Nei giorni scorsi gli operai dell’ILVA di Genova (azienda che lavora oramai solo a freddo su prodotti provenienti dalle aree a caldo di altri impianti) sono scesi molto duramente in piazza per protestare contro il mancato pagamento delle indennità promesse. La protesta ha riportato una vittoria immediata dei lavoratori costringendo il ministro Poletti a rinunciare a una vetrina pubblica prevista in un convegno di Legacoop. Questa vicenda, apparentemente collaterale, riporta in primo piano la vicenda ILVA che nell’ultimo periodo ha riempito le cronache giornalistiche in riferimento alla vicenda Riva e al disastro ambientale dello stabilimento di Taranto. In quel periodo, le nubi che si addensavano su Taranto si manifestavano anche a Genova dove le manifestazioni richiedevano l’avvio di una produzione industriale che garantsse l’occupazione anche a Genova. Sulla vicenda Taranto è poi calato un silenzio solo squarciato dalle vicissitudini giudiziarie che hanno coinvolto la famiglia Riva (con il patron Emilio Riva morto recentemente) e il Presidente della Regione Puglia Vendola invischiato in processi giudiziari conditi da amichevoli telefonate con la proprietà dell’acciaieria responsabile del disastro ambientale e del disastro finanziario-economico che ha portato anche agli sviluppi recenti.
Lavoro contro salute?
I dati epidemiologici relativi all’impatto ambientale dell’ILVA di Taranto non hanno bisogno di essere commentati. I tumori e le malattie colpiscono in città soprattutto nelle zone vicine agli impianti di lavorazione a caldo causando tragedie e disperazione. I più colpiti sono gli operai e le loro famiglie che subiscono più di ogni altro le conseguenze di una produzione adatta a mantenere il più alto livello di profitto per ottenere dividendi e competere sul mercato internazionale. Lo sviluppo della situazione di Taranto ha inoltre messo in evidenza i legami truffaldini che legavano la famiglia Riva (che da circa 20 anni gestisce la produzione dell’acciaio in Italia dopo il regalo delle aziende da parte dello Stato) con i sindacati complici e tutto l’apparato politico. In primis i partiti del centro – sinistra i quali, ancora una volta, proprio sul “caso ILVA” mostravano il loro volto di boia e carnefici della classe operaia e della popolazione. Il “socialfascismo” di Vendola, nel contesto, non ha neppure bisogno di essere smascherato. Chiarito ciò, torniamo al nostro ragionamento.
Quel modo di produrre non è accettabile e colpisce più del solito i lavoratori ricattati fino alle estreme condizioni di sopravvivenza. Questo è stato possibile per complicità che vanno ben al di là delle normali condizioni di sfruttamento dei lavoratori in un sistema capitalista ma rappresentano una normale eccezione dovuta alla natura dei protagonisti, alla loro storia personale e al loro sistema di connivenze. Detto questo è evidente che la produzione dell’acciaio è un esempio di industria pesante a elevatissimo impatto ambientale che è desueta nella recente storia industriale del nostro paese che pur negli anni scorsi ha subito gli impatti dell’industria non solo chimica (Stoppani, ACNA, Montedison, produzione dell’amianto, produzione di energia elettrica, etc…) e di altre industrie che hanno deturpato l’ambiente e determinato disastri alla salute. Disastri che durano ancora oggi (emblematici sono i casi relativi all’uso del carbone per gli impianti di produzione dell’energia elettrica).
Queste situazioni colpiscono l’immaginario e risultano al centro di un discorso sulla produzione ancora oggi nonostante decenni di desertificazione industriale che hanno fortemente ridimensionato l’impatto dell’industria manifatturiera italiano delocalizzando molte produzioni in altre aree. A oggi le statistiche ci dicono che l’Italia continua ad essere uno stato che ha una forte componente industriale manifatturiera ma con caratteristiche completamente diverse: gli impianti industriali sono molti meno di venti anni fa poiché la proprietà e una parte dei settori industriali si è mantenuta nel centro ma ha spostato una parte della produzione pesante in altri paesi questo perché la produzione di acciaio, energia, prodotti chimici non si è esaurita e continua ad essere al centro della produzione globale mantenendone un carattere strategico. Questa la verità vera. La produzione materiale di merci, e in particolare di quelle legate all’industria pesante, era e resta il cuore del sistema produttivo. La classe operaia era e resta il soggetto produttivo centrale del sistema economico con buona pace degli inventori del cognitariato e dei vari seppellitori del del marxismo e della teoria del valore. Una classe operaia le cui condizioni oggettive sono state omogeneizzate e internazionalizzate dallo stesso modo di produzione capitalista. Questo tipo di produzione, infatti, avviene in paesi che subiscono le stesse regole di mercato che sono state all’opera in Italia e che hanno causato disastri ambientali che continuano a reiterarsi. Il fatto che la produzione industriale pesante si sia trasferita in altri paesi dipende in gran parte dalla differenza del costo del lavoro e della produzione di cui una parte notevole è relativa alle norme per il rispetto della salute e dell’ambiente. Ciò che è successo a Taranto succede molto di più in altri stati del mondo. Chiudendo ILVA e altre aziende con quell’impatto ambientale non si risolve il problema del disastro ambientale ma lo si sposta geograficamente spesso in situazioni dove lo strapotere dei profitti sui diritti dei lavoratori (tra cui il diritto primario alla salute) è più elevato.
Come si esce?
La prospettiva di chiusura dell’ILVA e della completa dismissione della produzione dell’acciaio in Italia se da un lato risolverebbe i problemi ambientali e del diritto alla salute significherebbe procedere verso la desertificazione industriale e produttiva che ha colpito duramente il nostro Stato. Per quel che riguarda i problemi ambientali si tratterebbe di procedure ad operazioni di bonifica che garantirebbero lavoro per pochi e per pochissimo tempo, pagati dallo Stato e non dai padroni. Nel passato numerosi siti industriali sono stati chiusi, usando strumentalmente le pressioni popolari legate ai parametri ambientali, all’interno di un disegno padronale legato al realizzo del massimo profitto: sostanzialmente l’impianto chiudeva e la produzione veniva fermata perché le condizioni che si erano create non erano più adatte a estrarre, in quei siti industriali, una quota di plusvalore appetibile per il management. Nella stragrande maggioranza dei casi, ciò che veniva considerata una vittoria popolare, era nella migliore delle ipotesi un compromesso che non spostava di una virgola i rapporti di forza tra classe operaia, popolazione e ceto politico – padronale. Chiuso l’impianto produttivo cresceva la disoccupazione, veniva azzerato il potere contrattuale dei lavoratori organizzati e le bonifiche ricadevano sulla comunità colpita due volte. La produzione restava un affare per i padroni che abbassavano il costo del lavoro, continuavano ad ammazzare lavoratori e cittadini da qualche altra parte e sfruttavano l’Italia come sede di consumo e al limite di controllo centrale su attività svincolate da ogni possibile controllo sindacale e politico. Non si tratta qui di sottovalutare o deridere il sacrosanto diritto alla salute e alla vita in un ambiente decente, si tratta di trarre un bilancio di un fenomeno complesso e stabilire su quale forza la classe operaia e i cittadini possono basarsi per garantire lavoro sano e diritti sociali. Non si tratta quindi di abolire con semplici atti una produzione utile a tutti (non si potrebbe vivere senza acciaio, energia o prodotti chimici a meno di non aderire a progetti insensati di decrescita) ma di trovare il grimaldello per produrre senza danni per la salute e per l’ambiente. I lavoratori sono storicamente gli unici in grado di garantire quella forza che può imporre al padrone il modo di produrre, è parte della nostra storia di comunisti, ne è il cuore. In condizioni di estrema debolezza politica e sindacale i Riva di turno possono fare il bello e il cattivo tempo ma non è semplicemente cambiando Riva con un altro padrone o mandandolo ad inquinare o sfruttare da qualche altra parte che si risolve il problema.
Sappiamo che storicamente la nazionalizzazione delle imprese produttive non è di per se la condizione per un aumento dei diritti o per un miglioramento delle condizioni produttive ma è il primo passo per impostare rivendicazioni politiche di controllo sulla produzione. Dobbiamo quindi smettere di inseguire discussioni fuorvianti che mettono al centro la fine del lavoro, della produzione e del reddito sganciato dal lavoro. Occorre impostare un discorso che rimetta al centro la figura del lavoratore come perno della produzione e come soggetto di potere attivo all’interno di una fabbrica, di una comunità o di uno stato. Non è la produzione in sé che crea il disastro ma è il modo in cui si produce. I morti non sono morti dell’acciaio ma del capitalismo e del profitto. Per cambiare il sistema serve la forza organizzata dei lavoratori. Questa forza politica va costruita con ostinazione e determinazione. La produzione era e resta il cuore della contraddizione principale del modo di produzione capitalista. Le lotte difensive degli operai e dei lavoratori ci sono ma questo non basta. Queste lotte, sole e isolate, possono riportare qualche momentanea vittoria tattica ma sono inesorabilmente destinate a perdere sul piano strategico. Dobbiamo passare dalla resistenza sindacale all’offensiva politica. Per questo la costruzione del partito politico è il passaggio obbligato a cui sono chiamate tutte le avanguardie comuniste.
Lottiamo contro la desertificazione industriale!
Nessun compromesso tra lavoro ed ambiente!
Nazionalizzazione delle industrie e controllo operaio sulla produzione!
La classe operaia deve dirigere tutto!