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Le eventuali sanzioni dell’occidente contro la Russia sono una spada a doppio taglio che farà più danni all’occidente che alla Russia, Continente-Stato di 17 milioni kmq che può tranquillamente vivere in completa autarchia isolandosi dal mondo senza soffrirne indebitamente. Meglio, viviamo nel ventunesimo, piuttosto che nel ventesimo secolo. Le sanzioni economiche saranno solo simboliche perché i beni rifiutati a un Paese vengono rapidamente sostituito da altri. E su questo punto i cinesi non si fanno pregare sostituendo i Paesi che applicano sanzioni. L’abbiamo visto in Iran, s’è visto anche in Corea democratica dove, nonostante le sanzioni occidentali, non manca nulla. S’è visto anche in Zimbabwe, dove quasi ci si dimentica che c’è un embargo economico europeo contro questo Paese, perché lì i voli giornalieri da Harare per Londra sono stati sostituiti dai voli giornalieri per Pechino.
Crisi Ucraina: il grande bluff delle sanzioni economiche dell’Occidente contro la Russia, J.P. Pougala
Mentre scriviamo, …
Mentre scriviamo, l’accelerazione dello scontro tra le potenze occidentali e la Russia, rispetto all’Ucraina, sembra definire la situazione attuale come l’anticamera di una situazione di non-ritorno.
Allo stesso tempo, anche all’interno dello schieramento occidentale, appaiono emergere delle contraddizioni non proprio irrilevanti, “crepe” che, prima di tutto, si stanno aprendo rispetto agli interessi nord-americani e a quelli europei, in primis quelli tedeschi.
La recente visita di Angela Merkel a Kiev e le sue dichiarazioni in favore di una uscita negoziata dalla crisi Ucraina: per avere successo bisogna essere in due parti. Non si può arrivare alla pace da soli, prefigurando un ruolo di monitoraggio da parte dell’OCSE lungo il confine russo-ucraino, rilanciano il protagonismo tedesco in antitesi all’azione statunitense.
In questo contributo vogliamo affrontare la questione, circoscrivendola alle dinamiche geo-politiche e mettendo in evidenza i fattori economici, pur sapendo che l’interpretazione della partita che si gioca oggi in Ucraina non deve schiacciarsi solo sullo scontro tra blocchi, ma considerare come fondamentale il piano dello scontro politico di classe, sul quale torneremo nei prossimi contributi.
Osserviamo dunque con un po’ di attenzione alcuni avvenimenti degli ultimi tempi che, a livello esemplare, evidenziano l’inequivocabile escalation in corso.
La pressione politica per l’inasprimento delle sanzioni ai danni della Russia ha avuto come sua legittimazione principale l’abbattimento dell’ aereo malese, primo effetto collaterale della tendenza alla guerra imposta da Usa e UE, pagato con la vita da circa 300 persone, in prevalenza europee, ed attribuito senza alcuna evidenza probatoria ai “separatisti” dell’est dell’Ucraina, con l’appoggio di Mosca.
L’interpretazione immediatamente data agli eventi ha messo a “tacere” le voci discordanti che si erano levate all’interno dello stesso schieramento padronale europeo contro la prima tranche di sanzioni economiche alla Russia.
Ma, prima sotto traccia e poi sempre più in superficie, stanno emergendo – assieme all’insostenibilità ai fini della verità storica della versione “ufficiale” sull’abbattimento del boeing malese – alcune contraddizioni all’interno di alcuni apparati dell’intelligence americana, le voci discordanti di vari attori del campo della borghesia imperialista con interessi penalizzati dal nuovo corso della politica europea nei confronti della Russia, oltre a una rilevante aggregazione di sistemi-paese e di paesi loro interlocutori non proprio inclini alla sudditanza a Washington e a Bruxelles.
Diviene sempre più evidente, all’interno dell’attuale contesto di “guerra sporca” e di continue operazioni “false flag” sui fronti più caldi, dall’Iraq alla Palestina, passando per l’Ucraina, come sia più che legittimo nutrire dubbi su come la realtà viene rappresentata dal circuito “embedded” dei media mainstream.
Se il lavoro di contro-informazione non sembrava però riuscire a intaccare la verità “ufficiale”, alla fine dalla stessa asservita stampa ufficiale è venuta fuori la scomoda verità: nell’articolo pubblicato il 12 agosto su La Stampa, a firma Maria Grazia Bruzzone ( http://contropiano.org/archivionews/documenti/itemlist/tag/bruzzone ) sono stati resi pubblici i dati che mettono in discussione la versione “ufficiale” sull’abbattimento del Boing malese: è chiaramente la forza degli interessi materiali, più che l’amore per la verità, a mostrare che il re è nudo.
Per noi, in questo tripudio di menzogne e manipolazioni giornalistiche spudorate, ormai all’ordine del giorno, su quanto sta avvenendo in Ucraina, la versione ufficiale rimane un classico esempio di “falso incontestabile”, per parafrasare Debord.
Un altro fatto importante nella cronologia di eventi che hanno preceduto l’attuale precipitare della situazione, che ha portato all’inasprimento delle sanzioni alla Russia, è la sentenza della Corte dell’Aja, che a fine Luglio ha condannato Mosca a rimborsare oltre 50 miliardi di dollari all’ex Yukos. Il pagamento dovrebbe essere effettuato entro la meta gennaio del prossimo anno. Una cifra non proprio indifferente che rappresenta circa il 10% delle riserve valutarie russe. Praticamente l’ennesima sanzione economica ai danni di Mosca. Una chiara presa di posizione dell’occidente favorevole agli oligarchi estromessi da Mosca nella gestione del potere politico, di cui Mikhail Khodorkovskij è la figura più nota: protagonisti designati dall’occidente di un auspicato ma per ora arduo, regime change.
Si tratta degli ex soci di Yukos, riuniti nel consorzio Gml, allora proprietari quasi del 60% dei titoli di un gruppo che era primo per capitalizzazione di Borsa a Mosca, e che il governo russo accusò di frode fiscale, facendo fallire la società e “appropriandosi” tramite Gazprom degli assets, dando vita ad un’inversione di tendenza rispetto all’ascesa al potere degli oligarchi filo-occidentali che avevano precedentemente dominato la scena politica russa, appartenenti all’inner circle di Eltsin, relegandola così al ruolo di attore subalterno e di fatto a “riserva di caccia” dell’imperialismo occidentale.
Nelle politiche governative inaugurate, allora, da Putin, il posto della “nuova” borghesia russa era relegato alla sola sfera economica, negandogli qualsiasi possibilità di ingerenza politica. Lo scoppio della crisi ha poi accentuato questa tendenza, che è bene ricordarlo, non ha comunque messo in discussione tutte le precedenti privatizzazioni.
La crisi mondiale che ha investito la Russia soprattutto nel 2009, scrive Gian Paolo Caselli in “La Russia Nuova. Economia e storia da Gorbačëv a Putin”, edito dalla Mimesis, ha colpito tutti i grandi gruppi industriali che si erano ampiamente indebitati negli anni precedenti sui mercati finanziari internazionali e che hanno dovuto accettare l’aiuto dello stato russo con pesanti condizioni per superare la crisi di liquidità. Ciò ha reso ancora più subordinata al potere centrale la grande borghesia russa e tale situazione è esemplificata da un episodio dell’estate del 2009 quando Mordašov, azionista di maggioranza del gruppo Mechel, ha deciso di chiudere la fabbrica di Pikalëvo, nella regione di S. Pietroburgo. Putin si è immediatamente recato in questa città e ha pubblicamente costretto l’oligarca a riaprire la fabbrica, ricordando gli aiuti concessi al gruppo economico Mechel dallo stato russo.
Il recupero del credito, dovuto all’attuazione della condanna della Corte dell’Aja, vista la ferma intenzione di Mosca di proseguire per vie legali e non pagare, potrebbe avvenire ai danni di società commerciali riconducibili al governo russo, rifacendosi sugli asset di Rosneft e Gazprom, il tutto, tra l’altro, con non secondarie ripercussioni sulle società europee intrecciate con i due colossi russi.
Si tratta ovviamente di un caso di palese ingerenza politica nei confronti della sovranità di uno stato, nella sua capacità di decidere del proprio corso (banalmente di perseguire gli evasori fiscali) ed un attacco diretto a chi, vincendo quello scontro interno, determinò un’altra traiettoria politica per la Russia, dopo la catastrofe gorbacioviana prima e eltsiniana poi.
Si tratta di una delle molte azioni di politica economica, in questo caso travestita da sentenza giuridica, passibili di una retro-azione negativa per gli stessi interessi economici di alcune importanti aziende europee, BP così come l’Eni stessa per fare solo qualche esempio.
Nelle strategie di guerra di Washington nei confronti della Russia bastano gli strumenti convenzionali della politica finanziaria e monetaria – tapering, diffusione del panico tra gli investitori, valutazione della solvibilità – per colpire l’avversario, come sostiene Dario Fabbri in “Fomenta e Domina”, sul quarto numero di quest’anno di Limes dal titolo “L’Ucraina tra noi e Putin”.
Non a caso il lunedì successivo all’invasione della Crimea, l’indice Rtsi della borsa di Mosca scende di ben 12 punti, bruciando quasi 60 miliardi di dollari, la stessa somma spesa per organizzare le Olimpiadi di Soči. E nelle settimane seguenti, le newyorkesi agenzie di rating Fitch e Standard and Poor’s rivedono al ribasso l’outlook della Federazione, portandolo da stabile a negativo, inserendo l’attuale congiuntura geopolitica tra le motivazioni della decisione. La Banca centrale russa prova a cautelarsi ritirando tra il 26 febbraio e il 12 marzo dalla sede della Federal Reserve di New York 118 miliardi di dollari in buoni del tesoro.
Ad inizio agosto il Pentagono ha approvato nuovi aiuti – compresi veicoli blindati e un maggiore addestramento – per rafforzare le forze ucraine che combattono contro “i separatisti filo russi, secondo quanto annunciato dal Dipartimento della Difesa.
Saranno forniti mezzi corazzati da trasporto truppa, merci e veicoli di pattugliamento, binocoli, visori notturni e piccole motovedette, ha detto il portavoce del Pentagono. L’apparecchiatura è valutata sui 8 milioni di dollari e segue un analogo pacchetto di 7 milioni di dollari di apparecchiature spedito nel mese di aprile.
Precedentemente il Pentagono ha anche annunciato 19 milioni dollari di aiuti per contribuire ad addestrare le forze della Guardia Nazionale dell’Ucraina. L’ammiraglio John Kirby ha detto che il denaro contribuirà a formare quattro compagnie di soldati. La proposta richiede l’approvazione del Congresso e dovrebbe cominciare nel 2015. Istruttori statunitensi, oltre quelli che già ci sono, saranno inviati in Europa o la Guardia Nazionale della California, che ha già collaborato con le truppe ucraine in passato.
L’11 agosto, il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, ha dichiarato essere alta la probabilità che la Russia decida di intervenire militarmente invadendo L’Ucraina orientale, il giorno successivo il governo di Mosca ha deciso di ignorare i Dicktat di Usa e Ue che le impedivano di fatto di portare un convoglio umanitario verso le due maggiori città dell’Ucraina dell’est attualmente sotto assedio, centri delle Repubbliche Popolari del Donbass e così ha agito “forzando” l’orizzonte e applicando “unilateralmente” la politica del fatto compiuto.
Già l’attuale premier ucraino Arseniy Yatsenyuk aveva lanciato “una bomba” la settimana precedente, quando, illustrando le sanzioni contro la Russia che il governo avrebbe proposto il 12 agosto, con il fine di colpire 172 individui e 67 compagnie russe accusate di finanziamenti ai terroristi, non ha escluso il blocco del gas russo verso l’Europa.
Per L’Ucraina passa metà del gas che la Russia vende alla UE, un terzo del fabbisogno europeo, e ogni ipotesi alternativa nel breve-medio periodo, sia lo shale gas o fonti di approvvigionamento d’origine geografica differente, non sembrano proprio praticabili, come ammettono candidamente anche gli esperti occidentali… Sarebbe l’ennesimo suicidio politico per Kiev che si priverebbe così dei diritti di transito pagati da Gazprom, ma che agiterebbe questo spauracchio come ultima carta affinché l’Europa sostenga la cricca governativa filoccidentale, sempre più sull’orlo del baratro.
Una mossa pensata probabilmente dagli strateghi di Washington e fatta propria dalla parte più filo statunitense dell’establishment ucraino , per orientare la politica dell’Ue in senso più marcatamente militarista.
Le sanzioni “imposte” da Mosca stanno pesando pesantemente all’Ucraina: si calcola un danno di 7 miliardi di dollari solo per il primo anno. Lo spazio aereo russo gli è interdetto. Il principale mercato di sbocco per l’industria ucraina si sta chiudendo. Le forniture di gas a uso interno sono sospese da metà giugno. Le condizioni “ricattatorie” imposte dal FMI per gli aiuti economici al governo golpista e un malumore crescente, che in alcune zone del paese (come nella Rutenia Transcarpatica) diventa vera e propria insorgenza popolare contro la coscrizione obbligatoria reintrodotta dopo il colpo di stato, nonché le numerose e documentate “diserzioni”, minano la stabilità del traballante esecutivo ucraino.
Anche le sanzioni decise dall’Ue contro la Russia sembrano un altro caso di suicidio economico. Esse vanno, però lette e interpretate come il segno dell’intransigenza di una parte della borghesia imperialista europea, nel perseguire la propria politica bellicista, nonostante le innegabili contraddizioni che essa crea. D’altra parte, per le frazioni imperialiste europee è di vitale importanza l’ affermazione e l’imposizione dei propri interessi anche nei confronti di non secondarie porzioni della propria borghesia e di parti privilegiate del blocco sociale dei rispettivi paesi, i cui interessi economici vengono minati dalle contro-sanzioni che la Russia sta adottando come risposta all’inasprimento di quelle europee. Naturalmente mantenendo del tutto ignari i ceti popolari sulle conseguenze dirette che le sanzioni comporteranno “in casa propria” e concentrando l’attenzione della stampa sullo sperato malumore dei ceti abbienti russi con un tenore di vita filo-occidentale rispetto all’inaspettato cambio di dieta, tra l’altro sorvolando sulle percentuali di consenso riscosse dagli attuali governanti russi da parte dei propri cittadini.
Il bando russo sui prodotti agricoli delle nazioni che applicano sanzioni economiche alla Russia colpirà per un anno prodotti agricoli, che per ciò che concerne i paesi europei consistono, per ora, in un decimo delle esportazioni totali, e quindi costringerà l’Europa a incrementare le sovvenzioni statali agricole nei confronti degli agricoltori che quest’anno già soffrivano di un notevole abbassamento dei prezzi di vendita dei loro prodotti.
Le recenti azioni dimostrative degli agricoltori in Spagna, in particolare l’azione dello Jarc (uno dei principali sindacati agricoli della zona) fuori dal municipio di Lleida che ha “bruciato” la bandiera della UE sono segnali di un possibile surriscaldamento delle tensioni sociali nel settore agricolo in Europa dovuto al bando di Mosca (http://rt.com/news/182236-spain-peach-sanctions-protest/)
Non c’è giorno poi che non venga paventata la possibilità di una estensione del bando ad altre tipologie di prodotti.
All’inizio della seconda metà d’agosto l’autorevole quotidiano Vedomosti, citando due fonti del governo russo, riportava che se le sanzioni contro la Russia si irrigidissero ulteriormente a farne le spese sarebbero tutte le case automobilistiche, vietando l’import di automobili, tranne quelle di quei brand stranieri che hanno spostato la produzione in Russia come Volkswagen, Ford o Renault…
A tale proposito il Sole 24 Ore riporta un’interessante intervista a Vladimir Dmitriev, presidente del gigante bancario VEB, colosso bancario statale russo utilizzato per gli investimenti strategici, presente il 4 luglio a Roma per un incontro internazionale del D-20, il quale stimava a 10 miliardi le possibili perdite per le imprese italiane rispetto ad ipotetiche, poi realizzate, sanzioni contro la Russia.
Come dargli torto quando afferma: le sanzioni alla Russia sarebbero sanzioni al vostro business.
Si tratta di un ennesimo salto di qualità nell’allineamento dei singoli esecutivi nazionali alla politica imperialista europea, non importa a quali costi sociali per i singoli paesi aderenti, tra cui l’Italia, alle prese con una crisi che in questo momento può minare alla base la capacità produttiva orientata all’esportazione (meccanica, arredamento, abbigliamento, ecc.), così come delle “eccellenze” alimentari del Made in Italy e della produzione agricola.
Al contrario, risulta relativamente facile per la Russia trovare altri fornitori, tra l’altro consolidando il rapporto con i Brics (come nel caso dell’aumento dell’esportazione previsto per la carne brasiliana), o con quei paesi, non allineati all’imperialismo occidentale, ben disposti ad aumentare lo scambio commerciale con la Russia come Argentina, Cile ed Ecuador.
Tuttavia, l’aspetto rilevante non riguarda tanto gli scambi commerciali che cambiano ma il flusso di capitali che la Russia sarà in grado di attirare da parte di paesi che non siano l’Europa e gli Usa (con buona pace di chi sostiene che incontrerà difficoltà a finanziarsi sul mercato), consolidando probabilmente in maniera ancora maggiore il rapporto finanziario con i Brics, in particolare la Cina e strutturando maggiormente quelle istituzioni finanziarie di cui questi paesi si stanno dotando.
In particolare l’appeal per l’Unione Doganale Euroasiatica cresce anche all’interno dei confini europei, e forse il referendum sull’indipendenza della Scozia a metà settembre potrebbe essere il volano per questo tipo di ipotesi. Citiamo dalll’introduzione ad un interessante dossier su Scozia: speciale Referendum indipendenza a firma Enrico Vigna, del CIVG news n. 44:
Relativamente alle minacce del governatore della Banca centrale della Gran Bretagna, Michael Carney, circa conseguenze economiche e sociali devastanti per gli scozzesi, conseguenti ad una eventuale indipendenza, il presidente russo ha teso una mano agli scozzesi, dichiarando che possono affrontare la revoca dell’adesione all’Unione Europea senza farsi intimidire; lasciando aperta la possibilita’ di un coinvolgimento e una vicinanza di interessi, ai progetti di integrazione nei progetti eurasiatici. Questa e’ la dimostrazione della limitatezza delle letture e interpretazioni dei politici e analisti americani e occidentali, che valutano l’Unione doganale come un mero tentativo di resuscitare l’Urss, invece la strategia russa, non è contenuta ad una progettualita’ bloccata nello spazio ex sovietico. Il Progetto Eurasiatico avviato da Mosca in questi anni, sta diventando un polo di riferimento per molti paesi emergenti, che si sentono schiacciati nel trattare con Bruxelles o Washington, ritenuti ormai gendarmi politici ed economici globali. Anche il Vietnam e la stessa Turchia, hanno iniziato i negoziati per l’ingresso ad una fase di trattative con l’Unione doganale; Hanoi è gia’ in una fase piuttosto avanzata. L’India sta definendo la conclusione di un accordo di libero scambio con l’Unione doganale, che aprirà ai membri della stessa, un mercato con un enorme potenziale di crescita. Anche la Nuova Zelanda ha iniziato le trattative per firmare un accordo di libero scambio. La storia è davanti ai nostri occhi: solo qualche anno fa, l’idea che un corrispondente della BBC chiedesse seriamente ad un Presidente russo, la eventuale possibilta’ di un inserimento nei progetti di integrazione eurasiatica della Scozia, avrebbe potuto suscitare ilarita’ o essere letta solo in un romanzo di fantascienza… ( www.civg.it )
La crisi Ucraina è una conseguenza diretta dell’ingerenza Nord-americana ed Europea nei confronti della politica di questo paese, con il fine di destabilizzare, per scopi differenti, il precedente esecutivo e determinare il corso politico ucraino a proprio favore. In Ucraina, infatti, si giocava una partita a tre…
Associazione all’Ue, accessione all’area transatlantica di libero scambio e membership dell’Unione Euroasiatica sono infatti irriducibilmente inconciliabili, implicando tra l’altro l’adozione di set regolatori del tutto differenti, afferenti tanto alla sfera economica che alla sfera politica. Così scrive Germano Dottori in “Anche Berlino ha perso Kiev”, sul numero precedentemente citato di Limes. Così la battaglia di Kiev è prima di ogni altra cosa uno scontro sulla futura collocazione geopolitica dell’Ucraina, destinato a determinare se il paese debba gravitare sull’asse euroatlantico o rifluire definitivamente verso Mosca.
La questione ucraina pone apertamente, per le forze anticapitaliste anche nel nostro Paese, la necessità di cominciare a dare forma ad una strategia politica d’uscita dalla Ue e a una campagna di denuncia del suo maggiore sponsor politico nostrano: il Partito Democratico.
Le classi dominante europee ci stanno trascinando “mani e piedi” verso una situazione di guerra, dai contorni imprevedibili, dopo avere “orchestrato” un colpo di stato in Ucraina, eseguito da formazioni apertamente naziste con tutte le sue nefaste conseguenze e dato vita ad una operazione militare criminale contro la popolazione schierata contro l’attuale corso politico di Kiev. Stanno premendo sull’acceleratore di un conflitto che ha già avuto i suoi effetti collaterali con la morte di circa 300 persone su di un aereo turistico, che contribuirà alla desertificazione industriale fatta pagare alle classi subalterne in Ucraina e in tutta Europa e che rischia di innescare una situazione non dissimile a quella prodottasi in Europa esattamente quasi 100 anni fa.
E se può sembrare un’ affermazione solamente retorica, basta leggere la preoccupata rielaborazione che i think tank non solo europei stanno facendo dell’esperienza del Primo conflitto mondiale, alla luce della tendenza di guerra odierna. Non per caso il numero di maggio di Limes vi era interamente dedicato e non come celebrazione di un semplice anniversario…
Sta a noi mettere appunto una exit strategy perché la tendenza alla guerra del nascente polo imperialista europeo lo definisce sempre più apertamente come un edificio nuovo da distruggere.
Collettivo Genova City Strike