Quando mi capita di muovermi accanto alla libreria di casa lo sguardo cade inevitabilmente su un dorsetto nero plastificato con la scritta in rosso. La settimana dopo i giorni del G8 di Genova fummo colti da un improvviso desiderio di scrivere un libro raccontando l’esperienza che avevamo appena vissuto. Ne uscì un lavoro che stampammo in 500 copie che subito raddoppiarono a 1000 nel giro di tre giorni. Utilizzammo la sigla (inesistente) del Collettivo Antagonista Savonese raccogliendo decine di racconti sgrammaticati (che lasciammo così come erano memori, se ben ricordo, delle autobiografie di Danilo Montaldi…) e qualche mini saggio in apertura. Negli anni successivi scoprii che il libro “Genova G8, un vertice nel sangue” veniva riportato nelle bibliografie sul G8 citato a margine di testi molto più significativi ma, ancora oggi, la sola idea di rileggere quei saggi per comprendere ciò che allora contribuii a scrivere, mi rende nervoso e non lo voglio fare.
Quindici anni fa lavoravo come tecnico in una fabbrica chimica a metà del litorale tra Genova e Savona. Presi due permessi brevi nel pomeriggio di giovedì e venerdì, il sabato era giorno di riposo. Tutti i miei colleghi sapevano perché avevo preso i permessi e si presentavano con biglie, pietre e bastoni chiedendomi se mi sarebbero serviti. La cosa divertente era che loro non avevano nessuna intenzione di partecipare alle manifestazioni ma erano curiosi di sapere che sarebbe successo. Quindici anni fa i miei colleghi, che non erano di sinistra, simpatizzavano vagamente per un movimento di ribellione di cui capivano pochissimo, di cui erano pronti a sostenere l’accusa il giorno dopo e di cui sentivano l’odore nelle strade e nei media. Chissà per chi simpatizzano ora…
Una cosa che credo, nel tempo in cui viviamo, si fatichi a comprendere è il contesto in cui si inserì quella tre giorni di contestazione. Che non furono tre giorni ma un intero periodo che andava dalle contestazioni di Seattle, passava per le manifestazioni di Napoli represse duramente poco prima e arrivava al vertice di Genova. Un periodo solcato da una crescita fortissima di un movimento contro la guerra e contro la globalizzazione capitalista. Con il senno di poi occorre fare bene attenzione ai termini. Mentre i giornali e le televisioni parlavano della seconda potenza mondiale dopo gli USA, si affrettavano a coniare il termine no global che accettammo senza battere ciglio. Ora si può dire che lottare contro la globalizzazione non ha senso alcuno, sarebbe come lottare contro la pioggia o il vento. Occorre quindi specificare globalizzazione capitalista intendendo uno specifico uso della globalizzazione da parte del grande capitale di cui allora si cominciavano a notare gli effetti che da allora hanno cambiato il panorama sociale del mondo in cui viviamo. In peggio. Allora comandavano FMI, Banca Mondiale. Oggi è uguale solo con più forza e sempre meno compromessi possibili.
Di questa specificazione allora non sapevo che farmene. Percorrevo allegramente il lungomare tra Savona e Genova con un motorino e mi avvicinavo alla manifestazione dei migranti e a quella di venerdì ignaro che quei giorni avrebbero cambiato il mio modo di pensare per sempre. Ma tornerei per un attimo al contesto.
Chiunque negli ultimi dieci anni abbia provato a organizzare presidi, convegni o incontri credo che fatichi a comprendere ciò che succedeva in quei mesi che precedevano il vertice del G8 a Genova. Eppure va spiegato per capire la portata di quegli eventi almeno per chi era presente. La settimana precedente, i militanti di Savona erano preoccupati e un po’ contenti del fatto che qualcuno ventilava l’idea di fermare un treno proveniente dai Paesi Baschi a Savona impedendogli di raggiungere il capoluogo. L’idea era quella di organizzarsi per trasportare i compagni baschi a Genova o farli sfilare a Savona. I giornali e i media sfruttavano l’idea del militante basco estremista (dipinto come militante rivoluzionario con passamontagna nero che parlava una lingua incomprensibile) che comunque, in quel frangente, solleticava la curiosità di quella parte di cittadini che volevano capire come sarebbe andata. Lo spauracchio agitato dai media diventava un boomerang. I compagni baschi a Savona non li vide poi nessuno anche se sfilarono nei cortei a Genova. La settimana prima vidi dei manifestini di incontri sul G8 che si sarebbero tenuti in zona. Uno a Valleggia (piccola frazione di un piccolo comune agricolo dell’entroterra) dove dagli anni 50 nessuno aveva raccolto mai più di 20 persone per una iniziativa politica. Mi presentai nella sala dove era previsto un comizio di Marco Ferrando (allora dirigente di minoranza del PRC) e non si riusciva a entrare nonostante la sala scelta fosse in realtà una grande pista da ballo. Negli stessi giorni in una località balneare, un campo da calcio era stracolmo di compagni e curiosi perché un gruppo cattolico teneva una tre giorni con un esponente della teologia della liberazione. Il tema era, ovviamente, come e perché partecipare al controvertice.
Nei bar, oltre al calcio, si parlava delle manifestazioni contro il G8. Gruppi che si occupavano in genere di altro, ad esempio moltissimi ultras, si stavano organizzando autonomamente per essere presenti. I manifestanti venivano da tutta Europa. In piazza vi erano enormi spezzoni di compagni e compagne da Grecia, Turchia, Francia, Spagna, Germania etc…Con il senno di poi potremmo dire che l’idea di una lotta comune europea allora era ancora possibile visto che l’UE non aveva ancora mostrato compiutamente il suo comportamento. Oggi una internazionalizzazione dei conflitti appare impossibile.
In questo clima sfilammo da giovedì passando accanto a dei container che delimitavano lo spazio di Piazzale Kennedy dove era ancora rinchiusa la polizia che sarebbe uscita il giorno dopo. Nella manifestazione dei migranti andò tutto per il verso giusto ma a me tornava in mente l’immagine televisiva vista qualche giorno prima: un gruppo di compagni con il passamontagna zapatista leggeva davanti alle telecamere una dichiarazione di guerra al sistema economico neoliberista. Proprio così, una dichiarazione di guerra. Proprio così, davanti alle telecamere di un telegiornale nazionale. Al termine si toglievano il passamontagna e riconoscevo un mio vecchio compagno di facoltà con cui avevo scambiato negli anni qualche parola avendo capito che avevamo idee comuni. Ecco, io aspettavo la guerra. Il giorno dopo ce la scatenarono addosso.
Ora non sto a tediare nessuno con il racconto dei tre giorni, dei pestaggi, delle trappole, del Carlini o della Diaz. Ci sono libri, documentari a bizzeffe. Per chi ha lo stomaco forte esiste anche “Genova G8, un vertice nel sangue” un libro terribile scritto in tre giorni e comprato da 1000 persone nel giro di una settimana.
Passiamo invece alla sconfitta.
Nei giorni immediatamente successivi al controvertice le piazze in Europa tornarono a riempirsi. Enormi manifestazioni chiedevano giustizia per Carlo Giuliani e riflettevano sulla Diaz, sulle torture di Bolzaneto, sui fiumi di sangue che avevano inondato le strade di Genova. Qualche anno dopo un compagno mi disse che allora sembrava possibile una risposta che poteva essere la rivoluzione. Invece era l’annuncio della ritirata. Se qualcosa era andato storto era capitato a noi e se qualcuno aveva vinto erano gli altri. Ma capirlo in quei frangenti non era per nulla semplice.
Da allora tutto è andato sfumando e oggi, a 15 anni da quei giorni, nessun giornale dedica mezza riga alla ricorrenza. La seconda potenza mondiale oggi è un ricordo vago, la Cina sta sostituendo gli Stati Uniti come prima potenza mondiale, Bovè, Casarini, Bertinotti, Agnoletto sono degli ologrammi che appaiono e scompaiono spesso per cose che non c’entrano nulla con la politica o i movimenti. La guerra globale miete ogni giorno centinaia di vittime, il terrore dell’ISIS scuote il centro dell’Europa, negli Stati Uniti ogni giorno la polizia uccide persone di colore, Donald Trump e Hillary Clinton si contendono lo scettro di chi deciderà lo stile dei nuovi massacri imperialisti, l’ex eroe dei manifestanti greci Alexis Tsipras raggiunto il potere si è piegato alle banche e alla trojka consegnando la resistenza del proprio paese alla UE. In America latina la resistenza dei popoli dell’ALBA è nuovamente sotto attacco da parte degli oligarchi che hanno già ripreso l’Argentina e stanno sequestrando il Brasile.
Tutto questo c’entra con i giorni di luglio 2011?
Perchè gli abbiamo fatto così paura? Un movimento internazionale
La caratteristica del movimento di contestazione al vertice G8 di Genova era l’essere un movimento internazionale. Abbracciava l’Europa e l’America. Troppo poco per essere definito realmente globale, troppo grande per essere trascurato. Era la creazione di fatto (confusa e contraddittoria ma reale) di un blocco sociale di coloro che venivano colpiti dall’applicazione del capitalismo nell’era della globalizzazione. Contadini e operai, disoccupati, ceto intellettuale. Laici e religiosi. Cittadini e tribù indigene. Una saldatura di interessi e di pratiche che per forza di cose lasciava aperte molte crepe ma rappresentava in potenza una minaccia verso i padroni della terra. Un movimento che cresceva nonostante le dosi di repressione usate nelle prime uscite. Che contava i suoi rappresentanti nelle istituzioni, nei media. Che da anni impediva la realizzazione dei vertici internazionali o, almeno, ne disturbava l’agenda mettendo a nudo il fatto che non si trattava di riunioni neutre ma di vertici dei padroni contro le classi subalterne. A un certo punto qualcuno ha pensato che quella cosa non era così innocua e dovesse essere fermata. Proprio perché potenzialmente in grado di parlare a tutti e mostrare che il re era nudo. Tutte le incongruenze di quel movimento sembravano in grado di allargare il settore di influenza delle parole d’ordine senza minarne la forza ma quelle incongruenze non sfuggivano ai nemici, purtroppo.
Che errori abbiamo fatto? Non avevamo capito chi avevamo di fronte?
Non esistono oggi, a 15 anni di distanza, ipotesi rassicuranti. Non esistono cose da non ripetere più per vincere facilmente la prossima volta. Le incongruenze di quel movimento sono uno dei suoi punti di forza e contemporaneamente il luogo dove i nemici hanno colpito. Tutto il movimento è stato, più o meno intensamente, attraversato dalle parole d’ordine che provenivano dal Chiapas della rivolta zapatista. O per lo meno dall’interpretazione specifica che si voleva dare di quelle parole d’ordine. Gli slogan del camminare domandando, la pretesa che non ci interessava prendere il potere, etc…Falsi o corretti che fossero, quei concetti sono stati in grado di unire ipotesi diversissime di rivolta contro la globalizzazione capitalista negando in partenza qualsiasi elemento di divisione ideologica anche quando questo si evidenziava in ogni passaggio. L’idea era colpire il nemico principalmente nell’immaginario e in questo la rivolta era più mimata che reale. La dichiarazione di guerra era l’alimento per i media, il flash mob condito di qualche manganellata era la pratica da utilizzare. I livelli erano diversi ma uguale era il concetto: si potevano distruggere i bancomat vestiti di nero oppure assaltare per 5 minuti una recinzione vestiti di bianco per ottenere lo stesso risultato simbolico e un bel po’ di pubblicità sui media. La parte meno radicale poteva mettersi davanti alle forze dell’ordine con le mani alzate in segno di pace per ottenere il risultato di mostrare al mondo che l’alterità al dominio del capitale era presente e in crescita. Era un qualcosa che aveva funzionato e crescendo si doveva totalmente trasformare perché non faceva i conti con il nemico che poteva tollerare fino a quando non decideva di agire con i metodi abituali.
A distanza di 15 anni Genova a luglio è stato questo: con la forza della repressione, delle cariche e delle torture il capitalismo ha detto che la ricreazione era finita. Forse era il caso di comprenderlo prima, forse mancava una adeguata conoscenza del nemico, dei suoi metodi. Forse non saperlo ha avuto il significato di mandare al macello chi si è trovato in mezzo.
Poteva andare diversamente? Il movimento fuori dalle logiche del novecento
La generazione che è andata agli scontri di Genova aveva un rapporto particolare con la storia del novecento. Qualche anno prima cadeva il blocco dell’est e finiva una parte di storia delle classi subalterne a livello mondiale. I manifestanti di Genova con le loro pratiche provano a portare un uguale, se non addirittura maggiore livello di radicalità rispetto alle lotte del secolo precedente ma ne rifiutano molti aspetti legati alla violenza, alla necessità di difendersi duramente. Il novecento viene visto come il secolo della sconfitta del movimento operaio tradizionale e come si sa le sconfitte si pagano sulla pelle di chi ha lottato e perso. Questo da sempre serve ai vincitori per nascondere i lati violenti del proprio potere e assegnare ai vinti le responsabilità delle loro violenze e dei loro fallimenti. Il movimento operaio del novecento aveva dovuto fare i conti con il tipo di violenza che era stato necessario per le rivoluzioni, per la loro difesa, per le decolonizzazioni, per i tentativi rivoluzionari non andati in porto. A livello di massa, l’ottantanove e la fine dell’URSS significano la dannatio memoriae per tutti coloro che avevano sostenuto fino in fondo le ragioni della rivoluzione. Il movimento di Genova prova tutt’altri metodi ma fa i conti con un nemico che occulta la propria violenza anche quando è esplicita come in Piazza Alimonda o alla Diaz. E il nemico vince, con la violenza. Se c’è qualcosa da imparare da quei giorni, forse è quello il punto decisivo. Chiedersi per quale motivo nessuno è stato condannato per le violenze di piazza o per le torture è folle perché forse dovremmo soltanto chiederci per quale motivo uno stato debba punire i suoi uomini quando eseguono gli ordini.
L’autunno di riflessione di quel movimento non fu neppure tanto lungo. Da quella sconfitta non siamo ancora usciti. Alcuni ci hanno provato recuperando il loro posto tra le alte cariche dello Stato per poi finire nell’immondizia del gossip mondano. Altri rispuntano a ogni tornata elettorale come reduci di un movimento che non ottiene nemmeno più un trafiletto sui giornali. La riflessione non c’è stata. Una parte ha tenuto e continua a proporre versioni più o meno radicali di estetica del conflitto. Qualche mese dopo l’undici settembre del 2001, le torri gemelle che si accartocciano fanno scoprire al mondo che c’è un nemico più pericoloso che colpisce duramente ma è meno pericoloso perché nemico di tutti indistintamente.
Per i potenti la vittoria è durata poco e ha aperto le porte a un incubo che colpisce indiscriminatamente.
Nel flusso della storia esistono momenti in cui i soggetti possono interrompere il flusso di uno sviluppo, farlo deviare e progettare una diversa società. Quel movimento che si è infranto contro la violenza del capitale a Genova aveva questa possibilità. Quando si cade poi si fatica a rialzarsi. Ma, ovviamente ce la faremo, vendicandoci a modo nostro non solo per Carlo Giuliani, per la Diaz o per le altre torture di quei giorni ma per tutto ciò che il capitale fa scontare alle classi subalterne in tutto il pianeta. Il nostro giorno verrà…