Oskar Lafointaine, ex ministro delle finanze tedesco, ex dirigente dell’SPD e attualmente esponente di spicco di DIE LINKE, ha scritto una lettera alla sinistra italiana pubblicata dal quotidiano il Manifesto. La lettera è stata correttamente ripresa da vari organi di informazione della sinistra e giudicata, in maniera sostanzialmente unanime, un grande passo in avanti potenziale per la sinistra in Europa. Recentemente Lafontaine, insieme ad altri esponenti della sinistra europea (Melenchon, Varoufakis e Stefano Fassina), ha proposto un piano B per l’uscita dalla moneta unica euro e ha espresso pubblicamente la necessità di prendere le distanze dall’europeismo della Sinistra Europea. Si tratta, in realtà, di una battaglia che dura da tempo: la sinistra di Die Linke la porta avanti da qualche anno, risultando però in minoranza all’interno del proprio partito. La crisi greca e la sua risoluzione temporanea (approvazione del terzo memorandum, ritorno del dominio della Trojka nel paese ellenico ed espulsione di fatto della sinistra in Syriza) hanno accelerato i tempi: il piano B proposto da questi illustri esponenti della sinistra comincia a circolare anche in un ambito più allargato.
Nella lettera si notano comunque più livelli di lettura. Lafontaine non fa sconti a Syriza e butta sul piatto l’idea che l’europeismo classico della sinistra continentale sia un totale fallimento. All’interno di questa debacle, emerge l’inconsistenza del dibattito teorico e politico nella sinistra italiana. Il sasso lanciato da Lafontaine colpisce quindi un bersaglio completamente disarmato e assolutamente non in grado di reagire. Il fatto che il Manifesto pubblichi la lettera è quindi un passaggio da sottolineare: il giornale storico della sinistra italiana non aveva infatti mai pubblicato prese di posizione di questo tenore. Evidentemente, la sconfitta di Syriza, che i vari PRC, SEL, civatiani e co…avevano derubricato a passaggio tattico, qualche strascico lo lascia.
Salutiamo quindi positivamente questa presa di posizione. Da anni sosteniamo che non può esistere sinistra di classe che non assuma fino in fondo l’idea dell’irriformabilità dell’Unione Europea. Su questo punto non siamo stati soli, ma fino ad oggi questa parte del dibattito è stata relegata in un ambito ristretto di militanti. La questione greca sembra quindi un passaggio decisivo: il fallimento di Syriza dimostra, a chi vuol capire, la reale natura di quel mostro chiamato Unione Europea.
In questo senso vanno lette anche le elezioni in Catalogna: le difficoltà dell’asse Podemos-Izquierda Unida sono evidenti, mentre avanza l’ipotesi indipendentista e anticapitalista della CUP. Tutto questo unito all’impegno delle forze di sinistra sul referendum scozzese, la possibile svolta del Labour in Inghilterra (in cui è alle porte un referendum sull’uscita dalla UE) e i passaggi teorici che potrebbero portare a uno stretto rapporto tra il Partito Comunista Portoghese (da sempre in posizione sovranista e anti UE) e il Bloco de Esquerda che abbandona la prospettiva europeista tout-court che lo aveva caratterizzato negli ultimi anni.
La presa d’atto di un fallimento teorico potrebbe quindi essere alle porte; recentemente a Barcellona si è tenuto un convegno significativamente nominato Eurostop (in Italia l’esperienza si terrà ai primi di novembre) in cui, oltre alle forze di sinistra antiUE, erano presenti come osservatori anche esponenti storici del Partito Comunista Spagnolo.
Ci sembrano ovviamente buone notizie. Occorre però fare alcuni precisazioni, in quanto Lafontaine non si limita a sostenere una tesi in negativo ma prova ad articolare un piano teorico alternativo. Si tratta di una precisazione dell’originale piano B (a dire il vero alquanto fumoso) che era stato ventilato da Varoufakis durante le trattative estive Grecia-creditori.
Lafointaine propone infatti di abbandonare la moneta unica per ritornare a un sistema di monete nazionali ancorate tra loro: il Sistema Monetario Europeo.
Le precisazioni di Lafontaine ci spingono quindi ad analizzare con più rigore la proposta politica, già al centro di un dibattito teorico tra economisti di sinistra. Secondo quanto dichiarato, il ritorno allo SME potrebbe far recuperare il meccanismo virtuoso delle svalutazioni competitive, che rilancerebbero le esportazioni dei diversi paesi sottraendo i paesi europei al ricatto della diminuzione del rapporto Debito/PIL. Si tratterebbe quindi di un ritorno a quel sistema monetario comune abbandonato con l’istituzione della moneta comune.
Senza che sia esplicitata, si fa strada l’idea che l’introduzione dell’euro sia stato un errore e non un tentativo di imporre una politica neoliberista. Secondo questa vulgata l’errore si sarebbe ripercosso su tutti gli strati della società. Viene quindi indicata una strategia che si dice in grado di far ripartire l’economia fornendo sostegno al sistema bancario, al sistema imprenditoriale e ai lavoratori.
Eppure sappiamo che la moneta unica è stata introdotta per creare un polo imperialista europeo in competizione con gli USA. Sotto questo aspetto, come grimaldello per l’applicazione di politiche neoliberiste, l’euro ha funzionato benissimo per un lungo tempo. La rigidità monetaria legata alla moneta unica ha fornito lo strumento tecnico necessario a una parte di borghesia vincente per ristrutturare il sistema produttivo, abbassare salari e welfare, trasformare il debito privato in debito pubblico, privatizzare settori fondamentali dell’economia. Trattato di Maastricht, patti di stabilità e fiscal compact sarebbero stati introdotti con più resistenze senza l’unione monetaria. Il risultato dell’impoverimento dei lavoratori, la loro concorrenza spietata ottenuta attraverso le nuove forme contrattuali, il fenomeno delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni sono il cuore di una politica in cui la crisi del 2009 è stata scientificamente usata per dare il colpo di grazia al sistema sociale europeo. Tutto in nome della concorrenza, della competitività e dell’abbassamento del costo del lavoro.
Il ritorno a un sistema (regolato, par di capire) monetario comune, di per sé, non dovrebbe configurarsi come la sanatoria di un errore tecnico, ma dovrebbe unirsi a una precisa volontà legata alla lotta delle classi. Nella storia recente italiana, infatti, il sistema delle svalutazioni competitive è servito molto spesso per ingrassare il sistema imprenditoriale ma la ricaduta positiva sui lavoratori non è stata per nulla scontata.
Nel frattempo, dall’entrata in funzione dell’euro e dai passaggi strategici dell’Unione (i vari trattati da Maastricht fino al Fiscal Compact) si è andata architettando una struttura verticistica e antidemocratica dell’Unione Europea che è andata di pari passo con ristrutturazioni democratiche statali che hanno deliberatamente sottratto ai lavoratori e all’intero popolo qualsiasi rimasuglio di potere borghese.
Giusto per rimanere in Italia, abbiamo avuto una feroce ristrutturazione produttiva della grande impresa, la perdita di ogni potere contrattuale dei sindacati (dall’attacco al diritto di sciopero allo svuotamento dei contratti nazionali), le modifiche costituzionali che hanno scientificamente ricercato di proibire ogni controllo popolare su eletti e istituzioni.
Allargando lo sguardo al di fuori del nostro Stato, non si può non vedere come il caso greco sia paradigmatico di come ogni voce potenzialmente dissonante può essere messa a tacere utilizzando il controllo sui capitali e sul sistema bancario o abolendo ogni prospettiva di democrazia.
L’Unione Europea e l’euro non sono quindi di per sé un obiettivo né un errore tecnico, ma sono gli strumenti con cui è stata messa in atto una politica vecchia di secoli. Questo non significa che questi strumenti non vadano contrastati e aboliti, ma occorre considerare che non è abolendo uno dei tanti strumenti dello sfruttamento che si abolisce lo sfruttamento capitalista.
Occorre quindi essere chiari sulla prospettiva di una uscita dalla UE e dall’euro. Si tratta infatti di questioni non più rimandabili, non certo oggetti da dibattito teorico. Però vanno considerate come passaggi tattici non eludibili e non come passaggi strategici. A noi pare che la questione principale sia ancora oggi (e probabilmente lo sarà sempre) la questione del potere.
Pensare di uscire dal sistema euro senza prima nazionalizzare il sistema bancario è una prospettiva che sarebbe terribile e allo stesso tempo inutile. Non a caso, a tempo debito e prima di avviare l’unione monetaria, gli stati sovrani d’Europa hanno sottratto il sistema bancario centrale al controllo dei ministeri. Inoltre, occorre porsi il problema del controllo sul sistema produttivo che in questi anni è passato dal controllo governativo al controllo del capitale.
Vediamo quindi con favore la lettera di Lafontaine come un potenziale avvio di un dibattito non più ristretto, ma il più allargato possibile. Contemporaneamente ci sembra che occorra valutare con esattezza la tattica e la strategia. Il capitale, per ottenere i propri obiettivi, ha sempre distinto questi due aspetti. Pensiamo che questo debba essere anche nel patrimonio teorico dei comunisti.
Oggi, senza la prospettiva di un recupero di sovranità monetaria o politica non si dà nessuna possibilità per la sinistra di classe. Contemporaneamente sappiamo che la sovranità di per sé non significa nulla senza affrontare la questione del potere e delle leve di comando. Paradossalmente, la proposta Lafontaine rischia di essere gradita ad un certo tipo di borghesia perdente o a una frazione di borghesia dei paesi del Sud. Non ci sembra indifferente dire che per i proletari questa prospettiva ha interesse solo se è un passaggio per un trasferimento dei poteri da chi sfrutta a chi è sfruttato.
Rompere la gabbia dell’Unione Europea
Nel mondo esistono due classi: chi sfrutta e chi è sfruttato
Gli interessi dei lavoratori sono di natura contrapposti a quelli dei padroni
Costruiamo una organizzazione di classe che gestisca recupero della sovranità popolare e riconquista di spazi di potere per le classi subalterne.