Alcune considerazioni sulla manifestazione notturna di sabato 16 aprile a Genova
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”
Bertold Brecht
Sabato 16 aprile, la città di Genova è stata attraversata da un corteo contro la guerra e la repressione dei migranti.
Una doccia fredda per chi vorrebbe che la rassegnazione e il qualunquismo fossero la cifra politico-morale totalizzante.
Questa mobilitazione, prevista da alcune settimane, era uno degli sbocchi pratici del terzo incontro internazionale della Rete No Border tenutosi sabato e domenica proprio nella nostra città.
Un momento importante di incontro e di confronto, nonché un tentativo di coordinamento tra le varie esperienze europee che hanno come perno centrale la lotta alla gestione delle politiche migratorie made in Ue.
Un lavoro che a Genova è stato preceduto da un’importante aggregazione di compagni, attivisti e semplici solidali dallo svilupparsi dell’ “emergenza Ventimiglia” quest’estate in poi, continuato nei mesi successivi con importanti incontri informativi e formativi (ascoltabili in podcast sul sito della web-radio Radio Stella Rossa di Genova), la tessitura di relazioni a livello nazionale ed internazionale, ed alcune meritevoli iniziative pratiche.
In sintesi, un lavoro meritorio che ha deciso di focalizzarsi su un aspetto strutturale e centrale dell’intero edificio sociale, declinandolo rispetto allo sviluppo delle politiche belliciste fuori dai confini europei e di militarizzazione all’interno dei perimetri dell’Ue.
In questo senso quest’esperienza è andata oltre l’orizzonte dell’aggregazione estemporanea su un motivo contingente ed ha allargato il discorso offrendo strumenti di comprensione più ampi, andando oltre l’indignazione per gli effetti delle politiche europee ma scandagliandone le cause ed offrendo un quadro particolareggiato di quella che spacciano per politica “dell’accoglienza”.
Queste sono le doverose premesse indispensabili per contestualizzare ciò che si è sviluppato sabato e che ha coagulato per la prima volta da un po’ di tempo a questa parte, un’opposizione su parole d’ordine chiare e condivisibili alla guerra sia sul fronte interno che su quello esterno, in un momento in cui le varie mobilitazioni su questo aspetto non erano riuscite ad andare oltre il livello della testimonianza.
Il corteo, organizzato dalla Rete No Borders insieme a chi si riconosceva all’interno dell’impianto politico ed organizzativo della manifestazione (tra cui noi), ha coinvolto quindi centinaia di compagni e compagne che hanno attraversato parte del centro cittadino. Ha scandito dall’inizio alla fine slogan contro le frontiere e i muri che si innalzano ovunque per impedire la circolazione dei migranti e contro la guerra che – nel silenzio quasi totale dei media – si sta conducendo su differenti fronti.
Si voleva rispondere ad una violenza inaudita che nei media non trova spazio se non in immagini decontestualizzate di bambini agonizzanti ai lati delle strade, sui binari delle ferrovie e sui muri di filo spinato che ricompaiono ovunque in Europa. Un livello di violenza che non esiste per l’opinione pubblica perché scientificamente occultato o utilizzato per disinformare, trasformando carnefici in statisti, esaltando governi fantoccio come quello importato in Libia o ribaltando i ruoli tra terroristi e liberatori.
Eppure non è difficile pensare che dietro alle guerre e alle fughe dei migranti ci siano motivi che attengono a precise responsabilità di chi ci governa, dell’Unione Europea e della NATO. L’Italia si contraddistingue per ipocrisia: da un lato chiede regole condivise per i flussi di migranti ma li lascia morire in mare o li rinchiude in lager, apparentemente si dichiara contraria a nuove guerre ma manda i soldati in Libia. L’Italia fa affari con Arabia Saudita e Turchia negando il loro ruolo nelle stragi che insanguinano il “Medio Oriente” ed è tra i principali fornitori di armi a questi stati e, da qui, verso gli integralisti islamici. E’ membro della NATO che è il principale organismo militare a sostegno dell’imperialismo nostrano, è membro di quella UE che non trova di meglio che foraggiare lo stragista Erdogan, aizzare i neo nazisti in Ucraina mentre innalza muri in tutta Europa.
In Italia ci si divide paradossalmente tra chi ragiona in termini strettamente umanitari nascondendo le ragioni della migrazione e dei conflitti e non trovando di meglio che sfruttare il dramma dei profughi facendoli lavorare gratuitamente in giro per la città (con il non secondario obiettivo di raccattare fondi per l’emergenza) e chi sfrutta la situazione per allestire campagne razziste e xenofobe. Sono due facce della stessa medaglia, due diversi modi per negare le ragioni di fondo di una situazione che ha a che fare con le politiche predatorie dei vari attori (USA, Unione Europea, petrolmonarchie del Golfo) che si combattono per il predominio delle risorse.
E’ quindi assolutamente positivo che una parte importante dei compagni e delle compagne di Genova abbia provato a fornire una prima risposta di piazza importante a questa situazione. A tutto questo i giornali e le questure rispondono provocando, ingigantendo fatti banali, trasformando la realtà fino a capovolgerla. Nessuno si accorge delle guerre ma tutti si accorgono delle scritte sui muri!
Secondo noi in ballo c’è molto di più che la criminalizzazione di un singolo “evento” o di alcune “pratiche” (come già successo contro la legittima contestazione di Panebianco all’interno dell’Università di Bologna), ma vi è la volontà pervicace di legittimare la chiusura di ogni spazio di critica e dissenso che non sia subordinato ai dettami dei partiti politici dei due Matteo. C’è un disegno politico teso a preparare il terreno, dal punto di vista della propaganda mediatica, all’ ulteriore restringimento degli spazi di agibilità politica, già per altro abbondantemente risicati.
In poche parole stanno cercando di giustificare l’attuazione dello stato d’eccezione permanente contro coloro che provano quanto meno a denunciarlo pubblicamente…
Quindi, su chi si ribella si accanisce la canea dei giornalisti servi o incapaci – che sono la stessa cosa – e si preannunciano nuove azioni repressive (il numero record di 100 denunce).
Oggi dobbiamo dire che ribellarsi è comunque un dovere anche se a stupire è la debolezza della forza che riusciamo a mettere in campo. Stupisce la nostra solitudine, in parte creata dal nemico, ma in parte legata ad una sostanziale incapacità di mettere in campo percorsi organizzativi che siano in grado di interagire maggiormente con una popolazione in preda a paura, disinformazione, disincanto verso ogni responsabilità di ribellarsi. La difficoltà di costruire percorsi e riconoscimento con quella parte di popolazione che viene strangolata da austerity e distruzione del welfare e che viene ingannata facendogli capire con dosi massicce di propaganda che il nemico non è il padrone o il capitalismo ma l’immigrato o il diverso continua ad essere un preoccupante dato di fatto.
Allora, ben venga l’evento inatteso, la mobilitazione che squarcia il velo delle ipocrisie ma occorre anche ragionare sui limiti che emergono, non attribuibili a chi ha “osato” gettare il cuore oltre l’ostacolo in un silenzio assordante e riprendersi le strade per esprimere in maniera adeguata e risoluta la propria opposizione alla guerra. Se il nemico è potente almeno come lo abbiamo descritto (sfrutta i migranti mentre dice di accoglierli, fa le guerre facendo finta di opporsi, è in grado di scatenare attacchi stampa a media unificati in attesa e in richiesta di nuove ondate repressive), una mobilitazione non può che essere un passaggio e va unita a processi costanti di approfondimento, denuncia politica, mobilitazione quotidiana e momenti di “rottura”, come è per altro abbondantemente emerso sia dalla discussione plenaria che dai singoli gruppi di lavoro dei due giorni di incontro internazionale.
Da qui bisogna partire.
Insieme a questo va sviluppato un processo di organizzazione e ricomposizione politica che sappia creare consenso al di fuori dei circuiti militanti, creare un legittimità popolare rispetto alla propria progettualità e connettersi a quelle istanze di lotta che emergono dalle contraddizioni reali, se no il rischio è l’autoreferenzialità.
Occorre quindi creare le condizioni per un processo di lungo periodo, che sappia trovare almeno gli strumenti di difesa necessari, le necessarie alleanze per avere più forza politica. Che sappia lavorare in profondità cercando di ricomporre le lotte dei migranti con quelle contro la guerra, le lotte dei lavoratori con quelle per i diritti di cittadinanza. Che sappia ricostruire una forza non ideale ma materiale in grado di fornire una prospettiva politica generale e conquistare nuovi spazi di agibilità.
Genova City Strike/Noi Saremo Tutto