Morire a 96 anni, in una villa faraonica e probabilmente ricchissimo non è propriamente come morire di lavoro in un cantiere, di malasanità o con la pensione al minimo in un caseggiato popolare. Licio Gelli è morto come spesso capita ai potenti o a chi ha segreti da conservare. Negli ultimi anni era apparso spesso in televisione e sui media a ricordare una cosa che è evidente a tutti: aveva vinto la sua battaglia, non propriamente nel modo in cui pensava di vincere ma aveva vinto e chiedeva riconoscenza al potere. Quella riconoscenza che il potere non gli ha dato se non in forma indiretta lasciandolo sostanzialmente libero di morire in ricchezza e circondato dagli agi.
Nel marzo del 1981, quando i giudici scoperchiarono il caso P2, l’Italia era uno stato in cui agiva il più forte partito comunista dell’Europa Occidentale. I sindacati scendevano spesso in sciopero e svendevano i diritti dei lavoratori meno facilmente rispetto a oggi. La classe operaia aveva appena sferrato un attacco al sistema lungo 10 anni e, nonostante la sconfitta epocale appena subita alla FIAT, faceva ancora paura.
Nelle liste dello loggia P2 figuravano centinaia di nomi di politici, di giornalisti, di imprenditori e di finanzieri. La linea politica era il Piano di Rinascita Democratica: un elenco di riforme strutturali atte a togliere il potere dalle mani dei sindacati e dei comunisti (sic!) per liberare le forze produttive e democratiche dell’Italia. Nel corso del tempo quelle regole sono state tutte applicate. Gelli pensava che questo dovesse avvenire attraverso la violenza e le stragi, il potere ha fatto sì che avvenisse con armi diverse.
Nessuno sottolinea mai che l’eversore Gelli, nella realtà delle cose, era un uomo del potere. Su questo fa fede, più che l’elenco dei politici affiliato alla loggia P2, l’elenco degli industriali e dei direttori dei giornali (che in Italia, con rarissime eccezioni, sono di proprietà di gruppi industriali e finanziari). Gelli non manovrava nessuno, ma veniva manovrato da coloro che mal sopportavano il protagonismo operaio organizzato nel decennio che va dal 68 alla fine degli anni 70. Il mandante delle stragi non era certo lui, chi stava nella loggia non era certo ricattato ma ricattava. Su questo andava aperto un dibattito che nessuno aveva intenzione di aprire perché significava svelare la natura di uno stato che si diceva democratico ma che in realtà usava la democrazia come involucro in cui far funzionare i propri affari, occulti o alla luce del sole.
In condizioni di difficoltà, i padroni e gli apparati dello stato che rispondono ai loro interessi non si sono mai occupati troppo delle regole. Le stragi e la strategia delle tensione rientravano nella procedura di contenimento del comunismo. Difficile pensare che questo dipendesse dagli interessi personali del modesto ex repubblichino di Arezzo.
Quando scoppiò lo scandalo della loggia P2 qualcuno deve aver pensato che quei vecchi metodi erano diventati obsoleti. Altri rimasero stupiti, alcuni per convinzione intrinseca e altri per convenienza. L’ex partigiana Tina Anselmi, deputata della Democrazia Cristiana si occupò della commissione parlamentare apposita. Effettivamente non cavò un ragno dal buco ma si lasciò scappare un giro di parole sconsolato sul fatto che si doveva scavare più a fondo e che occorreva capire chi manovrava Gelli.
Il crollo dell’URSS nel 1989 pose fine a questi mal di pancia. Il PCI decise di porre fine alla sua esistenza, i sindacati si avviarono verso la definitiva capitolazione. L’alternanza tra la destra di Berlusconi e il centrosinistra pre PD si occupò di applicare quelle indicazioni di massima del piano di rinascita democratica. La borghesia vincente europea, attraverso i trattati e l’Unione monetaria si occupò di completare l’opera. A quel punto Gelli non serviva più e i dubbi democratici della signora Anselmi sono diventati improvvisamente archeologia.
Negli ultimi tempi Gelli era diventato buono solo per i giornali del centrosinistra che lo usavano in funzione anti berlusconiana. Lui stesso continuava a sostenere il suo ex affiliato dimenticando che in realtà i veri protagonisti del suo successo si ritrovavano più nei suoi ex nemici ora diventati Partito Democratico. Chissà se in letto di morte ha riflettuto su questo e sulla decomposizione della sinistra di classe che era uno dei suoi obiettivi tattici principali. E che continua a essere uno dei corollari necessari per continuare l’opera di ristrutturazione neoliberale e autoritaria che continua a colpirci.
E’ morto un aguzzino. E’ normale augurargli di bruciare all’inferno ma per i materialisti questa soddisfazione è davvero poca cosa. Dovremmo piuttosto ragionare su come ricominciare a combattere non contro di lui ma contro coloro che lo hanno usato e che hanno ottenuto i loro obiettivi. Per ribaltargli il tavolo su cui oggi continuano a banchettare alle nostre spalle.