Elezioni europee, parlamentarismo, astensionismo e prospettiva comunista.
Si avvicinano le elezioni per il parlamento europeo e puntuale dentro il movimento e negli ambiti della sinistra antagonista e radicale, viene riproposto il dibattito sull’opportunità del voto oppure dell’astensionismo. Un dibattito che possiede ormai qualcosa di liturgico nel senso che invece di prendere in considerazione la situazione concreta e il quadro politico attuale, viene condotto sulla base di alcune formule fisse e ritornelli del tutto simili a professioni di fede.
Ciò che ci interessa mostrare è come sia la posizione di chi individua nel voto, come tentativo di legittimare una rappresentanza parlamentare di una sinistra anticapitalista, uno strumento politico utile e valido, sia quella di chi ripropone la scelta dell’astensionismo come unica scelta possibile per le forze anticapitaliste in quanto coerente con la contrapposizione radicale con la democrazia borghese che queste ultime dovrebbero mostrare, siano ormai entrambe posizioni datate, prive di qualsiasi legame con l’orizzonte concreto in cui ci troviamo e destinate perciò a rimanere nel cielo della teoria fine a se stessa e a non avere alcuna efficacia pratica.
Entrambe le posizioni, infatti seppur antitetiche, continuano ad avere come unico orizzonte di riferimento i perimetri propri del Novecento. Ciò che, al contrario, urge focalizzare sono i passaggi storici e politici che caratterizzano l’attuale fase imperialista inaugurata dall’era del cosiddetto capitalismo globale. A diventare centrale, pertanto, sono gli elementi di rottura e discontinuità impostisi. Elementi che hanno scompaginato per intero tutti i criteri entro i quali, per un’intera arcata storica, si erano dati i rapporti tra le classi.
In Europa occidentale il sistema parlamentare e le procedure elettorali che lo hanno caratterizzato hanno conosciuto alcuni caratteri costanti a partire dalla fine del XIX secolo, ossia dall’inizio della fase imperialista del capitalismo, fino alla fine degli anni ‘80 del XX secolo, con il crollo dell’URSS e la fine del sistema bipolare, nonostante le grandi trasformazioni e rotture storiche intercorse in questo lungo arco di tempo. Il tratto costante che ha segnato i sistemi parlamentari occidentali durante questa lunga e per molti versi discontinua arcata temporale è riassumibile nell’inclusione delle classi subalterne all’interno del perimetro statuale grazie anche alla rappresentanza legittima dentro il sistema parlamentare di forze rappresentative dei loro interessi. In un certo senso, la storia della socialdemocrazia in Europa occidentale, nelle sue diverse forme e nelle diverse versioni politiche che l’hanno caratterizzata è la migliore testimonianza della precedente affermazione.
Le forze socialdemocratiche non hanno rappresentato solo il darsi della rappresentanza della classe operaia nei parlamenti borghesi. Il carattere riformista e opportunista di queste forze, del tutto connesso all’assunzione dell’orizzonte parlamentare della democrazia borghese come unico orizzonte di azione politica possibile e che ha potuto vantare una non secondaria presa su ampie quote di proletariati e subalterni, non è stato semplicemente il frutto di un condizionamento ideologico bensì la possibilità di legare, attraverso conquiste “materiali immediate” e l’esercizio, ancorché periferico, di forti istanze di “potere operaio” quote significative, almeno dal punto di vista qualitativo, della classe ai destini della propria borghesia imperialista.
Quest’assunzione, al di là delle differenti epoche in cui ha avuto luogo e delle problematiche diverse e degli obiettivi di volta in volta perseguiti, per i partiti socialdemocratici non ha significato altro se no l’accettazione del sistema statuale borghese come unico sistema possibile, tutt’al più migliorabile e riformabile dall’interno, ha significato quindi l’esclusione della necessità di un rovesciamento del sistema statuale borghese individuato come apparato segnato da un determinato rapporto di forza tra le classi. Non per questo, il movimento e le forze comuniste dal momento della loro separazione dalle forze socialdemocratiche, quindi dal momento dell’elaborazione leniniana del partito e della successiva vittoria bolscevica dell’Ottobre con la creazione dell’Internazionale comunista, hanno rifiutato la rappresentanza parlamentare e le elezioni come strumento politico utilizzabile.
Certo dentro il movimento comunista su questo tema c’è stato un ampio dibattito e le posizioni sono state diverse. La posizione leninista, legata alla III Internazionale, quella indubbiamente di maggior rilievo ed efficacia, è stata quella che ha individuato nel Parlamento una tribuna politica utile per propagandare le idee, per assumere spazi di visibilità, per rafforzare la capacità di rappresentare la classe e i suoi interessi che il partito come forza organizzata della classe deve avere. Uno strumento, secondo il realismo politico leninista, va utilizzato nella misura in cui è utile a rafforzare le posizioni delle forze di classe dentro la guerra di classe. Non ci sono posizioni, strumenti, metodi che si scartano a prescindere, per ideologia fine a se stessa, giusti o sbagliati di per sé, ci sono solo scelte tattiche la cui utilità o meno va valutata concretamente a partire dalla situazione concreta in cui si opera, analizzate quest’ultima secondo un pensiero strategico complessivo . Questo l’insegnamento leniniano in ogni passaggio condotto, vittoriosamente, dal partito bolscevico. Insegnamento che fino a quando è esistita l’Internazionale comunista ha segnato per intero la posizione comunista nei confronti dell’ambito parlamentare. La considerazione dell’ambito parlamentare come strumento politico utile trovava il suo presupposto nel fatto che, in quell’ambito, si dava concretamente la possibilità di rappresentare le posizioni delle classi subalterne e, in virtù di ciò, utilizzarlo come uno dei fronti del conflitto di classe. Solo la degenerazione opportunista e riformista del partito togliattiano trasformò, nel secondo dopoguerra, la tattica parlamentare in strategia tout court assolutizzando in tal modo la battaglia parlamentare.
Nonostante i cambiamenti intervenuti con la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra Fredda, l’interesse delle classi dominanti per una rappresentanza parlamentare delle classi subalterne non è venuto meno e, a guardare attentamente, tutto ciò è dipeso proprio dal fatto che il fronte di guerra rimaneva aperto. Certamente dalla guerra guerreggiata si è passati a una guerra di posizione ma proprio per questo, e in maniera ancora più accentuata, si mostrava la necessità per le classi dominanti di avere il controllo e il consenso dei proletari autoctoni, cioè delle classi subalterne interne ai propri confini nazionali non è mutato. Le borghesie imperialiste a maggior ragione durante la Guerra fredda hanno avuto il bisogno di mantenere un legame con i propri subalterni, perché lo spettro comunista era sempre alle porte. Mai dal Dopoguerra fino al crollo dell’Unione Sovietica, in Europa occidentale si sarebbe potuto dare uno scenario simile a quello a cui assistiamo oggi. Ossia al disinteresse delle classi dominanti per la partecipazione o meno delle classi subalterne alle elezioni e il loro coinvolgimento dentro il perimetro statuale.
L’astensionismo in netta crescita, che nelle ultime amministrative ha sfiorato il picco del 50%, non ha minimamente destato preoccupazione e provocato reazioni da parte delle classi dominanti che, al contrario, hanno osservato il tutto con non secondaria soddisfazione. Ma non si tratta solo di questo. Non assistiamo solo e semplicemente a una “americanizzazione” (la partecipazione politica negli USA difficilmente supera di molto il 50%) della vita politica europea bensì a un passaggio politico incentrato sempre più in chiave decisionista. Che cosa ci raccontano, infatti, le svolte politiche e istituzionali a cui abbiamo assistito, sostanzialmente col ruolo di spettatori, negli ultimi tre anni, da quando si è verificata la caduta pilotata del governo Berlusconi e l’insediamento del governo Monti? Dal governo Monti in poi le svolte istituzionali nel nostro Paese si sono susseguite apertamente e in maniera sempre più rapida. Le elezioni farsa del febbraio 2013 che hanno portato ad una situazione di stallo assai prevedibile non hanno certo mutato questo quadro. La procedura elettorale è stata svuotata definitivamente di qualsiasi senso. Un altro governo, non eletto ma deciso a tavolino principalmente dalle frazioni di borghesia imperialista, è stato messo in carica dopo la rielezione, quanto mai significativa nella procedura e negli esisti, del “nuovo” Presidente della Repubblica. Un Presidente si è fatto il principale artefice della messa in carica del governo. Infine, l’ultima svolta delle scorse settimane che ha visto il cambiamento del governo deciso dentro una riunione di segreteria del PD, estromettendo dal dibattito politico qualsiasi riferimento alla necessità di un’investitura popolare del governo e senza neppure passare attraverso a quell’atto dovuto che è la “sfiducia delle Camere” del Governo in carica, ha chiuso il cerchio e definito ancor meglio i nuovi assetti della politica. Se questo è l’orizzonte politico in cui siamo immessi, la domanda da porsi è come possa sembrare sensato sostenere ancora che la democrazia parlamentare e le procedure elettorali rivestano quel carattere di utilità che hanno avuto precedentemente per le forze di classe. Possiamo anche essere scontenti di questa situazione ma difficilmente la nostra contrarietà servirà a cambiarla. Ugualmente la posizione astensionista sostenuta sulla base di motivazioni puramente ideologiche e “ab eterno”, priva cioè di qualunque riferimento alla situazione politica “concreta”, impedisce di indagare il contesto storico in cui ci troviamo e di poter conseguentemente a quello elaborare una strategia e una tattica efficaci qui ed ora. Così come i parlamentaristi assolutizzano la competizione elettorale, considerando in fondo inessenziale il contesto storico concreto e materiale in cui queste si danno, gli astensionisti per principio considerano privi di interesse per il proletariato e i subalterni i passaggi politici compiuti dalla borghesia. I primi, nella migliore delle ipotesi, sono in grado di finire sull’Aventino senza comprendere che la borghesia ha chiuso la stagione della democrazia liberale mentre, i secondi, finiscono con il considerare l’epopea della democrazia liberale e quella decisionista come semplici facce della medesima medaglia. In tal modo, entrambi, finiscono con l’assumere idealmente la dimensione del politico senza coglierne la concretezza storicamente determinata. In questo modo, chi in maniera opportunista e chi in maniera “estremista”, non fanno altro che dimostrare la loro distanza dal materialismo storico e dialettico e, con questo, dal proletariato.
Anche chi invoca l’astensionismo semplicemente in base al dato di fatto che in questo momento non esistono forze politiche in grado di rappresentare gli interessi di classe in parlamento non apporta un contributo al dibattito politico in qualche modo produttivo. Infatti se si trattasse solo di una mancanza dovuta a scelte sbagliate, a errori ed incapacità, basterebbe decidere di creare una nuova forza migliore da presentare alle prossime elezioni. Tutto questo senza minimamente considerare i passaggi politici concreti che hanno trasformato radicalmente il contesto operativo in cui qualsiasi forza politica è costretta a misurarsi. Le trasformazioni politiche e statuali sono sotto gli occhi di tutti, anche se pochi sono in grado di coglierne il peso che meriterebbero.
Le prima questione che sembra sensato porsi è quali sono le frazioni di borghesia che hanno pilotato la crisi del governo Berlusconi e quali interessi di classe ci sono dietro le svolte decisioniste cui abbiamo assistito fino ad oggi, con la creazione di un ennesimo governo privo di qualsiasi legittimazione popolare. Ripercorrendo le tappe di questo processo appare chiaro come dietro loro ci sia un obiettivo ben preciso, il rafforzamento nella costruzione del blocco imperialista sovrannazionale europeo, come interesse di quelle frazioni imperialiste della borghesia del nostro Paese che si riconoscono nel PD. Non sono state un mistero peer nessuno le pressioni che le elite dirigenti degli istituti politici europei hanno fatto sui governi dei vari paesi dell’Unione negli ultimi anni. La lettera di Trichet e Draghi del 2010, con le direttive circa le politiche che l’Italia avrebbe dovuto applicare, in questo senso è assai significativa. Il governo Berlusconi per la natura degli interessi che lo sostenevano non era il referente adatto per poter seguire e veicolare l’accelerazione impressa dalle oligarchie europee al processo di costruzione del blocco imperialista. Da qui il progetto coltivato da queste insieme alle frazioni nostrane di borghesia imperialista a sigla PD per destituire quel governo e adeguare la forma statuale italiana alla forma statuale in via di costituzione in Europa. Ricordiamoci di alcuni passaggi quali il fiscal compact o il patto di stabilità addirittura inserito dentro la costituzione. A cos’è che abbiamo assistito in ultima istanza? A una trasformazione della forma statuale in cui la sovranità nazionale è stata progressivamente smantellata, insieme allo svuotamento delle forme proprie del parlamentarismo borghese. Infatti il parlamento ha perso progressivamente i suoi poteri, così come le elezioni in quanto suo momento costitutivo. Si tratta del processo di integrazione dei sistemi vigenti nei singoli stati con il sistema in via di costituzione a livello sovrannazionale. Se ci pensiamo bene, infatti, l’assetto istituzionale europeo ha ben poco di democratico: gli organi legislativi e esecutivi europei sono organi dove a comandare sono “strutture tecniche” prive di qualsiasi legame con un corpo elettorale di cittadini e dove è del tutto assente il primo pilastro del sistema democratico borghese, un sistema di controllo reciproco tra i diversi poteri. La necessità di accelerare alcuni passaggi, dettati dalla crisi sistemica del capitalismo e dalle urgenze da essa poste, nella costruzione del blocco imperialista hanno avuto una ripercussione decisiva anche all’interno della forma statuale del nostro Paese. Questo non è affatto strano, se pensiamo al ruolo dell’Italia all’interno della crisi che ha investito l’intera Unione europea dal 2009.
Il rischio “default”, per il ruolo politico ed economico che possiede non poteva essere corso dal nostro Paese, pena la caduta dell’intera costruzione europea. Evitare questo rischio significava accelerare alcuni passaggi politici, portare a termine alcune riforme sostanziali evitando le lunghezze, le mediazioni e le resistenze del vecchio sistema di rappresentanza. Sotto questa lente vanno lette le svolte politiche degli ultimi tre anni. Sotto questo profilo, appare assai interessante il discorso tenuto da Mario Draghi presso l’università di Harward sui passaggi che stanno portando alla costruzione della nuova forma statuale europea. (link).
Draghi, forse suo malgrado, è costretto a svestire i panni del tecnocrate per rendere chiaro di fronte alla platea avversaria il senso di alcuni passaggi avvenuti recentemente. Per spiegare i cambiamenti statuali intervenuti nei paesi europei in direzione della creazione di un’entità sovrannazionale, Draghi parla del passaggio da un modello di democrazia borghese ancora legata ad alcuni cardini del modello liberale ad una “democrazia di output”, così la definisce, ossia ad un modello di governo decisionista di stampo “tecnocratico” che di democratico mantiene assai poco. La chiusura del discorso di Draghi è emblematica laddove ricorda, a quei nemici che durante la fase acuta della crisi dei debiti sovrani auspicavano un crollo dell’Unione e dell’Euro, che il blocco Europeo è prima di tutto una costruzione politica. Rimandare alla dimensione del politico vuol dire esattamente ricordare che dietro alla costruzione dell’Europa c’è un esercizio di potere fondato su decisioni di una classe che tale potere lo detiene ed è pronta a difenderlo con ogni mezzo necessario.
Ma ritorniamo alla storia del cortile di casa nostra. Come detto, negli ultimi tre anni abbiamo assistito a svolte politiche del tutto rilevanti che hanno cambiato la forma statuale del nostro Paese, del tutto in linea con quanto avvenuto a livello europeo. Questo passaggio è stato gestito attraverso una serie di procedure di vario tipo dalle frazioni imperialiste della borghesia nostrana. Il PD è il soggetto politico chiamato a gestire e realizzare tale progetto. Da questo punto di vista la svolta renziana, avvenuta in pieno clima decisionista, rappresenta un traguardo non da poco. In questo senso la nomina di Renzi da parte di Napolitano non può che far tornare alla mente le procedure eccezionali attraverso le quali Hinderburg consegnò la Germania al “caporale boemo”. Per quanto in maniera farsesca, la storia del resto dopo aver mostrato il suo lato tragico finisce sempre per volgere in farsa, il nostro “custode della Costituzione” ha traghettato, esercitando appieno il suo potere sovrano, la decrepita democrazia imperialista verso ciò che, per quanto in maniera confusa e anche un po’ buffa, si declina già come l’ “Ordine nuovo”. Con la sua azione legittima, il “custode della Costituzione”, ha posto fine a ogni parvenza di legalità democratica e di rispetto delle procedure costituzionali. Una nuova era si è obiettivamente imposta.
Il dato che salta all’occhio è che questo non ha portato a nessuna grossa manifestazione di protesta popolare e tanto meno ad alzate di scudi da parte di una qualche forza politica istituzionale. Il perché è facile da trovare: le forze istituzionali sono tutte allineate sulla medesima linea di condotta che punta all’esclusione delle masse dallo Stato, le masse, dal canto loro, già da tempo hanno espunto dal proprio orizzonte di interesse la procedura elettorale e l’assemblea elettiva parlamentare. I dati sull’astensionismo e il clima che si respira nei luoghi dove le masse vivono raccontano di una totale disillusione e disinteresse nei confronti di una partita da cui le classi subalterne non si sentono più minimamente coinvolte. E questo perché evidentemente le classi dominanti hanno operato in maniera tale da escludere qualsiasi peso e possibilità di rappresentazione dei subalterni dentro le istituzioni statuali. Le masse hanno registrato questi passaggi ben prima di quanto abbiano fatto le forze politiche antagoniste. Anzi in realtà a guardare il dibattito politico attuale risalta chiaramente il fatto che se da una parte le classi dominanti sono consapevoli dei passaggi operati e dall’altra le masse abbiano abbandonato qualsiasi forma di consenso e coinvolgimento nella gestione dello Stato, le sole a rimanere prigionieri di un orizzonte definitivamente tramontato sono le forze e i partiti della sinistra radicale o antagonista! Ed ecco allora che assistiamo ancora ai dibattiti sterili sulle liste elettorali e l’opportunità o meno di appoggiare questi progetti. Gli uni e gli altri si concentrano sul giustificare o meno i progetti elettorali o l’astensionismo ma nessuno ha cominciato nel frattempo a lavorare significativamente per ricostruire una reale internità alla classe e una rappresentanza reale al suo interno.
Ciò che sembra mancare quasi ovunque negli ambiti delle soggettività politiche è la capacità di imparare ciò che le masse hanno da insegnare e imparandolo di saper reinserire dentro la classe quelle intuizioni in maniera articolata e organizzata, di saperle rendere progetto politico. Sembra sensato chiedersi da cosa dipende questo ritardo e questa arretratezza ormai congenita delle forze politiche anticapitaliste e antagoniste. Alcune considerazione è possibile farle. Va registrato come, in primo luogo, manchi la capacità ad assumere per intero le trasformazioni che stanno avvenendo nella produzione materiale e nelle forme statuali, attraverso la costruzione e la metabolizzazione di una teoria politica in grado di saperle leggere. Inoltre, a mancare è la capacità di emanciparsi dall’intossicazione ideologica perseguita strategicamente dalle classi dominanti, le quali hanno scientemente distrutto il materialismo storico e dialettico in quanto arma in mano alla classe per costruire la propria idea forza. Solo un’idea forza infatti è in grado di rendersi forza materiale in grado di unire e far avanzare la classe sul terreno della lotta politica per il potere. La sudditanza ideologica è tale per cui si ha paura a pronunciare perfino le parole dell’emancipazione di classe, invece di farsi forza trainante e capace di dare la spinta ci si accoda alla spoliticizzazione della classe pensando che quello sia il solo modo per poterne catturare l’attenzione. Invece di cogliere la fama di emancipazione politica automa delle masse, ci si schiaccia sull’individualismo e l’anonimato che le classi dominanti gli impongono.
Il tempo attuale pone delle sfide molto alte alle soggettività politiche, sfide che richiedono l’assunzione totale del terreno del politico, terreno che comportata un coinvolgimento decisivo anche sul piano esistenziale di chi vi opera. Una decisione politica è una decisione che ha bisogno di un’idea - forza che sia una forza materiale in grado riportare il piano delle esistenze individuali dentro quello del tempo storico e collettivo della lotta di classe per il potere.
Probabilmente lo sviluppo dei nuovi rapporti di produzione e quindi dei nuovi rapporti sociali in grado di riaprire sul piano storico l’orizzonte della rivoluzione sono ancora in una fase confusa di determinazione. Va affermato con forza però che nessun rapporto e nessuna contraddizione sul piano sociale ed economico sono in grado di per sé di partorire il cambiamento: ad intervenire deve essere una soggettività organizzata in grado cogliere e rendere cosciente ciò che altrimenti resta solo implicito nel corpo sociale. Centrale rimane pur sempre la capacità di decidere politicamente. I nostri nemici di classe, pur dal punto di vista necessariamente limitato dalla loro condizione storica, decidono per far fronte alla crisi del sistema che governano. Per tornare anche noi a decidere, occorre affrontare le rotture storiche e le novità che abbiamo di fronte, abbandonare il cielo sterile della politica accademica e dottorale insieme a tutti i suoi rituali obsoleti, per ricostruire la teologia politica delle classi subalterne.