diritto di proprietà. Dal 1946 ad allora non sono mai entrato alla Fiat e sono stato migliaia di volte davanti ai cancelli a dare volantini.
Il salto non fu facile: passaggio dalle commissioni interne ai delegati, un passaggio un po’ complicato, che registra infantilismi (una parte di Lotta Continua e studenti dicevano “siamo tutti delegati”, una dichiarazione demagogica di fuga rispetto a una realtà che andava analizzata); ci furono altri atteggiamenti di semplificazione sbrigativa: rivendicavano scuola diversa,ma anche più scuola, più strumenti, più libri e la risposta degli studenti era “i nostri libri e le nostre lavagne sono i muri” e io ricordavo l’aspirazione nelle famiglie povere di possedere il libro; Vittorio Foa, nella prefazione a “Lavoratori studenti” che abbiamo fatto qui diceva che il libro, anche quando è mistificatorio e bugiardo, lo combatti possedendolo, e non rifiutandolo a priori, questo lo fanno i figli di papà che hanno avuto sempre abbondanza in famiglia.
Rieser: l’azione del sindacato torinese nel campo delle riforme che ha chiuso la tua fase sindacale…
Alasia: Noi abbiamo scoperto, in quegli anni, che se c’era una centralità della fabbrica, elemento trainante, l’uomo però non vive di sola fabbrica, ma anche di condizioni esterne alla fabbrica e abbiamo cercato (riuscendoci in larga misura) di stabilire questo parallelismo tra rivendicazioni in fabbrica e rivendicazioni nella società,delle condizioni di sussistenza e di riproduzione storica della classe operaia. La qualifica in fabbrica è anche scuola, è anche formazione professionale; il salario è anche difesa del potere del salario. Allora avevamo dei collettivi di lavoro: penso al lavoro di Ortona e di Ossola che posero per primi, dopo tanti anni di assenza, il nostro rapporto con i contadini; la differenza di prezzo tra prezzo pagato al contadino e quello finale, con le intermediazioni parassitarie che c’erano. Penso alla questione acutissima per tutti, ma soprattutto per gli immigrati, della casa, dove abitare: stavano in 5, 6, 7 in una stanza attorno a Porta Nuova, nelle soffitte etc… Abbiamo posto questo problema, con il collettivo di architettura facemmo delle proposte e quando la Fiat fece la proposta di fare le baracche Cesare Delpiano rispose solo: “E voi dormite nelle baracche, voi signori?”. Fu una grossa rivendicazione intesa ad associare, intrecciare la rivendicazione di fabbrica con questa rivendicazione di riforme e questo, credo, fu il fatto saliente di Torino. Bisogna dire che c’era anche un’altra interpretazione a livello nazionale che era quella della pattuizione politica a livello nazionale delle confederazioni con il Governo sulle riforme necessarie. Posta così era una requisizione ai vertici di temi generali quando, invece, i problemi avevano una ben diversa complessità.
Rieser: a Torino, questa visione non verticista della lotta per le riforme era unitaria, tra le confederazioni, fatto abbastanza eccezionale.
Cesare Delpiano era pansindacalista: non era iscritto a partiti, riassumeva tutto nel suo ruolo nel sindacato, però aveva questa grande sensibilità; Cesare volle che io andassi alla scuola Cisl a Firenze dove discutemmo dell’autoriduzione delle tariffe dei servizi pubblici. Ha voluto sempre puntare ai contenuti, ai problemi e li ha messi in piedi con i “comitati per problemi”: c’erano giuristi, medici (siamo arrivati a 60/70 medici che lavoravano con noi).Ma questo era l’atteggiamento prevalente della Cisl a Torino che disturbava molto Roma; ricordo con Storti le litigate che abbiamo avuto. E le cose non erano semplici nemmeno per noi, ci furono dei momenti di alta tensione anche a livello confederale Cgil, nell’esecutivo confederale di cui io facevo parte. Un giorno si trattava di votare un testo e tutti votarono la posizione della maggioranza nazionale e io, Garavini, Pugno non abbiamo votato. Novella stava presediendo, guarda e dice: “Chi sono quelli?” e gli hanno detto “Sono quelli di Torino” e lui: “Sono i soliti di Torino”. C’era il microfono acceso, ma lui non s’era accorto.
In quegli anni come sindacalista, ma anche come militante politico, ho avuto molti rapporti internazionali: con l’Unione Sovietica; in Cecoslovacchia,dove ci fu il primo convengo sull’ecologia, molto interessante, e dove, rispetto a tutto il blocco socialista, eravamo solo noi e i comunisti francesi a sostenere la “non delega”, la rimozione del nocivo; rapporti con la Jugoslavia, ad alto livello: ho conosciuto Tito, c’era la polemica tra Rankovic e Kardely sull’atuogestione che era molto interessante; sono stato in Cina: anni di una profondissima trasformazione, perché, finalmente, mangiavano tutti, ma anche di un catechismo impressionante, Mao era il sole rosso che “scalda i nostri cuori”. Ricordo che un giorno Pugno è venuto da me con una rivista cinese stampata in lingua italiana; c’era un racconto: una nave della marina rossa viene bombardata da una cannoniera imperialista e il compagno viene colpito e ha una fuoriuscita del cervello. Con sforzo sovraumano, fra 3.000 congegni, trova il bullone danneggiato. Poi sviene. Lo consola la compagna e dopo tre giorni il compagno riprende i sensi, si tira su e canta: “La marcia dipende dal timoniere”. Era una cosa di una stupidità incredibile. Poi ho avuto rapporti con Cuba, ci sono stato e ho scritto tanto su Cuba e me la porto nel cuore perché ho visto, a differenza di tante altre situazioni, la volontà di capire, di non esprimersi dogmaticamente, di non essere dei libri stampati. Noi abbiamo mosso critiche a Cuba su atteggiamenti burocratici e autoritari. Ma non si può dire che lì c’è la dittatura. Bisogna vedere tutto il processo di trasformazione in una condizione terribile. Mi ha colpito in questi giorni una ripetuta scritta murale dall’aeroporto Marti all’Avana: “Questa notte milioni di bambini in America Latina e nel mondo dormono nella strada (niños de rua). Nessuno è cubano”. Vi pare poco?
Rapporti con l’Algeria, con la Spagna, la Grecia e U.S.A. In circostanze e modalità diverse, a seconda delle vicende dei paesi e delle particolari situazioni economiche: quando succedeva un fatto in America Latina facevi la manifestazione e la protesta, ma non avevi delle condizioni strutturali per esercitare un vero e proprio internazionalismo proletario.
Quella a più alto livello fu la Spagna perché fu di lotta e collaborazione politica e sindacale: a Barcellona avevano circa 80.000 operai che dipendevano da fabbriche di Torino: la Hispano Olivetti, la Seat – Fiat e poi la Pianelli e Traversa, la Michelin, la Pirelli, c’era un rapporto strutturale, molto serio. Era il tentativo, pur in condizioni diverse (siamo andati ancora con il franchismo imperante), anche se era tutto sbrecciato ormai: il rapporto era molto intimo perché facevamo delle piattaforme rivendicative che, pur nelle diverse condizioni sociali, economiche, politiche, avessero qualche affinità; e poi era anche un coordinamento in termini di tempistica delle lotte: se a Barcellona la Hispano Olivetti scioperava , noi, a Ivrea, non facevamo da polmone a quella lavorazione: la solidarietà si esprimeva nell’interrompere la produzione. Fu anche molto vario questo nostro rapporto con la Spagna: siamo partiti dalla fabbrica, ma poi abbiamo investito altri problemi: mandammo una nostra delegazione a Barcellona per approfondire i problemi legati alla scuola (Fiorenzo Alfieri e altri insegnanti) e dopo 3 giorni, alla conclusione, c’erano 3.000 persone che cantavano L’Internazionale a Barcellona: erano 40 anni che non si cantava.
In Unione Sovietica ricordo nel 1957 i primi effetti dei processi destalinizzazione: sono stato a Leningrado in una fabbrica, un calzaturificio, con 10.000 operai; l’abbiamo visitata, ci hanno fatto vedere che avevano fatto il tapis roulant che era un grande innovazione tecnica; operai, che prima facevano operazioni complesse, ora facevano alcuni particolari, quindi una scomposizione della mansione e anche della qualifica; dopo la visita siamo andati in direzione e abbiamo cominciato a discutere e ho chiesto al direttore: “Vorrei sapere questa modifica del processo di lavoro cosa ha significato nella condizione del lavoratore, in termini di qualificazione, dequalificazione,ritmi etc…” e questo mi dice: “Niet compagno, tu non hai capito, qui c’è il socialismo e non ci sono contraddizioni” e io ho detto, visto che si doveva essere anche educati: “Certo, ho capito che tu non sei proprietario, ma vorrei ricordarti che Mao (ai tempi Mao era ancora in auge) scrisse sulla contraddizioni tra governati e governanti e allora torno a fare la domanda etc…” e lui: “Niet, non hai capito”. C’era un compagno operaio che disse: “Credo di aver capito la domanda del compagno italiano: non capisco perché il direttore non vi dice una cosa, cioè che martedì abbiamo al Tribunale del lavoro una vertenza con lui perché lui ha fissato nuovi termini di salario, lavoro, ritmi etc… sui quali noi non siamo assolutamente d’accordo”. Era la ripresa di una dialettica all’interno del socialismo monolitico.
In Cecoslovacchia abbiamo tenuto il primo convengo sull’ecologia, una cosa importante, e ci scontrammo: da una parte noi e i comunisti francesi con tutti gli altri sul concetto di non delega sulle lavorazioni nocive. Questi qui sono giunti persino a mutilare il comunicato (la Cecoslovacchia, ossequiente); un clima di conformismo impressionante: l’interprete era la ragazza di un alto dirigente cecoslovacco e che diceva: “Quando li ho visti arrivare di notte i carri armati sovietici ho detto che mai più avrei portato i piedi qui dentro. Poi sono arrivati, si sono piazzati, hanno fatto gli alberghi, andavi lì, mangiavi caviale e pagavi poco, vuoi che non vada?”, per dire le trasformazioni delle teste. Ci hanno poi tagliato il comunicato sul problema della validazione consensuale del gruppo operaio omogeneo, cioè il diritto e dovere di intervenire; suonava un’enorme provocazione nei confronti dei gruppi politici dirigenti.
Nel 1975 avevo esaurito la lunga fase di presenza alla Camera del Lavoro e avevo esaurito anche un certo ruolo, che era stato quello di mantenere, nell’ambito della concezione unitaria del sindacato, delle forze socialiste, che sarebbero invece state disperse col “sindacato di colore”. Ho quindi chiesto di cambiare mestiere perché stare 15 anni nello stesso posto logora anche. E sono andato via, sono andato all’Istituto Gramsci, negli ultimi mesi del 1974 e in quei mesi ho svolto un intensissimo lavoro per la creazione dell’Istituto Piemontese Antonio Gramsci. Devo dire che è stata bella faticaccia, stimolante perché avevo a che fare con situazioni e provenienze diverse da coinvolgere: Libertini è stato l’anima di quella iniziativa e dei complessi rapporti. Il 4 dicembre 1974 c’è stata l’assemblea per la costituzione formale dell’Istituto, dopo che avevamo tenuto tantissime conversazioni a spiegare cosa fosse questo impianto, cosa fossero le multinazionali…; c’era un docente dubbioso; una settimana dopo scriveva su “La Gazzetta” che bisognava sprovincializzarsi e affrontare il tema della multinazionale! Avevamo 80 docenti universitari torinesi che avevano aderito, l’adesione formale della Cgil e della Cisl, i segretari Pace e Delpiano; io sono nominato segretario mentre la presidenza è formata da Bobbio, Napoleoni, Spriano, Libertini e Pace. Con questa composizione,in teoria, ci pareva possibile perseguire il nostro proposito che era un proposito di fondare l’Istituto soprattutto in termini di ricerca e di incontro e di fusione fra cultura accademica e cultura militante, condizione operaia. Era un grande disegno. Ma poi di lì in avanti abbiamo avuto diverse difficoltà: il 4 dicembre abbiamo istituito ufficialmente l’Istituto, fatto il comunicati etc… Il 6 dicembre, alle 3 di notte, mi telefona Minucci, segretario del Pci, e mi dice: “Ma tu hai parlato con Napolitano?” e io: “Ma io devo parlare con Napolitano? Io non lo conosco quasi…”. Cito quel che ho scritto nel mio diario allora: “In questo incredibile mondo che noi siamo, stasera alle 3 di notte mi telefona Minucci dicendo che l’Istituto Gramsci non può definirsi istituto, ma centro, data la sua autonomia rispetto all’Istituto nazionale, questo dopo quando abbiamo lavorato in queste settimane. Non faccio mai questioni terminologiche, ma questa è una vicenda incredibile. Quasi che non ne avessimo parlato e ora, avviata l’informazione pubblica con comunicati – oltretutto Minucci mi ha detto che è andato La Stampa a ritirare il mio comunicato; ma come si permette? Dopo mesi che spiegavo che avevamo l’autonomia di ricerca etc… – oltretutto Minucci era ben informato, ha visto e partecipato a stendere la bozza di statuto – mi aveva scritto lui Istituto di ricerca Antonio Gramsci”. Allora Libertini e io abbiamo preso nota di quella posizione e abbiamo annunciato che volevamo dimetterci perché una cosa così non si fa. Il giorno dopo mi telefona e mi dice: “E’ tutto risolto, si torna da capo,per carità non date le dimissioni”. Preoccupava perché evidenziava dei metodi differenti di politica e metodologica non di poco conto.
Abbiamo fatto, credo, un lavoro preziosissimo: nel maggio 1975 io facevo questo bilancio: “La costruzione delle strutture delle tre sezioni ha superato la sua fase iniziale ed è giunta ai primi abbozzi programmatici e a enucleare i primi gruppo operativi,ma si presentano molto differenti: la prima sezione, Organizzazione del lavoro si appresta a far decollare il proprio lavoro. La seconda sezione, Multinazionali, è la più capace di iniziativa autonoma – avevamo fatto un convegno qui, sempre con gli spagnoli, sulla Seat – la terza sezione, Storia del Piemonte, si trova con delicati problemi politici e valutazioni controverse. Due testi di progetti: Castronovo da una parte e Bravo dall’altra. Per quanto riguarda la presidenza essa è inesistente come organismo operante collegiale, non è mai riuscita a riunirsi collegialmente” quindi immaginate la fatica.
Ho svolto quel lavoro fino al convegno dell’11 aprile sull’economia torinese dove portammo rappresentanze di tutti i settori: sindacali, imprenditoriali etc… Libertini ha svolto una relazione, Avonto¸della Cisl, quella sindacale; era presente l’Unione Industriale, Giovanni e Umberto Agnelli. Valutazione diverse: abbiamo prodotto 30 comunicazioni scritte diverse nei settori diversi. Valutazione generale positiva, qualche polemica: Pugno giudica severamente la relazione di Libertini e la definisce tecnocratica non avendo accennato al problema “attacco all’occupazione”. Quel lavoro che abbiamo fatto come Istituto servirà molto di base al lavoro della Giunta Regionale che verrà eletta.
Intervista a Gianni Alasia
Intervistatori: Vittorio Rieser, Sergio Dalmasso, Fabio Dalmasso
Operatore: Claudio Vaccaneo
Gruppo Rifondazione Comunista Torino – 16/11/2006 – Parte 2
Sono diventato Assessore nel 1976 dopo alcuni mesi di già avviata Giunta Regionale di sinistra, nel 1975 ero diventato consigliere.
Quella era una fase costituente delle Regioni, anche se era già stato approvato lo Statuto nella precedente legislatura, ma mancavano tutti i decreti delegati del Presidente della Repubblica alle Regioni. Eravamo in una fase ancora molto informale: divento Assessore al lavoro, all’industria, all’artigianato e alla formazione professionale: è stata l’esperienza sicuramente più dura della mia vita. Molto importante formativamente, ho imparato tante cose, ma è stata la più dura: il portinaio della Regione diceva che dovevo solo più portare una branda per dormire, mi fermavo le sere, le notti. Ho seguito 830 stabilimenti in quegli anni, situazioni di crisi, abbiamo avuto in quegli anni il più alto numero di ore di cassa integrazione dalla Liberazione: era una crisi molto complessa con la caduta di interi settori produttivi, come la siderurgia, il cartaio, l’auto e tutto quello che era collegato all’auto. Tutto questo quando la Regione non aveva deleghe primarie per la politica industriale e non le ha ancora, giustamente: la politica industriale non la circoscrivi all’ambito regionale.
Allora c’era una legge, la 464, per dare i soldi per la ristrutturazione, che prevedeva che tutto avvenisse in ambito interregionale, con tutti gli assessori. E così facevamo ed era anche interessante: Donat Cattin riuniva noi, regioni, e i sindacati, con la pila di fogli con le richieste di soldi e poi chiedeva il nostro parere e avevamo la possibilità di bloccare gli interventi, almeno temporaneamente.
Io ho seguito queste vertenze,complicate e dolorose: quella sulla Venchi Unica durarono 7 anni; avevo in testa solo il problema di difendere quelle 2.000 operaie che non avevano lavoro… ricordo che per la Venchi Unica vennero 17 gruppi finanziari per acquistarla… cercavo di mettere assieme industriali e richieste sindacali in un ambito in cui non avevo alcun mandato di farlo, ma non avevo anche nessun mandato di non farlo: fu una fase molto difficile.
Malgrado queste difficoltà e avvalendomi di alcuni strumenti che avevo, come la formazione professionale per il passaggio da una lavorazione all’altra era un pezzo, uno strumento per poter intervenire. Credo di aver firmato in Regione con i sindacati e con i padroni 80-100 accordi, che non è una piccola cosa. Mi servivo del parere sul credito agevolato, ma le cose erano complicatissime: il Governo aveva stabilito dei parametri per individuare le aree “non sufficientemente sviluppate al Nord” e quando siamo andati io e Simonelli a determinare queste aree, in base ai parametri stabiliti dal Governo, abbiamo fatto la grande scoperta che la zona più depressa era la punta del Monviso perché non ci andavano nemmeno le capre.
Avevo anche l’artigianato che mi dispiace che sia sempre dimenticato e negletto ancora oggi: ancora oggi in Rifondazione insisto sempre su questo aspetto; sono 134.000 aziende con 380.000 dipendenti, a volte del nucleo famigliare, a volte apprendisti. E’ un settore importante. Io sono intervenuto facendo la prima legge di sostegno all’artigianato in Piemonte che ha accolto il 94% delle richieste degli artigiani. Sull’artigianato avevamo la delega e i poteri. Avevo un comitato di artigiani che valutava le richieste,ma, ovviamente, loro tiravano a far passare tutte le richieste: a volte ho trovato artigiani che presentavano domanda per rifare il laboratorio che stava sotto la villa e che non si poteva finanziare.
Furono gli anni dei più clamorosi fallimenti di aziende: crisi complessa, fatta non solo di cadute di interi settori, ma anche di ristrutturazione, di ricomposizione ad altri livelli. Dal gennaio all’agosto 1975 calano rispettivamente all’anno precedente del 25,49% le unità avviate al lavoro e del 37,3% rispetto al 1973; nel giugno 1975 il Piemonte registra un incremento del 35,6% degli iscritti alle liste di collocamento; i fallimenti nel 1976 il 18% in più.
Tra i vari casi che hai seguito, come la Venchi Unica, ce ne sono altri in cui ci fu un esito positivo?
Ricordo che ci fu la legge della Tina Anselmi sull’occupazione giovanile dando i contributi: siamo la Regione che la gestì nel modo migliore, accogliendo decine di richiesto, purtroppo quasi tutti nel settore pubblico. Ma anche nel privato: convocavo i padroni e anche Giovanni Agnelli a cui chiesi cosa poteva fare la Fiat con questa legge e rispose: “Ci devo pensare”… qualche mese dopo ci diede 10.000 licenziamenti. Per questi 10.000 (nell’80) abbiamo chiesto una mobilità da – a, conoscendo quando iniziava, ma non a quando finiva. Dovevamo fare la formazione professionale, ma conoscendo solo il lavoro e la qualifica che hanno e non che lavoro e la qualifica che sarebbero andati a ricoprire era difficile. Dovetti andare subito a Bruxelles da Giolitti per farci dare i soldi per la formazione professionale: m’han dato 10 fogli; intestare il primo col mio nome e qualifica, lasciare in bianco gli altri e chiedere 10 miliardi per la formazione. Una prenotazione, come la chiamava Giolitti. I funzionari mi dissero: “Cos’è questa roba?”. Risposi come mi avevano consigliato a Roma: “Una prenotazione”. Mi risposero: “… non lo dica…”. “Formazione open” “aperta”. Aperta per che cosa?
1976: massimo storico del Pci con 33,4%, difficoltà nuova sinistra, gruppi si dividono, giovani e critica, difficoltà del Pci…
Mi sono scontrato con Chiaromonte perché aveva una visione tecnocratica perché noi gestivamo queste cose cogliendo gli stimoli, le spinte, i movimenti. Scontri ne abbiamo avuti anche qui, soprattutto quando le situazioni toccavano casi particolari: ad esempio con le consultazioni al Ministero, nella commissione interregionale, noi volevamo fare una politica di investimenti al Sud (venivo da un sindacato che aveva fatto scioperi non chiedendo soldi ma investimenti al Sud); mi arrivò una richiesta di una fabbrica di Salerno, la Pennitalia, con stabilimenti a Frosinone, Salerno; la richiesta era quella di non sostenere la costruzione dello stabilimento a Peveragno, mentre c’era la richiesta di chiudere una parte dello stabilimento di Salerno. Andai dal Sindaco di Salerno e difesi lo stabilimento di Salerno e dissi di non fare quello di Peveragno perché a Peveragno, e poi attorno alla Michelin, c’erano operai che lavoravano in fabbrica e poi guadagnavano anche con la vendita delle fragole. Quindi, in base a questa visione dell’Italia in generale,e non campanilistica, sono andato a dire di no, facendo anche una delibera che andò a Roma e fece fare bella figura a Viglione davanti al Governo, nonostante lui fosse inizialmente contrario e mi avesse accusato di boicottare Peveragno. La Democrazia Cristiana aveva polemizzato molto su questo, ero andato anche dal Vescovo di Mondovì spiegandogli la questione e la solidarietà e ho trovato più accoglienza dal Vescovo che non dalla Democrazia Cristiana. C’erano situazioni non facile, avevi a che fare con gente che aveva la testa solo nelle istituzioni.
Sono Assessore fino 1980, poi continuo a fare il Consigliere Regionale e poi faccio l’Istituto Gramsci. Lascio l’assessorato con mia grande liberazione perché c’era da diventare matti. Assessori con me Rivalta, Simonelli… presidente, dopo Viglione, è stato un altro socialista Enrietti.
Vengo eletto deputato nel 1983 e rimango fino al 1987: un’esperienza per certi aspetti molto bella e per certi aspetti deprimente. Ricordo che mi dissero: “Gianni, devi capire una cosa, hai un alto stipendio, il treno e l’aereo gratis, la mensa, il cinema e il teatro gratis: tu non rompere a nessuno e te ne stai lì” che è una filosofia che non si confà con il mio temperamento.
Ho parlato 7 volte in aula: credo di aver fatto bene, ho parlato quando abbiamo fatto l’ostruzionismo per la scala mobile. Mi sono accorto che o sei uno dei 50 che tirano le fila oppure ha un senso fare il deputato se hai un cordone ombelicale che ti lega con la gente e i problemi del tuo posto: non sono mai tornato da Roma senza prima passare in Federazione. Puoi fare delle cose bene, ma c’erano anche delle sceneggiate incredibili. Ricordo che avevo circa 800 stabilimenti in Piemonte privi di copertura di cassa integrazione: gente che aspettava da 6/7 mesi i soldi; un giorno ero stufo, salgo in tribuna, vado dalla Iotti per sottolineare questa questione: mi consigliò di chiedere la parola e parlare in aula. Allora ho chiesto la parola e ho iniziato a spiegare la situazione: se avessi detto qualsiasi cosa sarebbe stato uguale, nessuno se ne accorgeva, avevano tutti da fare altre cose. Dopo un minuto mi sono detto che aveva ragione Pannella e mi sono messo a fare la sceneggiata e a urlare, altri deputati hanno colto il problema, presente anche nelle loro regioni, e mi hanno appoggiato. Così si è proseguito e si è intervenuti.
I motivi principali furono quelli legati al mondo del lavoro, come la legge per la riconversione e ristrutturazione, legge di finanziamento gestita dal Ministero del Lavoro, rapporto con situazioni periferiche e credo di aver fatto bene il mio lavoro.
Intervista a Gianni Alasia
Intervistatori: Vittorio Rieser, Sergio Dalmasso, Fabio Dalmasso
Operatore: Claudio Vaccaneo
Gruppo Rifondazione Comunista Torino – 23/11/2006
Questa cosa è di attualità ed è indicativa della formazione culturale, politica e umana che io ho avuto: penso che nel più lungo tempo spesso, ma non sempre, le cose cambino in positivo, talvolta con le lotte, le nuove conquiste e le nuove acquisizioni culturali, talaltra anche per opportunismo. L’altro giorno ho visto alla tv che il Presidente della Repubblica è stato ricevuto in Vaticano dalla Guardia Svizzera che suonava l’Inno di Mameli: dico che va benissimo, meglio oggi che ieri quando nell’800 il Vaticano definiva quell’Inno blasfemo e scomunicato. Vorrei però che non si dimenticasse (come disse Croce che “la storia è sempre contemporanea”) che quell’Inno fu musicato e cantato per la prima volta qui a Torino, in una via che oggi si chiama XX Settembre e al primo piano fu musicato e cantato da quei giovani generosi che la cantarono la prima volta e furono poi tutti massacrati dai papalini. E’ troppo chiedere che si ricordi anche questo? Disturba? Io credo che la storia vada fatta tutta.
La trasformazione politica e antropologica del Pci: come tutte le profonde trasformazioni politiche che coinvolgono un corpo molto complesso che ha una grande storia, ha un grande accumulo di forze, da parti diverse, tante generazioni diverse, queste trasformazioni si fanno con dosi omeopatiche, con avanti e indietro, con dire e disdire. Al momento del passaggio dal Pci al Pds, nel 1991, congresso di Rimini nel febbraio del 1991, Occhetto dichiarerà: “Io sarò sempre comunista, manterrò falce e martello nel simbolo”; poi farà la “cosa uno”, poi la “cosa due”, poi, poco più tardi dirà: “Il comunismo ha tradito i lavoratori”, poi toglierà la falce e il martello e metterà il garofano: fatti simbolici che comportavano però anche un profondo mutamento antropologico e politico nel partito. E l’ha fatto a gradi: se lo avesse fatto repentinamente altre sarebbero state le conseguenze.
Quelli furono anni molto laceranti, politicamente, ma anche per quanto riguarda i rapporti umani: si formavano e si scioglievano agglomerati, correnti, sottocorrenti etc… Ingrao che fu durissimo critico dello scioglimento, resterà nei Ds dicendo: “Amo stare nel gorgo”; più tardi entrerà in Rifondazione. Sergio Garavini sarà il primo coordinatore del movimento che rifiuterà di entrare nei Ds perché non è che noi siamo usciti: il Pci è stato sciolto, siamo stati frantumati tutti. Tanti compagni andranno dispersi, frantumati nell’amarezza e nel rancore, penso alle vecchie generazioni. Non ci furono soltanto dissensi politici, ma scoppiarono le profonde differenze di metodo, di stile e persino di morale. Sgarberie, preclusioni. Io, che conservo nel mio archivio tutti i numeri de “L’Unità” del periodo clandestino dal giugno del 1944 all’aprile del 1945, e che ho consegnato all’Istituto Storico, in quel mutato clima, per farmi pubblicare una breve precisazione su “L’Unità”, dovette intervenire il mio amico cattolico Gian Giacomo Migone che disse che si doveva pubblicare: contavano più gli esterni al partito( c’era addirittura la componente esterna) che non gli iscritti al partito, i club etc…
Il mio caro compagno Bertinotti, con il quale aveva condiviso tante battaglie per la democrazia diretta, la partecipazione di massa etc… restò nei Ds allora: solo qualche tempo dopo mi scrisse dicendo: “so che mi rimproveri di credere di poter ancora cambiare qualcosa nel Pds… non posso darti tutti i torti”. Io gliel’ho ricordato durante un’assemblea… di lì a poco tempo entrerà in Rifondazione con mia grande gioia.
Questo per dire della magmatica situazione che c’era nel partito: le disinvolture furono impressionanti e su problemi di fondo.
Difficile dire su queste esitazioni di Fausto che erano state anche quelle del passaggio dal Psi al Psiup.
Probabile che lui sentisse davanti a vicende travolgenti più di noi il bisogno di una riflessione più meditata, di una decisione non precipitata. Ma noi non siamo usciti dal Pci. Il Pci è uscito da tutti noi, cioè è stato sciolto. Io non ho nulla da rimproverarmi davanti a quella nostra scelta. Anzi la considero giusta e non rinviabile. Ci sono momenti negli sviluppi politici che devi decidere, oggi e qui. Se non l’avessimo fatto? Oggi il quadro politico sarebbe ben diverso. Fu una scelta coraggiosa anche in quel che v’era di minoritarismo.
Diceva una vecchia preghiera: “Mandaci o Dio dei folli, quelli che aprono le strade che poi i savi percorreranno.” Oggi “folli” e “savi” non ci sarebbero. Pur con tutti i suoi limiti non ci sarebbe una sinistra alternativa.
Scrissi a Occhetto, quando diventò segretario generale del Pci, sul problema del finanziamento pubblico alle imprese che mi aveva tanto impegnato come sindacalista e poi come Assessore Regionale e come deputato, trovando tanta sordità nel partito. Facemmo una proposta a Natta per la ricerca su questo; Craxi, Presidente del Consiglio, quando venne a Torino, parlò di questo e, in un momento di sincerità disse: “Abbiamo dato tanti soldi alle imprese che equivale e supera lo sbilancio del bilancio dello Stato”. Scrissi a Occhetto dicendo: “ E’ un questione grossa, sei diventato segretario del partito: vedi di seguirla” e in questa lettera dicevo: “Spero di non passare per fissato”. Occhetto mi risponde il 3 settembre 1988: “Caro Alasia, scusa il ritardo con cui rispondo alla tua lettera del 27 giugno, ma come puoi capire gli impegni di questi mesi sono stati e sono veramente tanti. Ti ringrazio della documentazione che mi hai inviato sul tema dei finanziamenti pubblici alle imprese e sulla relativa proposta di legge. Vedrai che l’intreccio Stato – imprese, Governo – imperi finanziari sarà uno dei nodi che dovremo affrontare e sciogliere anche in vista delle nostre concrete proposte in preparazione e a conclusione del Congresso. Non ti stancare di continuare in questo tuo impegno e non temere di essere considerato “fissato”. Spero avremo l’occasione di approfondire direttamente l’argomento. Con i più cordiali saluti, Achille Occhetto”. Io non ho più saputo nulla di questo suo impegno, ma un giorno tenemmo il convegno torinese sulla Fiat al cinema di via Madama Cristina e Occhetto, in quel convengo, affermò: “La ristrutturazione è stata fatta senza lo Stato”. Io ho avuto un sussulto, son salito sul palco e gli ho mostrato la lettera che mi aveva mandato e dissi: “E’ stata fatta senza Governo, non senza lo Stato, perché lo Stato di soldi ne ha messi molti, ma politica nessuna”, e lui, segretario generale del Partito Comunista, disse: “Si, hai ragione, ma sai perché l’ho detto? Perché me l’ha fatto dire Pietro Ingrao” che era una bella baggianata perché il segretario del partito elabora le cose e poi sente le opinioni di tutti e poi non era vero perché Ingrao era presidente da 20 anni di quel comitato che si chiamava Economia e Stato e sapeva benissimo queste cose, meglio di me e meglio di lui.
Quando Occhetto propose il cambiamento del nome del partito io mi trovavo in Federazione e i giornalisti mi chiesero cosa ne pensassi: in quei giorni la tv trasmetteva i Promessi Sposi e mi è venuto di dire che, con i miei trascorsi non facevo mai questioni nominalistiche ma di contenuto e dissi: “Posso anche chiamarmi Carneade, purché mi diciate chi è costui”, ma siccome nessuno me lo diceva io ho continuato a chiamarmi comunista e ho capito che il riferimento a quel nome assumeva una valenza politica.
Il 15 febbraio 1990 si apre il Congresso Provinciale del Partito e io ho steso allora questa nota: “Una povera e raffazzonata relazione del segretario Giorgio Ardito. Non una sola parola sull’economia e sul sociale a Torino! Se parlasse Malagodi direbbe qualcosa! L’unico accenno è al progetto “trasparenza, bilanci – finanziamenti pubblici” da me curato e realizzato e da Ardito richiamato in termini generici e non attuali. Girando fra i delegati della Mozione Uno [di cui Ardito era segretario] sono diffusissime le critiche a questa relazione di tutti i sindacalisti, molti compagni di Sezione ed Enti. Ma il fatto resta.
Illustrazione delle Mozioni: Reiclin parla per la Uno. Bene. Minucci per la Due. Molto bene. Cossutta per la tre. Abbiamo tenuto una breve riunione della nostra Mozione per aspetti congressuali. Ho colto l’occasione per dire che dobbiamo pure fare una certa riflessione sul modo di lavorare. Anche se la Sestero si sente un po’ toccata. Ma io non mi riferivo al suo indiscusso impegno personale, ma al nostro disordine e debolezza politica complessiva”.
Il 16 febbraio nel pomeriggio, Congresso: “Non c’è un grande interesse. C’è un’aria di scontato. Abbiamo tenuto il nostro coordinamento di Mozione per l’elezione del Federale (candidati) e delegati al Congresso Nazionale, ne avremo 6 o 7. Questo punto è complicato: difficile equilibrare fra criteri politici e funzionali. – (notate bene come poi le cose ritornano) – scrivevo allora – c’è la grana “Rizzo” che vuol essere delegato per il “suo gruppo”. Ma il “suo” gruppo, come tutti i gruppi, dovrebbe essersi dissolto nella Mozione. Altrimenti quale logica si apre? Poi che esistano varie “motivazioni” e “tendenze” è un’altra cosa, ma dà un grande fastidio questo sgambettare. Oggi ho incrociato Fassino della segreteria nazionale. Così, necessariamente abbiamo dovuto scambiare quattro parole e al suo convenzionale “Come va?” ho risposto: “Basta leggere la relazione Ardito per sapere come va”. Ha allargato le braccia sconsolato, dandomi ragione e dicendo che ormai lui non è “il più indicato per parlare di Torino”. Ma forse non si chiede perché?”.
16 ottobre: “Un’orgia di cosacce. Sui giornali, nei colloqui. Ora Occhetto governa il partito al suon di sortite pubblicitarie. Che qualche migliaia di persone che son state a scuola si dilettino di queste cose… Partito trasformato in marketing…”.
19 settembre 1990: “Compio un ennesimo tentativo per rimettere sui piedi l’analisi che dovrebbe fare il Partito per il “programma” [coordinato da Bassolino]. Discuto col compagno Valtz per la Fiat. Questo bravo compagno che è della Mozione Uno non mi nasconde l’amarezza, condivide i miei rilievi circa il ritorno alle “formule” e ai “gesti” dopo l’uscita della bozza di programma che aveva fatto sperare molti di noi in un ritorno a un confronto serio. Mi invita in questo senso a fare una lettera al Comitato Federale, cosa che faccio subito”.
Il 5 ottobre annoto questo: “Prima della riunione di direzione io e Valtz parliamo con Giovanni Ferrero [della segreteria, ingegnere, colto] della nostra richiesta per le iniziative sul programma. Naturalmente rilevo che il passare del tempo, oltre al deteriorarsi del clima interno,indebolisce tutta la nostra questione. Poi quando Ardito spiega la cosa in Direzione il tutto è ridimensionato. Così le scatole cinesi continuano. Me ne vengo via indignato. Forse, in quel clima, sembriamo dei marziani a parlare di programma”,
Il 31 gennaio 1991 si apre il Congresso a Rimini, mi appunto: “Tutti titolano al freddo sul Congresso di Rimini: “Né funerali né parto” dice il Manifesto; “Battesimo senza festa” dice La Stampa; “Troppo avventurismo in questi capi” dice Luporini. Tutto azzeccato. Parlo con Andrea Filippa per capire noi dove andiamo a parare”.
Sabato 2 febbraio segno: “L’intervento di Garavini che con qualche timida cautela preannuncia il rifiuto ad entrare nel Pds. Forse in quella sala ha poco seguito. Fuori, nel paese, molto di più ed è la cosa che preoccupa il gruppo dirigente già mal messo in varie direzioni: sinistra, destra, miglioristi, esterni… l’unica cosa che veramente li preoccupa è perdere voti. Il “partito” non li preoccupa. Non potevano sfasciarlo più di così”.
Il 4 febbraio: “Stasera notizia bomba: al nuovo Consiglio nazionale del Pds Occhetto è bocciato. Non riscuote il numero necessario di voti per essere eletto segretario. Ogni carnevale finisce in buffonata. Lo scompiglio è grande, i soliti Fassino dell’apparato s’affannano a spiegarlo come incidente tecnico, di percorso”.
Nella base che discussione c’era?
Nella base c’era un grande scoramento,ma anche una situazione ormai decotta: era una vecchia base, da una parte, di formazione stalinista, ma erano bravi compagni, il loro modo di essere stalinisti era il partito di lotta etc…; e c’era un grande scoramento, infatti tantissimi se ne sono andati. Poi c’era l’altra parte, quelli che erano venuti con le lotte dei ’60, i giovani che in maggioranza han colto questo fatto, infatti una parte rimase e una parte è venuta con noi.
Il film di Nanni Moretti, “La cosa”, secondo te corrispondeva alla realtà? C’era anche un pezzo su una sezione torinese…
Si, c’era un’intervista con la Emanuel: quella era una fabbrica che durante tutto il ventennio fascista ha mantenuto la cellula comunista al suo interno, sono riusciti a tenerla e a tenere la sezione del “Soccorso Rosso”. Questo compagno stupendo, Gnocchi, non è entrato dei Ds. Non è entrato nemmeno con noi, anche se sentimentalmente era con noi. Quadro operaio di lunga data etc… di una fabbrica significativa.
Metà del partito non si iscrive: il Pds arriva a 600.000, Rifondazione 100.000 circa…
Loro avevano il volano, che è una cosa grossa, di essere maggioritari, di avere il partito in mano, di avere tutti i circoli, funzionari, cooperative… quando abbiamo fondato Rifondazione sono finito in una sezione Ds, che per fortuna mi ospitava: ero in un angolo, non avevo nemmeno una scrivania, ma un tavolino della macchina da scrivere, ma senza macchina da scrivere, ho cominciato di lì. La struttura conta, l’eredità e il volano finanziario contano.
Alle elezioni regionali del 1995, io ero candidato, abbiamo raggiunto in Piemonte il 9% e 4 eletti: mai avuti tanti voti. Il gruppo di Annarosa Gallesio, cattolica, che ha lavorato con me nel periodo clandestino, non sapeva cosa fare, ex Dc, e hanno indicazione di votare per me in tutta l’Ossola. Venne in federazione quel bravo GL, critico di cinema, erano tutti ragazzi (Riesier, Lattes etc…) e disse: “Son venuto qui solo per dirvi che mi fa piacere vedere tanti giovani che sanno uscire dalla merda”.
Noi non ci siamo costituiti partito, ma movimento per avere questa spazio, pensavamo a tutti gli smarriti etc… io sono stato primo coordinatore provinciale e in quelle prime settimane abbiamo un travaglio perché c’era qualche atteggiamento forte del partito, molto politicistico e anche molto rinserrato nei vecchi schemi staliniani. Ricordo che c’era una corrente qui a Torino, un gruppetto poi confluito con Cossutta, che un compagno definì “rosso – bruni”, cioè quelli che poi Hitler aveva fatto sterminare perché avevano istanze sociali etc… ed erano però pilotati da un altro che era uno dei capi del servizio d’ordine di Lotta Continua, che invece era proprio un cinico, un SS.
Poi c’erano gli incerti: la Sestero, per esempio, con tutto il gruppo, poi Eleonora Artesio. Dopo 4/5 mesi ho avuto una riunione con questo gruppo dicendo subito che non avrei fatto assolutamente la differenza tra chi arriva prima e chi arriva dopo, mentre certi stalinisti questa differenza la facevano. Siccome abbiamo detto che siamo figli di grandi lotte, di una grande storia, di una grande sconfitta storica, anche, con provenienze anche tanto diverse , non c’è chi arriva prima o dopo: è un processo dialettico, dobbiamo crederci. Diffidenza anche verso Democrazia Proletaria: sono andato al loro Congresso, con Paolo Ferrero (che mi ospitava sulla loro rivista) e si erano ridotti allo 0,90% o giù di lì.… era una baraonda il loro congresso di confluenza con noi: l’abbiamo fatto nei locali dell’ex manicomio di Collegno… erano quadri, gente qualificata, come Paolo Ferrero, Pellegrinelli, Laganà, Nevio Perna…
Ricordo in questo caso – magma il primo grande comizio di Cossutta al Teatro Alfieri, grande entusiasmo.
Era l’entusiasmo di chi voleva una rivincita, di chi sentiva defraudato di una parte della propria storia, del nome, però eravamo in quelle dimensioni lì. Il massimo risultato elettorale è stato con il 13%, io candidato, quando abbiamo preso i voti di Novelli come lista. Era una situazione strana: Novelli non dove parlare al di là delle scadenze etc…ho dovuto presentarlo al nostro festival come un amico e compagno, nostro capolista, di cui non posso fare il nome, ma tutti lo conoscevano.
Conflitto Garavini – Cossutta su chi dovesse fare il comizio…
Quando abbiamo fatto le elezioni amministrative, con quel buon 13%, Cossutta mi telefona da Roma e mi dice: “Bravo, un bel risultato, son contento, c’è Sergio, parlagli” e mi passa Garavini che dice:”Risultato precario”. Ma cosa c’è di più precario della vita politica? Lui aveva, fin dall’inizio, l’esigenza di fare fuori questo gruppo cossuttiano di cui dava un giudizio politico severo e un giudizio morale severissimo. Mi ha stupito che quando non è più rientrato in Rifondazione la prima cosa che ha fatto è stata un’assemblea per l’unità della sinistra tranquillo con Cossutta a fianco… non si parlavano più… come è successo con Fausto, erano allo stesso piano del palazzo…
Sono coordinatore fino al 1992 e poi il primo segretario provinciale diventa Marco Rizzo.
Quando ci siamo costituiti come Rifondazione eravamo la confluenza di vari segmenti: ex comunisti, ex socialisti di sinistra, ex trotskyisti, ex Dp, ma poi c’erano delle differenze anche tra di noi: tra un comunista di estrazione sindacale che si era affinato una certa sensibilità rispetto ai problemi nuovi, rispetto alle generazioni nuove e un comunista di estrazione di partito che aveva sempre fatto il lavoro di partito o, addirittura, amministrativo c’erano delle sensibilità diversissime, notevoli. Noi ci siamo chiamati movimento, eravamo un processo dialettico che nel camminare della sua evoluzione, della sua storia immediata doveva superare queste tradizionali difficoltà ed è quello che io credo ancora oggi sulle correnti. Oggi credo che si debba prendere atto che questo disegno non è riuscito: non solo non è riuscito, non solo ci portiamo addosso tutte le tradizionali correnti, compresa un pezzo di trotzkysti, perché una parte è uscita… che non abbiamo dedicato almeno mezz’ora a discutere di questo fenomeno è anche un sintomo grave: quando escono i compagni è doloroso ma bisogna discutere anche perché… tra l’altro, a Torino, è uscito anche il responsabile della Commissione Internazionale, Bisceglie, che ha lavorato molto bene: non una parola… sono rispuntate dunque le tradizionali correnti, con l’aspetto peggiore del correntismo che, torno a dire, non è la differenza di opinioni, ma è il cristallizzarsi di opinioni e poi diventa una logica per cui giudichi i compagni in base alla corrente a cui appartengono e non in base alle cose che sostengono. Ma a queste se ne sono aggiunte altre, a volte indecifrabili, come il prevalente gruppo nazionale dirigente, che è persin difficile capirlo.
Nel gennaio 1999 concludevo uno scritto che avevo fatto dal titolo “Partito amato, amaro partito” con un’affettuosissima prefazione di Bertinotti, dove scrivevo questo nel poscritto: “Mi fermo qui giacché non posso raccontare di processi che stanno venendo, di problemi che solo il domani saprà dire come sapremo affrontarli. La mia è una testimonianza e le testimonianze sono sul passato e sul presente. Non sul futuro. Rifondazione Comunista ha una grande responsabilità: quella di respingere l’assuefazione, l’adattamento passivo ai processi in atto quasi fossero ineluttabili e portassero un solo possibile segno politico – sociale. Rifondazione dovrà saper dire a milioni di italiani come concretamente si delinea una società diversa, solidale e, progressista, come esistano altri valori diversi dal profitto e dall’individualismo. Rifondazione non ha alcun atteggiamento esclusivista: sa che in questa battaglia ci sono altre forze, altre ispirazioni culturali, etiche e religiose. Si delineano percorsi comuni. Come è stato detto non siamo all’ultima spiaggia della storia. Spero che questa mia carrellata su oltre mezzo secolo sia intesa come ottimismo della volontà anche là ove ho rivelato le infinite amarezze della politica. Anzi, come scriveva Nazim Hikmet, “Je suis engagé”. Forse, l’altra faccia, il pessimismo, è l’eterna tormentata ricerca degli uomini sulle strade da percorrere. Ma, senza forse,talune amarezze potrebbero essere evitate. Sento il dovere di testimoniare. Forse potrà aiutare qualcuno. Sofocle,nell’Antigone ci ricordava che “molte sono le cose terribili (o eccellenti) ma nessuno è più terribile (o eccellente) dell’uomo. Non ho certo avuto la pretesa di fare storia. Presumo però che qualche pagina di vita vissuta possa aiutare lo storico nel suo razionale lavoro.
Oggi aggiungo questo, che la mia vicenda umana, politica, il mio formarsi nel tempo non mi consente di mettermi sotto un albero a riposare. Ripeto quello che scrivevo nel 1999, “Je suis engagé”. So quanto la vita politica e di partito è amara. So anche che il partito ti mette in una condizione importante, in rapporto con gli altri, ti mette in costante confronto e ti toglie la sicurezza, la presunzione, di aver sempre ragione tu. Ma forse ti toglie anche cose positive: penso alla vita civile, personale, umana, famigliare etc… Mi sono chiesto se si può esprimere valori comunisti, e me lo chiedo tutt’ora, anche fuori di una struttura di partito. Credo di poter rispondere di si,ma non vorrei diventare un rancoroso vecchio che, staccato da ogni problema, sentenzia quotidianamente. In questo momento, e sin che le forse me lo consentiranno, non farò l’appartato. Spero solo di non ingannare nessuno e di non disturbare nessuno.
Sul Gramsci: ho già ricordato l’ambizioso progetto con cui l’avevamo fondato, Libertini e io: 4 punti, le tre commissioni etc… ed era quello di essere un confronto dialettico tra cultura operaia, del lavoro, e cultura accademica. Pur con un esordio brillante, penso alle sezioni di lavoro, al fatto che quando ci siamo costituiti c’erano 80 docenti universitari di Torino, il Gramsci era una grossa cosa.. c’erano la Cgil e la Cisl, con Pace e Delpiano. Abbiamo fatto il convegno economico, una grande cosa: abbiamo portato la Fiat, i due fratelli Agnelli, l’Unione Industriale, 30 relazione di settore e in quell’occasione Pugno ci criticò dicendo che era un convegno tecnocratico perché Libertini, nella sua relazione, non ha parlato del problema dell’occupazione. Forse aveva qualche ragione… ma abbiamo fatto ottime cose, come i seminari con gli spagnoli che ancora adesso pubblicheranno a Barcellona questo nostro libro sulla Spagna.
Questo impianto non ha retto nel tempo, è fallito: oggi il Gramsci è un’altra cosa. Ci sono delle ragioni politiche? Credo che la liquidazione del Pci abbia influito negativamente su quel progetto. Ci sono delle ragioni soggettive? Credo di si, non vorrei dire una cosa pesante,ma io ho parlato con tutti quegli 80 intellettuali e penso che in questi settori di intellettuali c’è spesso un’incapacità di passare dalle teorizzazioni al lavoro. Questo è un giudizio che posso dare sul Gramsci e sulla sua metamorfosi.
Un bilancio su 80 anni di vita, un sindacato, 4 partiti, una guerra partigiana…
Detto in sintesi: io sono contento e fiero della mia vita, anche se è stata pesante e amara… “Partito amato, amaro partito”… mi ha cambiato, credo in meglio rispetto a cos’ero ragazzo; sono fiero di questo. Con una frase fatta: se dovessi rifarlo lo rifarei, con qualche asprezza in meno, con qualche atteggiamento dialettico in più comprendendo che siamo stati, molte volte, severi: ricordo cosa mi disse Giua quando iniziò la battaglia delle correnti: “Gianni tu hai molte ragioni, ma sei tagliato un po’ con l’accetta”.
Ricordo Giorgio Gasparini, operaio colto, capo della Lega alla Barriera di Nizza, che un giorno aveva fatto impazzire il commissario durante uno sciopero facendolo camminare tutto il giorno che gli chiese: “Ma signor Gasparini, mi dica solo una cosa: perché per portare un cartello così piccolo, con scritto “Vogliamo la rettifica del cottimo” porta un bastone grosso così?”… disse al compagno Montalenti, professore universitario, che gli diceva: “Ma sei sempre incazzato” e lui rispose: “Car cumpagn prufesur,il giorno in cui non mi incazzo più per queste cose sarà un brutto giorno anche per me perché dimostra che sono diventato un mestierante”.
Questa Torino oggi, come la vedi?
E’ cambiata enormemente: quando una città di 600.000 abitanti diventa 1.300.000 con la cintura e la pendolarità, con storie e culture diverse alle spalle: gli immigrati non erano come noi né politicamente né contrattualmente, avevano una tradizione rivoluzionaria, quando ce l’avevano, di jacqueire contadina ed è difficile passare di lì a discutere del meccanismo del cottimo o la qualità del lavoro.
Oggi i guasti sono nella società e sono guasti profondi: prendo il tram 6 volte al giorno e ne sento di tutti i colori; a Porta Palazzo sento le donne meridionali di 65 anche ce l’hanno con gli immigrati, appena sale uno di colore sul tram dicono quello che di loro dicevano i torinesi 40/50 anni fa. I guasti son profondi perché quando si afferma la concezione che la vita politica è una carriera, la gente lo sa questo e se ne fa anche un modello però, guasta anche se stessa. La natura solidaristica che c’era un tempo, perché vivevi sul ballatoio, nella stessa casa, gli stessi piani, in fabbrica, tutto questo è saltato. Ricordo sempre la frase: “Noi è di più che non io”. E questa concezione non c’è più e i guasti sono anche lì. L’altra sera Russo Spena l’ha detto con lucidità perché è uno di quei dirigenti che scava e vuol capire: cosa non frequente nel nostro nazionale.
“Piccole grandi cose”. La nostra vita è fatta di grandi avvenimenti e di piccole vicende che sono anch’esse ricche di insegnamento. Sfogliando le mie carte oggi 30 novembre 2006 risalgo esattamente a 40 anni fa (30 novembre 1966) e trovo annotata una “piccola” vicenda che mi pare, però, assai indicativa. Ecco cosa scrivevo nel mio diario:”Torino 30 novembre 1966. Oggi mi è capitata la cosa più bella della mia vita di sindacalista. Un ragazzo siciliano che avevo conosciuto al Cotonificio Val Susa è venuto perché lo aiutassi a impiegarsi al Municipio di Grugliasco. Ad un certo punto chiedendomi di “manovrare” mi ha offerto 150.000 lire. Al mio stupore e alla mia indignazione, appena attenuata dalla compassione e comprensione per l’ambiente di provenienza, mi ha risposto ricordandomi che gli avevo proposto di darmi del tu. Gli ho spiegato che certo volevo che usasse il tu perché siamo compagni, che quello che faccio o farò lo faccio perché siamo compagni comunque non potrò fare alcunché a scapito di altri. Quando ho successivamente raccontato la cosa a Remo Savio (della nostra segreteria; Savio ha sposato la sorella di Gerolamo Li Causi grande dirigente comunista siciliano) mi son sentito spiegare… che nel gergo mafioso dare del tu significa “io sono il capo e tu ungimi le ruote”! Se mi avessero dato una mazzata in testa non m’avrebbero fatto più male…mi son precipitato a casa del compagno di Grugliasco a spiegare l’equivoco…non so se ha capito” o se ha pensato che ero un bastardo e che volevo 300.000 lire e non 150.000. Credi di spiegare e non ti accorgi che i “ragionamenti son sempre interni a certe logiche”. Tu fai una cosa che ritieni buona. E l’altro ti considera un cretino. Diceva il poeta: “sei sempre stato savio di dentro e di fuori, sempre abbassando la ragione e l’estro, sempre pensando a modo del maestro”. (o padrone di turno).
Ho raccontato perché sento il dovere di testimoniare. Può essere utile. Ho scritto anche perché può essere utile a quanti crescono ora.
Pierina ed io non abbiamo avuto figli, ma nipoti e pronipoti, figli di mio fratello Antonio e di Maria. Diceva Ylia Erembourg che i nipoti sono i figli degli zii quando gli zii non hanno figli. Per noi è stato certamente così. Ora i nostri più piccoli, Silvia e Matteo, sono la gioia della nostra vecchiaia: ci portano in più “spirabil aere”, mezza realtà mezza fantasia.
Scriveva il grande cubano Josè Marti: “Los niños son la esperanza del mundo”. Voglio sperarlo anch’io.