Dopo mesi di furibondi attacchi, i poteri forti della città di Roma (così significativi da rappresentare un esempio dei poteri italiani) hanno deciso che il Sindaco Marino doveva dimettersi. Hanno deciso che la foglia di fico che avevano messo a gestire i propri affari era diventata inservibile.
Sui giornali ex amici, come l’oscena Repubblica, fioccano le ricostruzioni delle malefatte del chirurgo genovese, reo addirittura di truccare le note spese di quando era chirurgo privato negli USA.
E’ evidente che Marino è stato sconfitto dalla parte peggiore della politica romana che, se è stata combattuta dal sindaco, ha comunque vinto.
Durante il suo mandato, il sindaco PD ha governato in maniera ferocemente liberista. Ha avviato processi di privatizzazione, ha scatenato battaglie contro i dipendenti pubblici, ha aggravato le difficoltà delle partecipate, ha abbandonato le periferie al degrado, ha sostenuto lo sgombero dei centri sociali e culturali. Non ha mosso un dito in sostegno del diritto all’abitare.
L’insopportabilità sociale del Sindaco per i proletari è conclamata dalle prese di posizione dei comitati e dei sindacati che lo hanno combattuto. Non esiste nessuna ragione di classe per spendere una sola parola positiva nei confronti del suo mandato.
E’ quindi incredibile che una buona parte della sinistra si adagi in piagnistei, petizioni per il ritiro delle dimissioni, recriminazioni per una possibile svolta a destra. E’ la conferma che questa parte di sinistra è irriformabile.
Quella parte di sinistra che lo difende e piange per le dimissioni è quella parte che ha smesso di considerare la politica come un mezzo di riscatto per le classi meno abbienti e per i lavoratori e agisce in base a un criterio di pura tifoseria.
Eppure dovremmo pensare a cosa significa governare una città con la scure del patto di stabilità. E’ possibile farlo da sinistra senza rompere con questa tagliola? Noi crediamo di no. Al contrario penseremmo a una sinistra che persegue solo diritti civili, pedonalizzazioni di strade borghesi nel centro, inaugurazioni di targhe ai partigiani. Lasciando marcire migliaia di lavoratori e di abitanti delle periferie. E’ questa la sinistra che vogliamo? E’ per questo che si dovrebbe difendere Marino?
La parabola dell’ex sindaco di Roma è, per molti versi, simile alla parabola di molti altri amministratori che dovevano svoltare a sinistra. I “nemici interni” del PD. Ne abbiamo parecchi esempi: uno dei più eclatanti è il sindaco Doria a Genova. Difendere e sostenere Marino significa difendere anche lui.
Eppure, la “brava persona” Doria sta privatizzando tutte le partecipate, sta sostenendo opere di distruzione del territorio, ha fatto sgomberare spazi occupati, non ha mosso un dito per i lavoratori dell’industria che chiude. Lo difendiamo perché è fuori dai soliti giochi di potere? Lo difendiamo perché il PD probabilmente lo scaricherà al primo momento opportuno per mettere uno ancora peggiore di lui?
Una delle poche cose, apparentemente di buon senso, che si scrivono e dicono quando si difende Marino è che con la sua caduta si favorirà la destra. Il problema è però ciò che non si dice: la destra avanza perché quelle politiche di centrosinistra sono contro i lavoratori. Non è difendendo l’indifendibile che si combatte la destra. Occorrerebbe farla finita con tutta questa sinistra e ricominciare da zero.
Molto probabilmente le ceneri degli esperimenti arancioni (Marino, Pisapia, Doria) causeranno un ulteriore spostamento a destra. Questo è inevitabile e rende evidente che la sinistra che abbiamo oggi è programmaticamente incapace di pensare qualsiasi alternativa.
Sotto molti aspetti, chi rimpiange Marino certifica la propria inutilità sociale. Chi non vuole percorrere più queste strade deve uscire allo scoperto e costruire un’organizzazione di classe che smetta di inseguire il meno peggio e lavori per una politica alternativa contro i poteri forti e dalla parte dei lavoratori.
Abbiamo due possibili vie di uscita: continuare a perpetrare l’errore sostenendo il meno peggio o pensare di ricostruire un nuovo movimento di classe. La prima via è quella del disastro di questi anni. La seconda è quella che vorremmo percorrere.