Qualche mese fa commentavamo, come Rete Nazionale NST, il risultato delle elezioni in Turchia con la speranza dell’avvio di un possibile cambiamento positivo. L’HDP, che rappresenta una parte della sinistra turca e curda, aveva strappato il 13% dei voti e, soprattutto, aveva contribuito a togliere la maggioranza al partito AKP del primo ministro.
Dietro i risultati, si avvertiva l’influenza del processo di pace tra il PKK e il Governo Erdogan. La strategia dei compagni del PKK era quella di spostare la lotta su un piano politico strappando potere al partito AKP misurandosi su un terreno minato e difficilissimo.
La situazione era fluida e potenzialmente in grado di aprire una contraddizione nell’apparato di potere in Turchia. La coabitazione trattativa tra AKP e HDP si è però rivelata , da subito, impossibile. Sullo sfondo la situazione ai confini con Iraq e Siria dove la resistenza di Kobane all’avanzata dell’ISIS apriva un fronte per la creazione di una entità statale kurda.
Qualche mese dopo, al culmine di una campagna elettorale giocata con le armi e con l’esercito, la situazione appare ribaltata con il partito AKP che riconquista la maggioranza assoluta e con la sconfitta della sinistra e dei curdi che raggiungono per il rotto della cuffia la soglia del 10% necessaria per entrare in parlamento.
La politica come continuazione della guerra
Appare evidente a tutti, come la vittoria politica di Erdogan e dell’AKP sia soprattutto una vittoria militare. Durante la campagna elettorale la tregua tra PKK e governo è totalmente saltata. L’esercito turco ha ripreso a bombardare massicciamente le zone kurde controllate dal PKK (di cui l’HDP è sostanzialmente il braccio politico). Interi villaggi sono stati bruciati mentre la repressione si spingeva a livelli parossistici, non solo contro i kurdi ma anche contro la resistenza dei partiti della sinistra turca. All’interno della campagna di sangue si segnalano anche delle stragi, ufficialmente da addebitare all’esercito islamico: dalla strage di Suruc a quella di Ankara durante un comizio elettorale della sinistra. Si segnalano raid sanguinosi (di recente è stata uccisa davanti a casa la giovane militante comunista Dilek Dogan) e incarcerazioni per migliaia di militanti comunisti e anticapitalisti. Il cappio di Erdogan non ha risparmiato la stampa e la televisione. Con questa campagna di terrore, Erdogan si è accreditato come unico baluardo contro il terrorismo addebitato al PKK, alla sinistra di classe (colpito pesantemente il fronte popolare DHKP-C) e all’ISIS di cui però il governo turco è il principale finanziatore con l’acquisto di petrolio.
Le grida della sinistra, secondo cui dietro gli attentati e le stragi ci sarebbero i servizi e lo stato turco, non hanno ottenuto nessuna eco. Il governo di Erdogan ha messo in berlina qualsiasi forma di controllo democratico e ha ottenuto la vittoria militare e politica che cercava.
Elezioni farsa
Che il verdetto delle urne non abbia nulla a che fare con un concetto, se pur vago, di democrazia è evidente a tutti gli osservatori imparziali. Basta guardare i dati dell’affluenza che scendono moltissimo nelle zone kurde o i brogli certificati con schede gettate nel cestino o bruciate. Questo è il risultato di un processo che non ha nulla a che vedere con la battaglia delle idee ma che rispecchia un potere militare in cui le parti in causa si gestiscono fette di potere per arrivare a una trattativa in condizioni di forza. Dopo le elezioni scorse, la sconfitta di AKP e i successi curdi nella battaglia contro l’ISIS potevano aprire una valanga che avrebbe portato alla nascita di uno stato kurdo e alla fine del regime islamico. Conoscendo e temendo la posta in gioco, il governo Erdogan ha puntato tutto sulla repressione sanguinosa e sul terrorismo di stato vincendo la propria battaglia. Il fatto che l’HDP sia riuscita comunque a entrare in Parlamento, rappresenta un piccolo elemento di resistenza ma contemporaneamente appare una gentile concessione del satrapo; con questa manovra Erdogan può continuare a gestire in totale solitudine una trattativa in cui ora ogni spazio di mediazione sembra negato. In questo contesto per la sinistra turca si apre un periodo di riflessione e sicuramente una situazione difficile da gestire e interpretare.
Il ruolo internazionale
Nella repressione del movimento kurdo e della sinistra, Erdogan ha avuto alleati d’eccezione: l’Unione Europea e gli USA. In questi mesi, non si è levata una voce di condanna istituzionale contro l’acquiescenza nei confronti dell’ISIS o contro la sanguinosa repressione. Erdogan continua a essere il beniamino di chi usa i diritti democratici e civili come una clava per colpire soltanto chi non si allinea agli interessi economici delle proprie elite economiche e padronali. In questo senso, nulla di nuovo sotto il sole, ma la conferma di una situazione in cui le sinistre di classe non hanno nessuna voce in capitolo. Per questo, la sconfitta dei compagni in Turchia e il ritorno deciso verso un regime fascista ci devono ulteriormente far riflettere. Ogni volta ci scontriamo con la dura realtà dei fatti: per questo, invece di disquisire sulla tattica o sulla strategia dei compagni turchi e curdi, occorrerebbe interrogarsi sulle nostre strategie.
Sicuramente, visto che l’internazionalismo è un concetto che rifiuta ogni idealismo, ci sembrerebbe sensato ragionare su come favorire la pace, la democrazia e il progresso in Turchia cercando di rafforzare le forze anti imperialiste nei nostri territori. Magari cercando concretamente di mettere in difficoltà politica l’Unione Europea e la NATO. Cercando strade per unire politicamente quella parte di sinistra che fa propri questi concetti.