Israele, Palestina: appunti sulla guerra come cuore della politica

 Non si deve drenare l’ira

E far si che il ferro insorga

A serbare l’alta immagine

Degli innocenti in ogni terra tormentati

E che fra poco in ogni terra vinceranno.

Le sette poesie d’amore in guerra, Paul Eluard

Questo contributo è il primo di una serie di interventi che nel corso del tempo andranno a sviluppare ulteriormente i vari nodi tematici che in estrema sintesi sono stati qui riportati e che ci preme successivamente articolare in maniera più dettagliata. L’urgenza di elaborare un testo che tenesse insieme un piano teorico analitico, in grado mettere in evidenza alcuni aspetti rilevanti dell’attuale conflitto arabo-israeliano, generalmente trascurati, con alcune indicazioni politiche precise che segnassero una “linea di condotta”, mina forse in parte la comprensione estensiva di alcuni punti rispetto al discorso in generale.

Un guscio d’uovo che contiene il caos

Quando parliamo dell’odierno conflitto arabo-israeliano, dobbiamo innanzitutto tenere presente che viviamo in una fase di transizione politica a livello mondiale.

I singoli avvenimenti di un determinato quadrante geografico accelerano le dinamiche complessive di scontro tra i differenti blocchi geo-politici, determinano le scelte politiche globali e allo stesso tempo inaspriscono le contraddizioni di classe a livello mondiale.

All’interno di questo quadro, le accelerazioni prodotte dallo scontro tra blocchi economici e statuali concorrenti, ed all’interno di questi tra classi antagoniste, ridefiniscono la cornice delle relazioni politiche sia per quanto riguarda il “bilancio di potenza” tra i vari poli, che per quanto riguarda i rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Di fatto, senza che nessuno degli attori globali sia in grado di “governare” le contraddizioni da loro stessi create, in primis quella tra le classi.

Questo non vuol dire semplicemente che la tendenza in atto sia unicamente verso un caos sistemico, ma anche verso lo svuotamento di qualsiasi istanza in grado di fungere da “camera di compensazione” tra le potenze mondiali: appare evidente come, a livello globale, si stia fortemente spingendo il piede sull’acceleratore del consolidamento interno ai blocchi imperialisti e dello scontro tra di essi, con il contemporaneo manifestarsi di una conflittualità di classe sempre più aspra.

Basterebbe guardare con più attenzione all’anticamera dello scontro bellico, la guerra finanziaria tra blocchi contrapposti, per rendersi conto che tra gli attributi dell’odierno mondo multipolare, caratterizzato dalla fine del ciclo egemonico statunitense, non spicca certamente quello della stabilità.

Gli analisti tendono a sottolineare con toni sempre più preoccupati l’instabilità dell’attuale sistema-mondo, ricorrendo spesso, per ciò che concerne gli attori politici coinvolti alla metafora dei “sonnambuli” mutuata da un recente studio storico di Christofer Clark sulle dinamiche che portarono allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Il dotarsi di strumenti finanziari propri e comuni da parte dei cosiddetti Brics, per esempio, evidenzia il cambio di prospettiva con il quale oggi viene pronunciato quell’acronimo.

Coniato anni addietro da uno squalo della finanza per indicare un gruppo di paesi come appetibile meta per i flussi del capitalismo speculativo statunitense, ora l’acronimo “Brics” indica un raggruppamento di sistemi-paese che si sta dando autonomi strumenti di intervento finanziario a livello globale. Nulla di più lontano e dissimile dall’iniziale riserva di caccia per le scorribande finanziarie a cui sembravano essere relegati questi stati, che attualmente stanno dando vita sempre più a un blocco coeso.

La sfida al Dollaro della moneta cinese come moneta di scambio internazionale, in particolare nelle transizioni tra la valuta asiatica e l’Euro, apre una breccia in un sistema pieno di crepe, in cui la fiducia assoluta nella valuta americana non appare più così scontata.

Analogo discorso andrebbe fatto per la creazione di agenzie di rating cinesi, che stanno di fatto “sfidando” l’oligopolio tripartito delle agenzie di valutazione finanziaria americane ed europee.

Il protagonismo crescente in Europa del capitale finanziario cinese poi, che sta acquistando anche in Italia quote non proprio irrilevanti di settori strategici dell’economia nazionale, è un altro dato.

Se leggiamo l’imperialismo politico attraverso la sua base economica, ci rendiamo conto di come queste “mosse” non siano immuni dal produrre effetti politici rilevanti.

Ma ci fermiamo qui con gli esempi, che ci serviranno oltre a sviluppare il nostro ragionamento. Qui ci premeva mettere in evidenza come un regime egemonico statunitense e il ciclo di accumulazione su cui poggiava siano in una fase declinante.

Vogliamo segnalare comunque una interessante lettura del “Default selettivo” argentino proposta da Alfio Neri su “Carmilla” ( http://www.carmillaonline.com/2014/08/12/grazie-argentina-sullultimo-curioso-default-argentino/ ), che nelle conclusioni ipotizza quanto segue: trovo difficile pensare che uno stato nazionale alla fine del mondo abbia potuto vincere contro i padroni del denaro senza aiuti. Forse ci sono state iniezioni di liquidità (dollari) fatte per calmare i risparmiatori argentini che da sempre preferiscono la cartamoneta. Per fare una manovra del genere è necessaria la vicinanza di un grande attore globale con un’enorme disponibilità di dollari come ad esempio la Cina.

Tutto ciò avviene all’interno di trasformazioni epocali che interessano una porzione sempre più grande dell’umanità, che vive sulla propria pelle le conseguenze nefaste dell’attuale fase imperialista, tra le quali il moltiplicarsi dei fronti di guerra.

Prendiamo un fenomeno come l’“urbanizzazione”, con tutti i suoi corollari, come angolo visuale degli attuali sconvolgimenti.

Secondo i dati dell’ONU ogni settimana 1,5 milioni di persone si aggiungono alla popolazione globale urbana…

Il governo indonesiano deve costruire annualmente una città delle dimensioni di Roma per dare casa ai 2,5 milioni di nati ogni anno, mentre all’India serve ogni anno una nuova Mumbai, così come alle autorità messicane, per non parlare poi della Cina che deve costruire annualmente città come Bangkok…

Che risposte fornisce questo sistema all’esercito industriale di riserva, all’enorme massa di sradicati che quotidianamente è costretta ad affollare le metropoli globali? Che destino attende questi “dannati della terra” nella governance globale? Diciamo che, Israele da la risposta “chiavi in mano”, essendosi sviluppata su di un territorio che ha visto anche dal punto di vista economico l’esclusione dei lavoratori palestinesi, la loro marginalizzazione territoriale in enclaves isolate con l’accesso “filtrato” da check-point fissi o mobili in cui si è di fatto sviluppato l’ “autogoverno della miseria”, pianificando un urbanistica in cui l’elemento civile e quello militare sono intrinsecamente legate… Si pensi al sistema di controllo tra Usa e Messico in funzione anti-immigrazione, molto simile al Muro della Vergogna costruito negli ultimi dieci anni nella West-Bank, o al modello “chiuso”, privatizzato e auto-difeso delle Gated Communities che è l’habitat residenziale delle elités cittadine in tutte le realtà metropolitane mondiali, immortalate sullo sfondo di città del Messico dallo splendido film di Rodrigo Plà: la Zona, e di cui il recente sviluppo urbano del sud-est di Marsiglia, in contrapposizione al nord ne è uno dei migliori esempi a noi più vicini.

Su questi temi, come su argomenti simili c’è ormai una vasta letteratura, su cui torneremo con contributi ad hoc.

Raccomandiamo vivamente questi due siti: http://periferiesurbanes.org/ e http://laboratoireurbanismeinsurrectionnel.blogspot.it/

Tornado “sul pezzo”, nessuno può prevedere razionalmente quando la situazione sfuggirà effettivamente di mano agli attori globali e quanto possa essere evanescente la legittimità di quei “contenitori di potere” che sono gli stati e le organizzazioni sociali “intermedie” in questa fase di indubitabile accelerazione storica; se e quando si produrrà, nella tendenza alla guerra, una “salto” verso una dinamica irreversibile, finché governeranno quelli che i Weather Underground definivano con una felice intuizione “I Fanatici”.

D’altro canto, come comunisti, assuefarci alla catastrofe non sembra una soluzione praticabile!

Borghesia imperialista vs proletariato metropolitano

Se apriamo il nostro angolo visuale, in questo contesto la guerra guerreggiata tra lo stato sionista, alleato di USA e UE e il popolo palestinese, apre l’ennesimo “fronte” che sta ampliando sempre più il solco tra i “gendarmi del mondo” e i popoli di una buona parte del globo.

All’interno delle mobilitazioni contro l’aggressione sionista a Gaza si sta catalizzando un crescente sentimento anti-imperialista che si innesta su contraddizioni sociali dirompenti.

Gli stessi governi di alcuni paesi del “sud” del mondo hanno dovuto farsene carico, prendendo scelte diplomatiche conseguenti, anche quando non sono proprio campioni di “progressismo”. Talvolta anche perché, questi governi, anche se non sono coinvolti in un attacco militare diretto, subiscono un attacco a livello economico, come dimostrano il caso dell’ultimo “default selettivo” dell’Argentina o le pesanti sanzioni imposte alla Russia da USA e UE all’interno dello scontro che ha, attualmente, il suo cuore in Ucraina.

Il processo di mobilitazione popolare a fianco del popolo palestinese stretto nella morsa sionista, a cui stiamo assistendo, seppur ampiamente censurato e distorto dai media mainstream, a livello globale, mostra qualche interessante articolazione all’interno degli stessi paesi imperialisti. Il fronte popolare che manifesta contro la guerra israeliana a fianco del popolo palestinese, mostra di identificare, giustamente, il nemico nel polo imperialista più forte, quello statunitense, insieme a quelli in formazione, in primis quello europeo, alleati dell’attore principale dell’aggressione al popolo palestinese.

Gli slogan, le azioni, il tenore “discorsivo” delle mobilitazioni ci raccontano di una coscienza antimperialista diffusa ma priva di organizzazioni politiche in grado di indirizzarla e potenziarla verso obiettivi chiari e precisi su cui catalizzare la lotta e le proteste.

Non è un fatto proprio irrilevante questa polarizzazione politica internazionale: si tratta di un fenomeno che dalle mobilitazioni dallo scoppio della Seconda Intifada a inizio del nuovo millennio, passando per la vigilia dell’ennesima aggressione degli USA in Iraq nel 2003 abbiamo visto crescere a ondate successive.

E se poco hanno sedimentato sul “fronte occidentale” dal punto di vista organizzativo, non si può dire altrettanto rispetto ai livelli di coscienza.

Quello che emerge come dato interessante, su cui ragionare politicamente, è la capacità a livello internazionale, da parte delle masse sfruttate, principalmente quelle che subiscono sulla propria pelle gli effetti delle politiche neocoloniali dentro le metropoli globali, di identificare con chiarezza il nemico politico: Usa e Ue come potenze imperialiste principali e le loro propaggini a livello internazionale. L’attuale situazione di crisi e di contesa mondiale sembra dare alla borghesia imperialista meno margini di manovra di quanti ne abbia conosciuta in un contesto di sviluppo economico e di equilibrio, per quanto precario, delle forze in campo. Forse incomincia, almeno negli incubi della borghesia, a essere percepito il fatto che una scintilla potrebbe incendiare la prateria e che le fiamme, immediatamente propagatesi, potrebbero lambire velocemente la cittadella occidentale al suo interno: le insorgenze metropolitane europee, succedutesi nell’arco degli ultimi dieci anni circa, pur con il loro carattere tanto folgorante quanto effimero, alludono a questo scenario.

Mentre l’ultimo riot negli States potrebbe costituire un importante spartiacque dell’America in crisi.

Israele come cuore della guerra come politica

L’isolamento internazionale di Israele cresce con il susseguirsi dei giorni di questa nuova criminale operazione di guerra, insieme alla sua “sconfitta morale”, in grado di minare, per lo meno a livello popolare, quel processo di “normalizzazione” dell’entità sionista, su cui la propaganda israeliana e i suoi alleati occidentali avevano investito politicamente, con una “battaglia culturale” a tutto campo, in grado di dare una sovra-struttura ideologica ai sempre più stretti legami israeliani con l’Occidente per ciò che concerne il complesso militar-digital-industriale.

Questo è l’unico settore “industriale” trans-cresciuto all’interno di un capitalismo internazionale drogato dall’orgia di speculazioni del capitale finanziario, vera benzina per il motore del “warfare state” sionista e non solo.

Si può dire che anche Israele è un’escrescenza della “recente” bolla finanziaria, pronta a “scoppiare” insieme alla bolla stessa qualora i flussi di capitale venissero meno, e perciò preventivamente ancora più schiava del suo delirio di onnipotenza e della sua mission storica: costituire uno Stato che, come simboleggia la sua bandiera, arrivi dal Mediterraneo al Giordano. Il Sistema-Paese Israele non vive prevalentemente dell’estrazione del plus-valore sottratto ai proletari “israeliani”, anche se un discorso a parte andrebbe fatto per gli immigrati di religione non ebraica che non possono divenire cittadini israeliani, e che hanno di fatto sostituito già prima della Seconda Intifada la mano d’opera palestinese nelle mansioni più faticose e dequalificate, mutando radicalmente la composizione di classe dell’entità sionista, mentre e un altro discorso ancora ancora andrebbe fatto per gli arabo-israeliani…

Israele vive grazie flusso di capitali “internazionali”, prevalentemente statunitensi (la potente lobby sionista negli Usa e la sua posizione chiave nei gangli politico-economico-mediatici del paese), ma anche europei, con cui è in grado “far marciare” il proprio “keynesismo militare”.

Infatti ormai a livello mondiale solo una parte infinitesimale dei flussi finanziari vengono investiti nella produzione industriale, perché meno redditizia. Paradossalmente questa “sproporzione” permette di avere abbastanza facilmente alle aziende linee di credito, senza le quali anche i finanziamenti a breve termine sempre più vitali sarebbero impossibili.

In questo caso si tratta di capitali “dirottati” dalla speculazione finanziaria ad un complesso militar-digital-industriale, il cui beneficio consiste anche in un ritorno in termini di miglioramento del proprio apparato bellico, attraverso una precisa scelta politica che può darsi grazie ad alcuni fattori che sembrano sempre meno scontati se il dominio mondiale a stelle e a strisce non viene perpetuato.

Nel momento in cui la massa di capitale circolante attraverso la rete informatica del sistema finanziario internazionale si restringesse notevolmente “bruciando” una notevole quantità di valore, la prima vittima con ripercussioni immediate sarebbe il sistema produttivo, o meglio la sua capacità di finanziarsi, come è accaduto con lo scoppio della grande crisi in Usa del 2008 all’industria americana stessa, di cui l’industria bellica è una parte rilevante e strategica, la qual cosa ha per così dire stimolato l’opera di salvataggio bancario dopo il crack di Lehman Brother. Questo potrebbe ri-accadere coinvolgendo il flusso di investimenti degli Usa e delle altre economie imperialiste verso Israele, che è bene sottolinearlo non può autofinanziarsi autonomamente…

Conscia di questo deficit strutturale e proprio per colmarlo, la strategia di sviluppo israeliana deve contemporaneamente perseguire l’accrescimento del suo “spazio vitale” in termini di ampliamento dei siti strategici, l’incremento della distanza protettiva, il controllo delle risorse vitali, l’ aumento e la dislocazione delle risorse demografiche e finanziarie attinte dall’immigrazione “ebraica” dall’estero.

E qua sta uno degli aspetti rilevanti del ruolo di Israele nell’imperialismo contemporaneo. Israele è il laboratorio d’avanguardia per tutti i vari aspetti in cui l’imperialismo articola la forma guerra. Dalla guerra guerreggiata, al conflitto a “bassa intensità”, fino alle varie tecniche di subordinazione e controllo che spaziano dalla pianificazione urbanistica, al controllo demografico e alimentare fino al colonialismo culturale. Questa “scienza della guerra imperialista” testata da Israele sul popolo palestinese, viene esportata e riversata a gradi differenti, in diversi territori e contro svariate popolazioni e trova la sua conferma anche solo nella costante presenza dei sionisti in ogni angolo del globo dove ci sia da affinare le tecniche di contro-insorgenza popolare, o determinare dei momenti di rottura con le tecniche troppo morbide di governance fino ad allora maturate.

Di fatto, Israele “ricentralizza” le esperienze maturate sul campo in altri contesti, facendone il proprio “capitale cognitivo” e una risorsa di intelligence di conoscenza dei contesti di “crisi” su cui plasma il suo hardware, divenendo di fatto uno dei campioni della contro-rivoluzione a livello globale. Non è solo un “cancro” coloniale cresciuto in Medio-Oriente, che ha “resistito” al processo di decolonizzazione, ma un modello di governance delle attuali contraddizioni sociali a livello globale: capace, in virtù della sua funzione, di attirare flussi di capitali e di dar vita ad alleanze politiche solide nel campo imperialista occidentale, divenendo un pilastro dell’attuale sistema di dominio.

Tale ruolo di Israele e la sua potenza imperialista dipendono dal flusso costante di capitale finanziario, pompato dal sistema bancario mondiale. Dipendono, dunque, dal riuscire a gestire, da parte del suo partner principale, gli Usa, le crisi economiche “uscendone” riaffermando la centralità e la fiducia della valuta statunitense.

Senza questa alleanza strategica, Israele diverrebbe un gigante dai piedi d’argilla incapace di far funzionare il suo apparato bellico, di garantire un “tenore di vita” ed un “integrazione” alle varie porzioni di immigrati di religione ebraica che fa affluire al suo interno, e una società castrense e “guerriera” come quella israeliana non può permetterselo, pena lo scricchiolare del suo fronte interno.

E qui torniamo all’inizio: per quanto ancora tutto questo potrà andare avanti senza intoppi, se questa dinamica è indissolubilmente legata all’alleanza con gli States, i quali, ormai da anni, stanno oggettivamente vivendo una fase di depotenziamento della loro leadership imperialista a livello globale?

Esattamente per questo motivo, la lotta del popolo palestinese assume ora come non mai una oggettiva centralità, visto che Israele è uno dei pilastri necessari dell’attuale fase imperialista e che la guerra in Palestina anticipa i caratteri che assume il conflitto imperialista a livello planetario.

Uno stato in via di fascistizzazione

La cortina fumogena, fatta di accattivanti eventi sportivi con la partecipazione israeliana, eventi culturali con la presenza di artisti israeliani, la promozione del turismo verso lo stato sionista, ecc. è svanita di fronte all’evidenza della natura nazista dello Stato israeliano che l’ennesima, barbarica operazione militare ha imposto all’attenzione internazionale. Secondo l’autorevole opinione di alcuni dei suoi oppositori interni, lo Stato israeliano sta subendo una metamorfosi nella direzione di una “fastiscizzazione” sempre più evidente e marcata, in cui anche l’intangibilità, nel senso di “inviolabilità fisica”, dell’ “opposizione interna”, per quanto esigua numericamente e di fatto per ora irrilevante, non è un data per scontata. Questo sembra avvenire sia per l’equazione tra nemico “esterno” e quello “interno”, ormai divenuta di senso comune per l’israeliano medio, sia per la percezione sostanzialmente corretta della fragilità dell’edificio politico israeliano.

Italia complice del genocidio

Pezzo dopo pezzo stanno venendo a galla gli stretti rapporti, restando solo all’Italia, che legano il “nostro Paese” e l’entità sionista, nonché il cuore strategico di questa alleanza, vero capolavoro di “esecutivizzazione” delle decisioni governative in tema di politica internazionale.

Sta a noi aumentare questa consapevolezza tra le persone che si attivano, dimostrando con gradi e sfumature diverse i nessi tra la guerra condotta contro i palestinesi là e contro i proletari qua, ribadendo che, come affermavano gli internazionalisti tedeschi contro i social-sciovinisti, il vero nemico è in casa propria e spesso fa finta di indignarsi per ciò che esso stesso provoca.

Il ruolo di primissimo piano che ha l’Italia, all’interno dell’Europa, nel consolidamento dell’alleanza a tutto campo tra il polo imperialista europeo e lo Stato sionista va denunciato additandone i veri responsabili nel PD.

Solo così è possibile cominciare, realmente, a fare chiarezza sulle responsabilità politiche nostrane del genocidio palestinese, “attaccandone” il retroterra strategico, un cuore politico che si articola in un complesso finanziario, industriale, militare, di cui la vicenda degli aerei da combattimento israeliani appena consegnati dall’Italia è più che esemplificativa, dato il coinvolgimento di un gruppo industriale come Finmeccanica e di un istituto di credito come Unicredit.

Solo così, è possibile smarcarsi politicamente dal cinismo che si traveste con i panni dello stucchevole approccio caritatevole e umanitario di coloro che sono i primi responsabili di morte e distruzione e vogliono arrogarsi anche il diritto di essere i primi e principali ad intervenire all’interno di questa ennesima emergenza umanitaria, finanziando la “ricostruzione” e “riempiendo” il deficit di beni di prima necessità…

Incrementare la tendenza all’organizzazione, oltre l’indignazione

Se questo tragico, soprattutto per i palestinesi, esacerbarsi delle contraddizioni imperialiste, porta ad una migliore percezione del nemico imperialista da parte di una parte importante della popolazione mondiale, questo non conduce però automaticamente ad un suo indebolimento nelle sue strutture di potere politico-economico e militare, ed anzi dimostra come “il consenso della popolazione” sia diventato sempre più una variabile trascurabile nei calcoli dei governanti per esercitare il potere, e di come la legittimità popolare non sembra essere al centro delle preoccupazioni del blocco sociale dominante.

Sta a noi militanti comunisti e anticapitalisti costruire quella forza politica organizzata in grado di rendere possibile il poter dare qui un contributo concreto alla lotta antimperialista i popoli, come quello palestinese, con una continuità, uno spirito di sacrificio, un’ inventiva e una determinazione da cui abbiamo solo che da imparare, tenendo ben a mente il fatto che quel conflitto asimmetrico locale è divenuto e diverrà sempre più la cornice del conflitto di classe su scala globale.

Occorre riuscire a fare un salto, non solo denunciando il ruolo dell’Italia e della UE nel sostegno a Israele, ma cercando di individuare e formare dentro le mobilitazioni un nucleo di quadri politici in grado, col tempo, di portare avanti la battaglia politica antimperialista con maggiori strumenti organizzativi, migliori strumenti interpretativi e una capacità di dare continuità all’intervento politico. Diversamente, ci limiteremo a “inseguire” ciò che si muove, anche abbastanza autonomamente da noi, facendo i conti con una legittima e comprensibile indignazione che in questo Paese però quando si manifesta è di breve durata e viene solitamente strumentalizzata dal Potere per i suoi fini tra una aggressione militare ed un’altra: in questo caso con gli aiuti umanitari, il business della ricostruzione, gli investimenti economici allo scopo di creare un’economia “dipendente”, l’infiltrazione nel tessuto sociale tramite una fitta rete di Ong, per perpetuare la subordinazione dei popoli colonizzati.

Non bisogna dimenticare che la guerra là, fa sempre fare dei salti di qualità nella guerra qui sul “fronte interno” come dimostra la strumentale vicenda dell’imam di origine marocchina residente in Veneto espulso dall’Italia: vicenda che ha riaffermato l’attuazione di quello stato giuridico di eccezione permanente che ha caratterizzato la forma stato nel nostro Paese negli ultimi 15 anni, e che, come ha affermato esplicitamente Alfano, rappresenta un preciso monito a chi oggi si mobilita contro la tendenza alla guerra.