Verso il polo imperialista europeo

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Quello che segue è il testo del seminario sulla storia del progetto di integrazione europea che si è tenuto il 4 marzo 2014 presso la libreria del popolo al piano terra della Casa Occupata di Pellicceria a Genova. Il testo in pdf lo scaricate sopra. Il testo è basato sulla lettura di “Fuori dal capitale” edito da Centro di documentazione Wakatanka. Volume pdf “Fuori dal Capitale” di Centro di documentazione Wakatanka

Appunti per una storia della costruzione del Polo Imperialista Europeo

Introduzione e scopo del lavoro
Il testo che segue è una analisi per sommi capi dello sviluppo economico dell’Unione Europea dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Il criterio interpretativo utilizzato è lo schema marxista. Il parametro fondamentale è determinato dalla caduta tendenziale del saggio di profitto. Le innovazioni tecnologiche legate alla produzione, alla commercializzazione e al flusso di merci e capitali non fanno altro che aumentare la composizione organica del capitale e prevedono (dal punto di vista delle classi dominanti) un aumento del saggio di sfruttamento della forza lavoro. In Europa, dopo la guerra, assistiamo ad un periodo di ripresa economica generale in cui l’Europa ritrova quote di mercato. Il Piano Marshall è decisivo nella parte iniziale. Con gli aiuti gli Stati Uniti impongono il loro potere politico sui paesi occidentali e conducono un pezzo fondamentale della guerra fredda contro l’Unione Sovietica. I paesi europei incominciano subito ad introdurre forme di coordinamento economiche e politiche per migliorare gli scambi interni, armonizzare le loro economie e conquistare potere nei mercati. La fine del sistema monetario di Bretton Woods cambia totalmente le carte in tavola introducendo nuove variabili nei rapporti economici tra gli USA e il resto del mondo. La supremazia economica USA per molti anni è comunque incontrastata ma il sistema americano comincia lentamente a cedere supremazia nonostante il ruolo (che mantiene tuttora) di banchiere del mondo (reso possibile dalle sue possibilità di signoraggio). Negli anni 80 si fa strada l’idea di un profondo rinnovamento in Europa per la costruzione di una più rigida organizzazione economica e politica. In quegli anni il mondo risponde all’inflazione crescente nei paesi avanzati con una ristrutturazione ideologica incarnata dalle politiche del presidente Ronald Reagan e dal primo ministro inglese Margaret Thatcher. L’offensiva mira a scardinare le conquiste economiche dei salariati e l’aumento della quota dei salari sul profitto ottenuto nel decennio 1960-1970. In Europa sono gli anni della sconfitta dei minatori inglesi e della fine del ciclo di lotte operaie e sociali che in Italia avevano visto il loro ciclo più lungo. La sconfitta operaia alla Fiat nell’autunno ’80 ne è l’emblema. A livello generale aumenta notevolmente il divario economico tra la Germania e il resto dei paesi europei. Le politiche tedesche si basano sull’export e sulla moderazione dei salari e fanno di quello stato il più adatto a guidare la costruzione formale dell’Unione Europea che nel 1992 effettua un salto di qualità con il Trattato di Maastricht. Da qui in poi si traccia la strada verso l’unione monetaria che porterà all’Euro. Questa costruzione si intreccia a livello globale con il crollo del sistema sovietico del 1989. In Europa si aprono grandi spazi per il capitale. Uno dei passaggi fondamentali è la riunificazione tedesca che viene condotta scaricando i costi effettivi su tutti i paesi dell’Europa. L’altro elemento centrale che cambia le relazioni economiche è l’incessante procedere del processo di globalizzazione dei mercati. Questo processo è affiancato dalla libera circolazione dei capitali e dalla ristrutturazione mondiale del sistema bancario. La possibilità accresciuta notevolmente, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, di trasferire i capitali e gli investimenti produttivi cambia le regole economiche mondiali creando il fenomeno dei paesi emergenti (BRICS). Nel centro del capitale si differenziano diverse strategie: quella USA basata sulle politiche espansive e quella europea guidata dalla Germania. Il criterio sembra essere la creazione di un polo imperialista europeo a guida tedesca per strappare attraverso l’euro il potere di banchiere del mondo agli USA. La crisi dei subprime interviene pesantemente sui conflitti economici interimperialistici disegnando nuovi scenari in cui si inserisce l’economia cinese in un periodo di sviluppo poderoso appena scalfito dall’attuale crisi. La guida tedesca però continua ad imporre un sistema di relazioni economiche in Europa basato sull’aumento del saggio di sfruttamento del lavoro che apre probabilmente un lunghissimo periodo di ristrutturazione a danno delle fasce più deboli.

Indice:

1) Brevi cenni sulle teorie del valore e del profitto

2) I “trenta anni gloriosi”

3) Gli anni 70 e la fine di Bretton Woods

4) Gli anni 80 e il Sistema Monetario Europeo

5) Trattato di Maastricht
Inserto 1) Le istituzioni europee

6) L’entrata in funzione dell’Euro

7) Politiche intorno alla moneta unica
Inserto 2) La crisi del 2001. I Brics

8) Il ruolo guida della Germania

9) Dalla crisi USA alla crisi del debito

10) Polo imperialista Europeo

Nota:
questo lavoro è sostanzialmente basato su una analisi puntuale ed approfondita presente nel libro “Fuori dal capitale”, materiali sulla crisi in Europa. Centro di documentazione Wacatanca, Milano 2012
Altre suggestioni si possono trovare studiando Marx oppure leggendo la divulgazione marxista in Internet. Alcune analisi sono fatte molto bene e alcuni concetti resi in forma semplice ma intelligente. Non è come leggere Marx ma…

1) Brevi cenni alle teorie sul valore e sul profitto

In questa parte iniziale è necessario un breve ripasso di alcuni concetti chiavi del pensiero economico sviluppato da Karl Marx dagli scritti iniziali ai vari libri del Capitale. Spiegheremo quindi sommariamente alcuni concetti utili per capire lo sviluppo delle forze produttive ed istituzionali in Europa.

Secondo la teoria del valore in Marx il ciclo fondamentale è rappresentato dalla sequenza

D-M-D’

In questa sequenza vediamo come i capitalisti con il denaro possano far produrre merci ai lavoratori per poi rivenderli ad un prezzo superiore al capitale investito.
Parte fondamentale del pensiero di Marx è l’idea che il divario D-D’, cioè il profitto dipenda in ultima istanza solo da un lavoro eccedente che è richiesto al lavoratore. Chiunque venda la sua forza lavoro (trasformata in merce) prende un salario che è dato da fattori economici che gli garantiscono la sua riproduzione sociale quale merce forza lavoro. Questa parte si chiama salario ed è lavoro vivo. Il sovrappiù D’-D per Marx non può venire da un aumento del prezzo della merce (banalmente perchè rivendendola il capitale si autotrufferebbe), non può venire dall’acquisto dei lavoratori (perchè i salari dovrebbero aumentare di conseguenza) e non può venire fornito da una terza classe (ad esempio lo Stato in quanto le sue riserve derivano dalla produzione). Il profitto dipende quindi in ultima istanza da un sovrappiù di lavoro (pluslavoro) che si trasforma in plusvalore.
Questa teoria è spiegata diffusamente nel Capitale e sostanzialmente non viene alterata da altre forme di profitto (finanziario, rendita, etc..) non legate direttamente alla produzione.

Una delle formule centrali nel pensiero economico di Marx è il saggio di Profitto

Saggio di Profitto= Plusvalore/Capitale investito + Salario

Il saggio di profitto è dato dal plusvalore ricavato dalla vendita di una merce diviso il capitale totale ottenuto sommando la spesa in infrastrutture, macchine, ricerca e sviluppo e la spesa in salario.

Secondo Marx il capitalismo ha nel suo interno un antagonismo naturale che deriva in ultima istanza dal fatto che lo sviluppo stesso della sua potenza porta inevitabilmente alla caduta del Saggio di Profitto nel lungo termine. Questa teoria è nota come”caduta tendenziale del saggio di profitto”.

Per spiegarla ci sono varie possibilità. Una delle più semplici è dividere matematicamente i termini dell’equazione del saggio di profitto per il totale dei salari erogati ai lavoratori.

Il Plusvalore diviso la spesa in salari si chiama:

“saggio di sfruttamento”= Plusvalore/Salario

e rappresenta la quantità percentuale di valore in più che il capitalista ottiene rispetto al lavoro vivo

Il Capitale Investito diviso la spesa in salario si chiama:

“Composizione organica del capitale”= Capitale Investito/Salario

e rappresenta la quota percentuale di lavoro che il capitale fa svolgere alle macchine. Questa composizione organica deriva in sostanza dallo sviluppo della ricerca, della scienza, dell’intelligenza applicata alla produzione di merci.

La nuova relazione ci presenta quindi il saggio di profitto in questo modo:

Saggio di profitto= Saggio di Sfruttamento/(Composizione organica + 1)

Ovviamente, lo sviluppo della scienza e della tecnica tendono ad aumentare fortemente la composizione organica del capitale. Questo porta inevitabilmente ad una diminuzione del saggio di profitto a meno di aumentare il saggio di sfruttamento cioè l’aumento dei profitti a carico del lavoratore.

Marx coniò l’espressione secondo cui il capitale è “esso stesso contraddizione in processo”. Ciò significa in vero più cose ma l’interpretazione che Marx usò nei suoi primi scritti si riferisce proprio alla forma del saggio di profitto. Per Marx il capitale sviluppando enormemente la tecnica crea le condizioni per far lavorare meno i salariati ma non può farlo perché questo diminuirebbe il suo profitto. L’unico modo per accrescerlo è aumentare il tasso di sfruttamento del lavoratore (ad esempio aumentandone l’orario, diminuendone il salario, abbassandone le tutele, etc…)

Esso crea quindi le condizioni per la liberazione dal lavoro salariato ma questo creerebbe anche la sua fine. Esso è costretto ad accrescere la composizione organica del capitale per poter competere con gli altri capitali e produrre meglio con minor costo: questo però è possibile solo con aumento dello sfruttamento della forza lavoro.

La caduta tendenziale del saggio di profitto è perciò una contraddizione interna allo sviluppo del capitale. In molti modi e in maniera temporanea il capitale può tamponare questa caduta ma in questo modo non risolve il suo problema strutturale. L’aumento del numero dei lavoratori, una maggior concentrazione in grandi multinazionali, la conquista e l’espansione dei mercati, il ricorso al credito finanziario etc… possono ritardare l’emergere della crisi che si può riversare solo sui salariati fino al limite della sopravvivenza e della possibilità di riprodursi come merce lavoro. Ad un certo punto le condizioni sono tali che per il capitale non rimane altro che la distruzione del capitale costante (ad esempio attraverso le guerre) per ricominciare un nuovo ciclo di accumulazione.

saggio di profitto italia
Saggio di profitto Italia 1970-2009

2) Lo sviluppo economico dell’Europa nel dopoguerra. I “trenta anni gloriosi”

a) Primi enti di coordinamento continentali

Intorno alla metà degli anni 40 la produzione e la quantità di capitale in Europa era al livello degli anni trenta. Era andato perso un decennio di accumulazione del capitale. Negli stessi anni la produzione USA aumenta del 25%. Dopo la guerra l’aiuto fondamentale per l’Europa Occidentale fu fornito dal Piano Marshall, un piano di aiuti (spesso a fondo perduto) di 12 miliardi di dollari in cambio di accordi bilaterali sugli scambi. I paesi europei avevano bisogno di ricostruire le tecnologie per le industrie che assumono il modello USA del fordismo. L’aiuto USA è anche in relazione alla necessità di trovare sbocchi per i propri prodotti che erano in eccedenza rispetto al proprio territorio. Sul piano politico il Piano Marshall è una manovra di contrasto verso l’URSS.

L’Europa crea i primi coordinamenti per la gestione del Piano Marshall (OECE, che nel 1958 si trasforma in OCSE) e per avviare la liberalizzazione del commercio sui vari paesi. Negli anni 50 viene creata anche l’UEP per favorire il finanziamento di debiti temporanei nei vari paesi.

Il sistema monetario mondiale in quegli anni è centrato sul sistema di Bretton Woods che fa del dollaro la moneta principale ancorata alle riserve d’oro. Tutte le altre monete si devono ancorare al dollaro.

L’accordo detto GATT del 1947 riduce i dazi doganali favorendo la ripresa delle esportazioni nei vari paesi. In quegli anni lo Stato assume un ruolo regolatore delle economie e agisce soprattutto a sostegno della domanda interna, principale destinazione delle merci prodotte.

Ad esempio in Italia nascono i grandi gruppi pubblici (ENI, IRI, Partecipazioni statali). Fu anche esteso attraverso l’erogazione di welfare il salario indiretto per sostenere la domanda interna di merci. In tutta Europa, in particolare in Germania nasce un fronte di collaborazione tra Stato, imprese e sindacati per tenere comunque a freno i salari e mantenere liquidità da investimento nelle imprese.

La moderazione salariale fu però resa possibile dalla presenza di un elevatissimo numero di disoccupati. L’esercito industriale di riserva fu garantito infatti anche da un afflusso di lavoratori dalle colonie, dai paesi dell’est e dai trasferimenti tra la campagna e la città.

b) Primi anni 60 nasce la CEE (Comunità economica europea)

La CEE, Comunità economica europea nasce con il trattato di Roma nel 1955 ed entra in azione tre anni dopo. In 10 anni porterà all’abbattimento delle tariffe sull’export dei paesi europei e tra l’Europa e gli altri paesi extraeuropei. In generale in Europa aumentano le esportazioni. L’internazionalizzazione degli scambi maschera in questa fase la caduta del saggio di profitto. Si assiste anche ad un primo momento di sofferenza per i monopoli industriali italiani.

c) Negli anni 65-70 i nodi dell’accumulazione vengono al pettine

In questo periodo lo sviluppo precedente dovuto alla ristrutturazione del dopoguerra mostra le prime crepe. L’internazionalizzazione degli scambi e l’aumento di scala delle imprese non compensa più l’aumento continuo della composizione organica del capitale. Il saggio di sfruttamento non può aumentare in questa fase anche perché la fine del trasferimento dei lavoratori dalle campagne alle città si è esaurito in quanto il settore agricolo non può deprimersi ulteriormente. L’esercito industriale di riserva comincia a ridursi anche se in Europa non si interrompe il flusso dei lavoratori soprattutto della parte sud del mediterraneo. Dopo sostanzialmente due decenni di pace sindacale in Europa riprende la conflittualità di classe con aumento vertiginoso degli scioperi. In quegli anni, anche in virtù della ripresa di conflittualità nei luoghi di lavoro, la quota dei salari sale molto anche se solo parte degli aumenti rimangono nelle tasche dei lavoratori a causa di un elevato tasso di inflazione. L’Europa, per la prima volta dopo la guerra soffre di una crisi di sovrapproduzione e si assiste ad una caduta del saggio di profitto.

scioperi europa
Scioperi, dati decennali
curva scioperi
Curva scioperi Italia

3) Gli anni 70 e la fine del trattato di Bretton Woods

Nel 1971 Richard Nixon decide di disancorare il dollaro dalla sua convertibilità in oro. Questa scelta dipende principalmente dalle difficoltà dell’economia statunitense che fino ad allora aveva privilegiato rapporti basati sulla presenza di cambi fissi e gestione multilaterale. L’aumentato peso economico dell’Europa e del Giappone cominciavano però a creare problemi agli Stati Uniti che in quegli anni subiscono una forte inflazione che è tra le cause della perdita delle quote di esportazione.
Alcuni dati macroeconomici danno il segno di una riconquistata forza dell’economia europea nei confronti di quella USA:

“Nel periodo tra il 1960 e il 1967 il tasso di crescita del Pil reale nei paesi europei fu mediamente del 5% mentre il Pil USA dal 1967 iniziò a decelerare dal 2,7% fino al -0,3% del 1970. Il reddito nazionale degli USA, che nel 1950 rappresentava il 36% del reddito mondiale, alla fine degli anni ’60 era sceso al 30%. Nello stesso periodo le esportazioni manifatturiere sul totale delle esportazioni dei 6 paesi più industrializzati erano passate dal 25 al 18.5%. Contemporaneamente le riserve auree erano scese dai 17.8 miliardi di dollari del 1960 ai 10.8 del 1968. Il 1960 segnò anche un altro punto di non ritorno, i dollari in circolazione all’estero avevano superato le riserve auree di cui disponeva la Federal Reserve”*
tratto dal blog Militant

La fase di turbolenza che segue all’abbandono del sistema di Bretton Woods si risolve però con lo shock petrolifero dei primi anni 70. Nonostante gli aumenti dei prezzi gli USA continuano ad essere i principali destinatari dei barili petroliferi che vengono scambiati in dollari. Dai paesi arabi questi soldi vengono però nuovamente reinvestiti negli USA che in quegli anni recuperano notevoli quantità di petroldollari.

La risposta europea alla fine di Bretton Woods è la nascita del “serpente monetario europeo”, un tentativo di armonizzare le svalutazioni delle monete europee necessarie per compensare le manovre di svalutazione del dollaro e salvare le esportazioni. Il meccanismo di armonizzazione però fallisce e i dissidi tra gli stati europei comportano anche la messa in discussione della CEE attraverso l’eliminazione del voto a maggioranza nelle commissioni. La sostanziale impossibilità di decidere da parte della CEE fa si che i paesi europei prendano strade economiche diverse.

a) Francia, Gran Bretagna e Italia

In questi paesi le banche nazionali decidono di aumentare la massa monetaria in circolazione sostenendo anche attraverso un aumento del welfare la domanda e i salari. Si va verso un aumento dell’inflazione che veniva compensata da successive svalutazioni per salvare l’export. La parte di ristrutturazione aziendale per aumentare la competitività veniva gestita con l’estensione di un diffuso sistema di ammortizzatori sociali.

b) Germania

Il paese tedesco sceglie in questi anni una strada completamente diversa. Decide di puntare su una profonda riorganizzazione produttiva. Viene rivalutato il marco tedesco mantenendo l’inflazione ad un livello molto basso rispetto agli altri paesi europei. Internamente in Germania viene sviluppata una stretta sindacale fortissima (in parte le lotte sindacali della fine degli anni 60 avevano strappato numerosi aumenti di salario) con licenziamenti e rimpatri della forza lavoro eccedente. Diminuisce quindi fortemente la quota degli occupati (dal 73 al 76 un milione e mezzo di posti di lavoro persi!) mantenendo quindi un adeguato esercito industriale di riserva. In quegli anni la Germania decide di investire soprattutto all’estero investendo direttamente in altri paesi. Soprattutto in quelli in via di sviluppo. L’obiettivo è l’aumento della massa dei lavoratori a minor costo con conseguente aumento del saggio di sfruttamento. In questo modo la Germania pone le prime basi per una espansione che porterà al suo ruolo trainante in Europa fino ai giorni nostri.

4) Verso gli anni 80 e il Sistema Monetario Europeo (SME)

Nel 1978 gli stati Europei centrali danno il via allo SME ancorando le loro valute al Marco attraverso la creazione di una moneta virtuale l’ECU. Viene stabilito un range (ancora flessibile) di oscillazione sulle valute per non creare svalutazioni competitive delle singole monete nazionali. Chi viola le regole esce dallo SME (in Italia e Gran Bretagna si assegna un margine superiore). La Germania è in attivo sulle esportazioni e in teoria dovrebbe aiutare i paesi in difficoltà ma non viene fatto per non alzare ulteriormente l’inflazione. Gli anni dello SME vedono una diminuzione generalizzata dell’inflazione in Europa pagata con aumento della disoccupazione (in Italia si perde circa un milione di posti di lavoro concentrati soprattutto nel settore manifatturiero). Le imprese avviano un programma di ristrutturazione interna aumentando l’automazione. Questo fenomeno è accompagnato da una serie di sconfitte operaie che hanno come epicentro le sconfitte dell’autunno ottanta alla Fiat e le lotte dei minatori inglesi.
In questo quadro fa temporanea eccezione la Francia che nazionalizza parte delle sue imprese e avvia una politica a sostegno della domanda interna. Questo cambio di tendenza, in un mondo che si avvia verso la liberalizzazione degli scambi e delle merci causa un enorme disavanzo nella bilancia dei pagamenti francese. Nonostante il suo forte peso specifico nell’economia europea, la Francia esce dal meccanismo dello SME e vi rientrerà solo svalutando il Franco e promettendo successive politiche di austerity. La sconfitta politica francese dei primi anni ottanta è da tenere presente quando si spiega che il problema della crisi è legato alle politiche non espansive. In un mondo che si avvia verso una impennata liberista alcune politiche legate ad una precedente fase protezionistica perdono di validità.

a) Gli anni novanta e l’Atto Unico Europeo

L’ancoraggio delle monete dello SME è una fase non sufficiente in quanto stabilizza il mercato comune europeo ma non rimuove alcuni fattori che ne limitano le potenzialità. Nonostante successive reiterazioni ed allargamenti delle leggi sui dazi (partite con l’accordo GATT) i vari paesi mantengono ancora barriere non doganali a sostegno delle industrie nazionali. Il totale degli investimenti degli stati è ancora molto rivolto verso l’interno. A livello di produzione l’Europa è ancora molto debole nei settori in espansione dell’elettronica e delle telecomunicazioni. A tutto questo tenta di rispondere il “Libro Bianco della Commissione Delors”. Si tratta di un insieme di circa 300 norme atte a favorire una più ampia circolazione di merci e capitali. L’obiettivo dichiarato di queste norme che entreranno in vigore con l’Atto Unico definitivamente nel 1992 sono la creazione di industrie europee di scala maggiore per competere sul mercato globale, la facilitazione di ingresso dei capitali dall’estero e dal resto del mondo non europeo.
L’effetto in prospettiva più rilevante è la ristrutturazione necessaria del mercato finanziario con la fine della distinzione tra banca commerciale e banca finanziaria.
Nell’Atto Unico si cominciano anche ad introdurre i meccanismi che porteranno attraverso varie ristrutturazioni istituzionali a bypassare il giudizio dei singoli stati. Ad esempio la Commissione Europea tende ad assumere decisioni a maggioranza, mentre vigeva la regola del consenso degli stati. In questi anni appare evidente la funzione che verrà poi elaborata con la metafora del pilota automatico. Il ruolo della libera circolazione dei capitali fa sì che il rischio di attacchi speculativi verso i singoli paesi blocchi di fatto il meccanismo delle svalutazioni monetarie. Questo meccanismo comincia ad essere presente e verrà in seguito certificato attraverso l’imposizione del trattato di Maastricht e l’avvio dell’Unione Monetaria con la nascita dell’Euro.
La liberalizzazione dei capitali maschera per un periodo la caduta dei profitti ma la riorganizzazione produttiva dei settori di lavoro (automazione, flessibilità nella produzione, just in time) aumenta ancora il peso della composizione organica del capitale. La ripresa del saggio di profitto è breve e ad inizio anni 90 riprende la caduta. Tra l’altro la liberalizzazione dei capitali e la liquidità messa in gioco della FED americana per ripianare gli effetti del crollo di Wall Street portarono ad una ripresa dell’inflazione che risparmiò solo la Germania alle prese con la riunificazione con l’est tedesco.

5) Il trattato di Maastricht

a) Come si arriva al trattato

La forte liquidità immessa dalla Federal Reserve Usa aveva creato una impennata dell’inflazione anche in Europa. La Germania era alle prese con la riunificazione ed aveva bisogno di capitali dall’estero. Si rivalutò quindi il Marco e si alzarono i tassi di interessi. Le altre monete europee non potevano rispondere che con la svalutazione e quindi la fuoriuscita dal Sistema Monetario Europeo (nonostante un forte aumento delle bande di oscillazione permesse). L’appetibilità tedesca per i capitali causò una forte fuga del denaro dai paesi meno ricchi della Germania. Tutto ciò creò forti tensioni interne agli Stati Europei che portarono l’Europa ad un bivio: o si tornava al passato con la fine dello SME o si rilanciava l’integrazione attraverso un meccanismo di convergenza che avrebbe portato alla moneta unica. Si scelse la seconda strada e si adottarono i criteri di convergenza.

b) I criteri di convergenza

I criteri approvati nel trattato sono sommariamente:
uniformità dei livelli inflazionistici
convergenza tra i tassi di interesse delle monete per evitare fughe di capitali
convergenza dei cambi per evitare svalutazioni competitive
armonizzazioni delle regole fiscali con parametri sul debito pubblico e sui deficit annuali
I parametri da rispettare vengono indicati in questo modo:

Deficit annuo < 3% PIL
Debito pubblico < 60% PIL

c) Gli effetti del trattato di Maastricht

Politiche del lavoro

Si procede in maniera spedita verso una ulteriore riorganizzazione del mercato importando ancora di più i meccanismi di automazione flessibile e stringendo ancora di più il cappio dell’aumento del saggio di sfruttamento.

Esternalizzazione produttiva

Tutto il ciclo produttivo delle imprese (non solo le parti esterne di servizio) vanno verso una esternalizzazione di parti del ciclo produttivo. Il cuore centrale dell’impresa diventa una holding industriale-finanziaria che mantiene a se alcuni settori che controlla direttamente (ad esempio ricerca, sviluppo e marketing) mentre parti della produzione vengono appaltate ad una catena di fornitori che gestiscono in proprio sia il necessario processo di innovazione tecnologica (e il conseguente peso dell’aumento della composizione organica di capitale) che le conseguenze sui salariati con l’aumento del saggio di sfruttamento. Oltre alle ricadute sulla conflittualità sociale (spezzettamento delle unità produttive fordiste) l’impresa centrale può meglio gestire ristrutturazioni di personale affidate ad imprese legate ma esterne all’azienda di riferimento.

Internazionalizzazione del ciclo produttivo

Questo fenomeno gode anche di fattori esterni che lo facilitano fortemente. Il crollo del socialismo reale con la possibilità di allargare le imprese ad Est, lo sviluppo di infrastrutture informatiche, etc…sono fattori dirimenti. In questo frangente si realizzano per le imprese possibilità di sfruttare una nuova divisione internazionale del lavoro trasferendo le attività manifatturiere nei paesi periferici dove il costo del lavoro è inferiore. In questi paesi comincia un fortissimo fenomeno di proletarizzazione. L’internazionalizzazione però segue più strade: da un lato le imprese aprono nuove filiali nei paesi centrali per aprirsi a nuovi mercati, dall’altro delocalizzano la produzione nei paesi emergenti. Per favorire l’internazionalizzazione si creano in questi anni anche le zone macroeconomiche per gli investimenti.

Lo sviluppo ad est

Conseguenza della fine del socialismo reale, l’apertura del mercato dei paesi dell’Est avviene attraverso l’offerta di un processo di integrazione che deve avvenire tramite il rispetto dei criteri di convergenza. Ciò comporta l’avvio di un feroce processo di ristrutturazione nei paesi dell’ex blocco sovietico. Le privatizzazioni dei servizi e dell’industria di stato avvengono svendendo il patrimonio ad industrie che delocalizzano sfruttando un costo della forza lavoro pari al 10/30% del costo nei paesi centrali. La diminuzione del costo del lavoro compensa ampiamente un calo di produttività del lavoro di circa il 40%.

La creazione di un polo sud mediterraneo

Circa il 5% degli investimenti va verso i paesi a sud del Mediterraneo. Il processo si chiama “Processo di Barcellona” ed è il risultato di un accordo tra i paesi dell’Europa e 12 paesi del mediterraneo. Si aprono imprese delocalizzate soprattutto nei settori delle Pubblic Utilities e nel settore tecnologico.

Ristrutturazione del sistema finanziario

Per rispondere alla libera circolazione dei capitali le banche si ristrutturano diventando attori finanziari e tralasciando il loro vecchio ruolo di gestore dei risparmi. Il fenomeno parte dai paesi anglosassoni ma si propaga in Europa. Le nuove banche si trasformano in Istituti attraverso la gestione dei fondi pensione e attraverso la fusione con le assicurazioni. I nuovi attori finanziari si ristrutturano anche a livello di scala con la creazione di conglomerati finanziari europei (Generali, Alianz, AXA, etc…). Negli anni ottanta negli Stati Uniti viene abrogato il Glass Steagal Act abolendo la distinzione tra banca commerciale e banca d’affari. In tutti gli anni 90 questo processo si mette in atto in tutta Europa. Accanto alle banche “universali” si sviluppa anche un sistema finanziario ombra staccato dalle grandi banche. Il processo andrà avanti negli anni anche attraverso la privatizzazione degli istituti bancari e la separazione di fatto tra la Banca Centrale e i governi degli stati.

Ruolo degli stati nazionali

Favorire il processo di riorganizzazione accompagnandolo con leggi apposite per permettere le ristrutturazioni. Minore spesa pubblica e per il welfare abbassando deficit pubblico. Sviluppo delle esportazioni e contrazione delle importazioni tenendo bassi i redditi dei lavoratori.

d) Situazione economica in Europa dopo Maastricht

Le politiche adottate in Europa in seguito al Trattato di Maastricht rappresentano quindi un modo per scaricare sui lavoratori il peso di una ristrutturazione sociale necessaria per entrare nell’Euro e favorire l’aumento di competitività per la creazione di un polo imperialista europeo. L’aumento della stretta sociale sui lavoratori si nota dal livello della disoccupazione che cresce fino all’11% mentre in USA rimane costante.

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Inflazione stati occidentali

Inoltre molti dei nuovi assunti subiscono in massa il ricatto della precarietà e dei lavori “atipici”. In quegli anni aumentano fortemente part-time e tempo determinato. Con la messa a lavoro di molti giovani crescono anche le ore lavorate. Questo fenomeno riguarda soprattutto la possibilità di messa al lavoro di giovani studenti, donne e anziani che ritardano l’addio al lavoro. In Europa negli anni 90 la parte dei profitti totali sul reddito cresce di 5 punti, mentre diminuiscono le quote dei salari rispetto al capitale totale. Ciò comporta una crescita del saggio di sfruttamento per tutti gli anni 90 ed una ripresa temporanea del saggio di profitto. Ma non tutto va per il verso giusto neanche per il capitale in quanto a fronte di un aumento delle ore lavorate e del saggio di sfruttamento si assiste ad una diminuzione della produttività del lavoro rispetto agli Stati Uniti. Esiste ancora un ritardo sulle nuove tecnologie e sull’high-tech e si investe di meno sulla composizione organica di capitale. Secondo le interpretazioni della BCE (quindi fonte non sospetta) la possibilità di aumentare a dismisura il saggio di sfruttamento spinse gli imprenditori a non occuparsi troppo della ristrutturazione tecnologica e ad investire poco in capitale costante.

Inserto 1) Lo sviluppo istituzionale in Europa dopo Maastricht

a) I tre pilastri dell’integrazione europea Il trattato di Maastricht rilancia quindi con forza il progetto politico dell’Unione Europa basandolo su tre pilastri:

– Integrazione economica (il voto sulle delibere economiche è a maggioranza degli stati membri)

– Politica estera e sicurezza (con voto all’unanimità)

– Cooperazione giudiziaria e controllo immigrazione (con voto all’unanimità)

Quindi si mette in moto un meccanismo il cui maggior peso e la maggior capacità decisiva è concentrato sull’aspetto delle politiche economiche dove il voto a maggioranza esclude i veti e rilancia la predominanza dell’asse franco-tedesco. Successivamente il processo di integrazione passerà per altri vertici tra cui il Vertice di Nizza che deciderà per l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est e per il Vertice di Lisbona che introdurrà un allargamento delle politiche con voto a maggioranza anche sulle politiche del lavoro e fiscali.

Le istituzioni in Europa

L’architettura istituzionale in Europa si compone di strutture decisionali e di regolamenti di diversa natura. E’ un sistema molto complesso che prevede una pluralità di centri decisionali che attivano meccanismi di cooperazione. I regolamenti emessi sono di diversa natura e di diverso impatto sui singoli paesi

Strutture

Commissione Europea

Consiglio Europeo

Consiglio dei Ministri Europeo

Parlamento Europeo

Corte di Giustizia Europea

Regolamenti

Norme primarie: Trattati

Norme secondarie: Regolamenti, Direttive, Decisioni, Pressioni, Raccomandazioni… Istituzioni

Commissione Europea

E’ la sede dove vengono elaborate le proposte che vengono poi immediatamente recepite o sottoposte al vaglio delle altre strutture. Ha sede a Bruxelles ed è formato da membri di nomina governativa con una struttura manageriale di supporto. Funziona da proposta ma anche da esecutivo su alcuni temi. Ai suoi margini avviene un processo detto “comitatologia” dove le associazioni finanziarie, imprenditoriali, sindacali e di altra natura intervengono in modo lobbystico nelle proposte.

Consiglio Europeo

E’ in teoria l’organo politico principale essendo composti dai Capi di Stato, dai Primi Ministri e dal Presidente della Commissione Europea. Funziona da camera di composizione tra gli stati membri analizzando le proposte della Commissione Europea.

Consiglio dei Ministri Europeo

Riunisce i ministri dei vari stati europei nei vari settori. Ha una funzione legislativa approvando o non approvando le proposte della Commissione. In questa sede l’80% delle decisioni viene assunto a maggioranza (anche se si lavora sempre per raggiungere voto unanime al limite cercando di emendare le proposte della Commissione).

Parlamento Europeo

A livello legislativo è al pari del Consiglio dei Ministri Europeo. Ha funzione legislativa. Funziona sostanzialmente con il metodo della codecisione col Consiglio dei Ministri (80% dei casi). In caso di conflitti legislativi con i ministri europei si cerca di trovare un compromesso. Sulla maggior parte delle questioni affrontate il Parlamento Europeo cerca di decidere all’unanimità per aumentare il proprio peso politico rispetto alle decisioni dei ministri.

Norme: Oltre alle norme primarie che sono i Trattati, le istituzioni promulgano i regolamenti che sono ad applicazione immediata, le direttive che indicano gli obiettivi da raggiungere ma lasciano discrezionalità agli Stati membri sui modi, le decisioni che sono vincolanti ma per un insieme ristretto di enti giuridici e le pressioni che non sono vincolanti per i singoli paesi.

6) L’Unione Monetaria Europea e l’Euro

Il processo di convergenza iniziato con Maastricht è propedeutico alla nascita della moneta unica che entra in vigore dal 1 gennaio del 2002 come unica moteta scambiabile. Gli obiettivi dell’euro sono molti, ma il principale è la creazione di una moneta che vada a competere direttamente con il dollaro cercando di sottrargli influenza. Effettivamente, dal punto di vista monetario, i primi dieci anni dell’Euro vedono un incremento dal 18 al 30 % delle riserve mondiali delle banche in euro. Sono positivi anche i risultati in termini di percentuali di scambi. In realtà le ricadute della moneta unica sono soprattutto verso i lavoratori. Attraverso l’Euro si va creando un mercato di obbligazioni europeo che permette alle imprese di godere di una maggiore liquidità finanziaria. Ma il punto decisivo è la parola fine (in modo ufficiale!) alla svalutazione della moneta per rilanciare la competitività. Non sono più possibili svalutazioni per aumentare l’export e l’unica possibilità di risanamento è legata alla dinamica salariale restrittiva (con aumento del saggio di sfruttamento) e alla distruzione del servizio pubblico.

La BCE e l’Euro

Ruolo centrale nella gestione della moneta unica ha la Banca Centrale Europea. L’indipendenza politica della Banca Centrale serve per dar fiducia al mercato ed attrarre investimenti sull’Euro. Il sistema con cui la BCE ritaglia la sua politica monetaria è l’ancoraggio drastico rispetto ad alcuni parametri. Il principale è il PIL potenziale (cioè legato al livello di occupazione e di sviluppo del capitale organico). La rigidità della BCE funge da creatore di fiducia e funziona parzialmente come funzionava il sistema di Bretton Woods per il dollaro. Fissando un valore preciso di PIL potenziale si stabilisce che la produzione totale deve rimanere al di sotto di un certo livello per non aumentare numero dei salariati e inflazione. Un altro parametro collegato alla stabilità monetaria è il NAIRU (livello di disoccupazione). Viene stabilito un livello ottimale intorno all’8-9% competabile con un mercato del lavoro considerato ancora troppo rigido.

7) Le regole nel campo delle politiche fiscali e del lavoro

Il trattato di Amsterdam nel 1997 fissa una serie di criteri per le politiche sul lavoro degli stati dell’Unione Europea. Su queste politiche Maastricht aveva impostato dei criteri per decisioni unanimi che sostanzialmente rendevano complicata la legislazione europea in questo campo. Ad Amsterdam si supera questo problema allargando il voto a maggioranza su queste politiche. Questa strategia prende piede nel Consiglio Europeo di Lisbona che introduce una strategia europea per l’occupazione (SEO) ed un coordinamento tra stati per l’applicazione delle direttive (MAC). L’obiettivo è la modernizzazione del mercato del lavoro. Questi obiettivi sono riportati nel libro verde sul mercato del lavoro pubblicato nel 2006 dove gli obiettivi secondo la Commissione Europea sono promuovere una modernizzazione allargando l’uso delle tecnologie e dell’automazione e di promuovere una diversificazione contrattuale attraverso l’estensione della flexsecurity… L’obiettivo è l’aumento della flessibilità in entrata e in uscita. Alcuni dati danno conto di questa tendenza:

Flessibilità in entrata

Tra il 1990 e il 2005 il lavoro dei nuovi assunti presenta contratti precari o atipici fino al 40%. Questo fa salire l’intera percentuale del lavoro atipico (precario e part time) dal 13 al 18% dell’intera gamma dei contratti.

Flessibilità in uscita

Aumento delle ore di lavoro anche attraverso un allungamento dei parametri sul tetto massimo di ore settimanali. La commissione europea propone che le 48 ore settimanali diventino il valore medio e non più il tetto massimo. Si prevedono contratti possibili fino a 55-60 ore settimanali. Nel 2007 la Banca Centrale Europea traccia un bilancio (a suo modo di vedere) positivo delle politiche sul lavoro adottate nell’area euro: rileva infatti che i redditi nominali tra il 1995 e il 2005 sono aumentati della metà rispetto al precedente decennio. Questo rallentamento nei salari la BCE lo fa risalire all’aumento dei salariati dovuto all’allargamento ad Est ma anche all’applicazione delle politiche dei singoli stati nazionali. In particolare la Banca Centrale nota con soddisfazione che il numero di giovani lavoratori a tempo determinato passano dal 1994 al 2004 dal 40 al 60%. Aumentano il numero dei salariati attivi le fasce meno pagate (giovani, anziani e donne). Si nota anche un dato positivo (sempre dal loro punto di vista) sugli incentivi per la flessibilità in uscita con un passaggio di aumento di 9 mesi sulla durata in anni del lavoro nel periodo 2001-2005 (età media di uscita a 60,7 anni).

Allargamento ad est

Sulle dinamiche dei salari riveste un ruolo fondamentale l’allargamento ad est verso i 10 paesi che entrano nell’Unione Europea. Negli anni 2000 l’export dei paesi della vecchia Unione verso i paesi dell’Est triplica in valore assoluto (da 80 a 240 miliardi di euro) mentre aumentano anche più o meno in uguale misura gli investimenti diretti all’estero (passano nel decennio in questione da 97 a 225 miliardi di euro). Oltre all’allargamento del mercato, si pone con forza il criterio dell’abbassamento del costo del lavoro (circa il 15% rispetto ai paesi del centro) appena contrastato da una perdita di produttività (il 60% rispetto ai paesi centrali). Inoltre le dinamiche si estendono drammaticamente anche ai lavoratori del centro sotto il ricatto delle delocalizzazioni).

Inserto 2) La crisi USA del 2001 e il ruolo dei BRIC

Quasi in contemporanea all’attacco alle Torri Gemelli negli USA si scatena una crisi che coinvolge soprattutto la cosiddetta new economy. La Federal Reserve agisce immediatamente stampando moneta che non si traduce in aumento dell’inflazione per più fattori concomitanti: Politica di deflazione salariale Aumento dei contratti atipici delocalizzazione produttiva (soprattutto verso la Cina) aumento delle spese militari per finanziare le guerre al terrore Questo comporta un aumento del debito pubblico statunitense che fondamentale gli Usa risolvono in un patto di azione monetaria con la Cina che consente di mantenere alto l’export cinese e far affluire dollari dalla Cina per finanziare il debito pubblico statunitense. Questa macchina del credito si risolverà in parte nella crisi dei subprime nel 2007. Brasile, Russia, India e Cina diventano nel ventennio 1990-2010 il vero centro della produzione mondiale di manufatti (soprattutto commodities). Il loro export mondiale passa dal 27 al 50% del totale mondiale. La loro quota sul PIL mondiale sale dal 19 al 38%

8) Una ulteriore ristrutturazione

Agenda 2010 tedesca

Nel 2003 il governo tedesco vara la cosiddetta agenda 2010 (detta anche agenda Hartz) per rispondere al ristagno dell’economia tedesca (30% del PIL europeo) seguito al crollo di Wall Street e dovuto alla competizione dei BRIC. L’agenda prevede una formidabile stretta sui salari, un aumento della precarietà e il passaggio ad un sistema di contrattazione più flessibile. In sostanza i provvedimenti sono:

Taglio di 9 miliardi di euro a favore delle imprese (parzialmente recuperabile con aumento dell’IVA sui consumatori)

Taglio assegni di disoccupazione

Maggiore facilità di licenziamenti

Regole per spingere i disoccupati a trovare un lavoro

L’agenda 2010 ha effetto immediato. Nel 2003 la Germania, che aveva sforato il patto di stabilità stabilito dai criteri di convergenza, vi rientra immediatamente. Per capire la reale portata sull’economia tedesca (e la mannaia sul lavoro dipendente) dell’agenda si possono utilizzare i dati del costo di lavoro per unità di prodotto (CLUP). Una sua diminuzione può essere imputata ad una migliore organizzazione produttiva o ad un aumento del capitale organico ma, in questa fase, è soprattutto legata alla diminuzione dei salari. Il CLUP in Germania dal 2000 al 2007 scende del 12%. Scende anche in Francia (-4,5%) ma salta verso l’alto negli altri paesi (Italia + 26,5%, Spagna +13%). Il divario di competitività tra la Germania (ed in parte della Francia) con altri paesi aumenta. Altri dati significativi dell’agenda 2010 sono il crollo dei salari più bassi (-14%) mentre crescono i salari più alti (+3,5%). Nel decennio precedente ai 2000 salgono al 20% i contratti precari. Ma il vero capolavoro (per le imprese e per il capitale tedesco) è lo sviluppo della contrattazione aziendale al posto di quella nazionale. Dopo l’accordo firmato dal sindacato tedesco dei metalmeccanici (IG Metall) nel 2004, i contratti aziendali diventano la norma. Circa il 40% delle imprese in Germania a metà degli anni 2000 opera con contratti non afferenti al contratto nazionale. Sempre nel 2004 fa scuola un contratto firmato alla Siemens che prevede l’aumento della settimana lavorativa da 35 a 40 ore. Saranno in seguito (solo nel 2004) più di 500 imprese tedesche ad aumentare l’orario. Sulla ristrutturazione pesano le oggettive difficoltà dei sindacati tedeschi alle prese col fenomeno delle delocalizzazioni. In Germania tutto ciò è acuito dalla riunificazione con la ex DDR dove il costo del lavoro è minore. Inoltre la Germania ha sfruttato enormemente l’allargamento del mercato con i paesi di tutto l’ex blocco sovietico e il 40% delle esportazioni tedesche è fabbricato in quei paesi. La Germania inoltre investe all’estero nei BRIC aumentando i contatti soprattutto con la Cina. L’aumento dei profitti delle imprese tedesche nel primo decennio dei 2000 è del 6%. I profitti però non arrivano alle famiglie tedesche i cui consumi ristagnano.

a) Italia e Francia seguono il modello tedesco ma i risultati sono diversi.

Le leggi sulla precarietà (Treu nel 1997, legge 30 del 2005) tendono ad accrescere la stretta sui contratti anche in Italia dove però a differenza della Germania il CLUP rimane molto elevato. Viene quindi richiesta all’Italia una ulteriore modernizzazione sulla produttività del lavoro (verso il modello di Pomigliano) e una maggiore elasticità nelle regole in entrata e in uscita dal mercato del lavoro.

clup europa 2000-20013
Costo lavoro unità di prodotto Europa

Francia

Dal 1989 al 2011 in Francia si perdono circa 250 mila posti di lavoro. In controtendenza il governo socialista di Jospin abbassa la giornata lavorativa a 35 ore ma introduce nuovi elementi di flessibilità. Le 35 ore termineranno in sordina con il successivo governo di centro destra. Nelle aziende si sperimentano regole per accrescere la giornata lavorativa e resistere alle delocalizzazioni (accordo alla Bosh molto simile all’accordo Siemens in Germania).

I PIGS

Portogallo, Irlanda, Spagna e Grecia seguono un percorso politico economico diverso. Questi paesi si indebitano fortemente. In questa fase godono di afflusso di capitali a debito ma la loro economia si orienta verso i settori interni (turismo e immobili). In questa fase il loro debito estero è privato ma dallo scoppio della bolla dei subprime si trasformerà in debito pubblico.

9) La crisi mondiale dei subprime arriva in Europa

Nel periodo dal 2007 al 2008 il PIL europeo sale al 2,8%, superiore al valore di soglia ottimale pensato dalle BCE (1,9%). Questi dati generano inflazione. L’opportunità per una nuova ristrutturazione arriva però con la crisi dei debiti che è passata velocemente dagli USA all’Europa. I titoli “tossici” USA sono presenti in gran numero nelle banche soprattutto tedesche. Crolla immediatamente il sostegno alle imprese con effetto di diminuzione dell’inflazione dal 4 allo 0,6%. La crisi che colpisce soprattutto le piccole e medie imprese (ad esempio il meccanismo delle imprese a rete nei distretti del Nord Italia) fa perdere il lavoro al 3,6% della forza globale lavorativa in Europa (dal 2008 al 2011 vengono persi 3,8 milioni di posti di lavoro nell’eurozona). Le banche e gli stati mettono in campo una politica espansiva per finanziare gli istituti di credito. Il debito si trasforma da privato in pubblico.

a) Come risponde l’Europa alla crisi dei debiti?

Inizialmente in maniera molto blanda lasciando campo libero alla speculazione internazionale. Le banche tedesche e francesi sono esposte per circa 1000 miliardi di euro con le banche dei PIIGS (si è aggiunta una I, quella dell’Italia). Ritirano i loro titoli e lasciano le banche prive di liquidità che devono essere salvate dagli Stati. In questa prima fase il debito da privato diventa pubblico. La speculazione internazionale, a questo punto, agisce vedendo che il debito pubblico è fuori controllo con il rischio dell’uscita dalla moneta unica. Sale la speculazione e lo Stato con le banche non possono più interagire né aiutarsi a vicenda: si ha quindi una crisi di solvibilità.

b) Il caso Grecia

La BCE interviene in Grecia usando il “contagocce” e dividendo gli aiuti in tre tronconi. Ogni tornata di aiuti però non fa diminuire il rapporto Debito/PIL che continua ad aumentare. Ogni aiuto è condizionato ad una serie di aggiustamenti strutturali che richiedono riduzione dei salari, riforme delle pensioni, chiusura imprese e privatizzazioni.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti (scioperi generali compresi) e viene ben segnalata da questo saggio pubblicato sulla rivista “Oltre l’austerità”: Oggi la Grecia è al quinto anno consecutivo di recessione, la produzione industriale si è ridotta di un quarto in soli tre anni, il tasso di disoccupazione si è più che triplicato nello stesso periodo, raggiungendo il 23% nel primo semestre del 2012, e più di 100.000 imprese hanno chiuso i battenti nel solo 2011: l’immagine è quella di un tracollo verticale dell’intera economia e sembrerebbe fugare l’ipotesi, avanzata in apertura, di un preciso disegno redistributivo, o quantomeno suggerire che quella redistribuzione del reddito, capace di sottrarre ad una parte della società solamente per arricchirne un’altra, sia stata praticata in maniera talmente traumatica da indurre al collasso l’intero tessuto produttivo. E invece, pur nel disordine provocato dallo stravolgimento dei rapporti economici, sarà possibile intravedere, nella Grecia odierna, i tratti essenziali di un progetto redistributivo ben definito. Dal punto di vista dei lavoratori greci, la crisi sta producendo risultati inequivocabili. Incalzati dagli spread, due successivi governi hanno messo mano alle regole fondamentali della contrattazione sociale, ridimensionando il ruolo degli accordi nazionali, riducendo il salario minimo e la liquidazione ed ampliando la libertà di licenziamento ‘senza giusta causa’. Gli accordi stipulati a febbraio, sottoscritti da un Parlamento circondato dalle più accese proteste popolari, prevedono un’ulteriore riduzione del 22% del salario minimo, che così giungerebbe ad € 476 netti al mese, ma che sarebbe ancora più basso per i giovani, chiamati ad affacciarsi al mondo del lavoro con un salario netto di € 426 al mese. Quegli stessi accordi prevedono anche la totale cancellazione della contrattazione collettiva, o quantomeno un suo ulteriore, drastico, ridimensionamento, in favore della diffusione di contratti aziendali. A queste misure, che vanno ad incidere immediatamente sui salari e sul potere contrattuale dei lavoratori, si devono aggiungere i tagli alle pensioni, ridotte di circa il 20%, e tutti quei tagli allo stato sociale (dalla sanità all’istruzione) che finiscono per abbassare lo standard di vita delle famiglie greche. Sul fronte del pubblico impiego, i salari sono stati ridotti del 20% per i dipendenti pubblici e del 30% per i dipendenti delle imprese pubbliche, sono state abolite tredicesime e quattordicesime, è stato realizzato il blocco del turnover ed, infine, si è aperta una stagione di licenziamenti di massa mettendo in mobilità 30.000 dipendenti, che avevano programmato la loro vita sulla base di un contratto di lavoro a tempo indeterminato e si ritrovano, oggi, al 60% del loro stipendio, ed in attesa del licenziamento previsto entro un anno. Il potere d’acquisto dei lavoratori greci ha subito un’ulteriore contrazione a causa dell’aumento straordinario della pressione fiscale, aumento deliberato nonostante il fatto che la Grecia risultasse già “uno dei paesi OCSE con il maggior carico fiscale sui redditi da lavoro per le famiglie con figli”. Gli incrementi nella tassazione, previsti nel contesto delle misure di austerità, sono stati realizzati prevalentemente tramite la leva delle imposte indirette: le accise su benzina, sigarette ed alcolici sono state aumentate di un terzo, mentre l’imposta sul valore aggiunto è stata portata al 23%, dal 19% della maggior parte dei beni, ma anche dal 13% di alcuni beni di largo consumo. Per quanto concerne l’imposizione diretta, la soglia di reddito necessaria ad ottenere l’esenzione dalle tasse è stata drasticamente abbassata, da 12.000 a 5.000 euro. Infine, è stata introdotta una tassa sugli immobili di proprietà il cui pagamento è incorporato nella bolletta elettrica: così facendo, il governo si è riservato il diritto di tagliare l’energia elettrica alle famiglie che non pagheranno, per scelta o per necessità, l’imposta. Anche se gli effetti di questa storica erosione dei diritti dei lavoratori si potranno cogliere pienamente solo nel lungo andare, stiamo già assistendo ad un consistente crollo dei salari: le ultime statistiche ufficiali mostrano una caduta del costo del lavoro medio mensile del 31%, dai 2.163 euro dell’ultimo trimestre del 2009 ai 1.490 rilevati nel primo trimestre del 2012. Tutto questo significa non solo che in Grecia la quota della ricchezza prodotta destinata ai salari si è ridimensionata in maniera straordinaria, negli ultimi due anni, ma soprattutto che, al contempo, è stata minata la capacità stessa dei lavoratori greci di pretendere migliori condizioni retributive in futuro. Dal punto di vista delle imprese, gli effetti dell’attuale crisi appaiono molto più complessi da interpretare. Le aziende travolte dalla recessione sono, prevalentemente, quelle di dimensioni inferiori, mentre i settori più forti del capitalismo greco, quelli orientati all’esportazione, nonché i capitali esteri che stanno facendo il loro ingresso nei settori strategici dell’economia, sembrano tenere il passo: ciò significa che se alcune imprese, le più deboli, finiscono per perdersi nel vortice della recessione, altre sono in grado di sopravvivere, e possono dunque usufruire appieno dei vantaggi derivanti dall’abbattimento dei costi del lavoro che abbiamo appena illustrato. La caduta della domanda interna, frutto di due anni di austerità, ha colpito tutto quel segmento del tessuto produttivo greco rivolto al mercato interno, mentre le esportazioni del paese sono cresciute come non mai, passando da 15 a 23 miliardi di euro negli ultimi tre anni. La struttura produttiva del paese si sta rapidamente modificando, e tende ad assumere una conformazione maggiormente orientata all’esportazione: la percentuale di produzione manifatturiera destinata ai mercati esteri è passata dal 32% del 2009 al 45% del 2011. Accanto al settore orientato all’esportazione, che trae vantaggio dalla compressione del costo del lavoro e non viene, al tempo stesso, indebolito dal conseguente crollo della domanda interna, è possibile riconoscere un altro segmento di capitali privati che sta senz’altro interpretando l’attuale crisi come una preziosa opportunità: si tratta di quei gruppi stranieri che, nell’ambito del vastissimo programma di privatizzazioni imposto alla Grecia, riusciranno ad impossessarsi dei settori strategici dell’economia, dai grandi monopoli nazionali ai servizi pubblici locali più profittevoli, seguendo l’esempio della Deutsche Telekom, che nel giugno 2011 ha acquistato, ad un prezzo stracciato dal crollo dei listini di Atene, la quota di maggioranza della compagnia telefonica nazionale greca. Per comprendere l’estensione delle opportunità di profitto implicita nel nuovo assetto dell’economia greca, si consideri che il piano di privatizzazioni, valutato in 50 miliardi di euro, include le società che gestiscono i più importanti porti del paese (da quello del Pireo a Salonicco, più altri porti minori), gli aeroporti (compreso quello di Atene), le autostrade e la rete ferroviaria, le infrastrutture idriche, le Poste, l’ATE Bank – istituto creditizio pubblico storicamente legato al settore agricolo –, le ultime quote della società di telecomunicazioni nazionale ancora detenute dallo stato, le società che gestiscono scommesse e lotterie, le più importanti imprese energetiche nazionali (gas, energia elettrica e petrolio) nonché buona parte del patrimonio immobiliare dello stato. Dunque, a ben vedere, i mutamenti strutturali del tessuto produttivo greco non appaiono dettati dal disordine implicito nella recessione ma, al contrario, sembrano condurre il paese verso un modello di sviluppo che somiglia molto a quello indicato dalla Banca Centrale Greca nella sua ultima Relazione Annuale: “A prescindere dalle misure di brevissimo periodo, appare necessaria una politica per la crescita di lungo periodo. Tale politica deve, a partire da subito, sforzarsi di realizzare quelle riforme che possono favorire la transizione verso un nuovo modello di crescita, orientato all’esportazione. Queste riforme devono focalizzarsi sul cambiamento della struttura produttiva e sulla correzione delle attuali distorsioni. La distorsione più grande di tutte è forse l’elevata concentrazione delle risorse disponibili in attività destinate al mercato interno (e per la gran parte controllate dal settore pubblico).”

Manfredi De Leo tratto da Spread, l’educazione dei Greci”

c) Irlanda, Portogallo, Spagna

Il copione è molto simile a quello visto all’opera in Grecia con la presenza di una bolla immobiliare. Gli aiuti della BCE sono come da copione, legati ad una serie di riforme strutturali che portano i disoccupati da 1,76 a 4,6 milioni in Spagna.

d) Italia

E’ l’ultima ad entrare nei PIGS. A differenza degli altri paesi non aveva seguito una politica espansiva e di debito ma comunque aveva un rapporto Debito/PIL pari al 120% (il limite è fissato al 60%). Il problema italiano è il permanere di un basso livello di produttività (alto valore del CLUP). Lo Spread sale moltissimo facendo aumentare gli interessi sul debito che fanno scattare gli aiuti della BCE. Nel 2010 il Consiglio Europeo richiede nuovamente all’Italia di rientrare nel parametro di convergenza del 60% Debito/PIL. Ciò significa un disavanzo positivo del deficit annuo di circa 47 miliardi di euro. Il Governo Berlusconi non sembra dare garanzie in questo senso. La lettera di Draghi e Trichet inviata al governo Italiano crea una svolta politica. La prima manovra economica del nuovo Governo Monti taglia circa 151 miliardi di euro.

10) Polo imperialista Europeo

a) La nuova struttura dell’Unione Europea

La crisi dei debiti porta l’Europa a riflettere sui trattati ed in particolare sui tre pilastri di intervento su cui era impostato il Trattato di Maastricht. In particolare, già al consiglio Europeo di Lisbona, era stata avviata un’agenda per rafforzare il secondo pilastro, quello relativo alle politiche economico fiscali dove si era ipotizzato un aumento del numero di decisioni sottoposte al voto di maggioranza. In assoluto si propone di dare più peso alle decisioni della Commissione Europea e al Consiglio Europeo bypassando il volere dei singoli stati. Il questo senso la Commissione di Giustizia Europea avrà maggiori poteri nell’erogazione di sanzioni a chi non rispetta i parametri.

Le nuove strutture sono

EFSF/ESM

Fondo salva stati per gestire gli afflussi di denaro della BCE verso i paesi colpiti dalla crisi. Gestisce gli aiuti ed effettua i controlli sulle condizioni. Si trasformerà in ESM (meccanismo di stabilità europeo) che gestirà parte degli aiuti all’Italia poi sospesi in virtù della lettera Draghi Trichet.

Semestre Europeo

Si riducono i tempi per l’analisi delle correzioni di politica economica richiesti ai singoli paesi per l’erogazione degli aiuti. Si rafforza così il periodo di controllo sui singoli stati

Two Pack e Six Pack

Nel novembre dicembre 2011 vengono varati un insieme di provvedimenti e di regole che aumentano il controllo della Commissione Europea e del Consiglio Europeo sui provvedimenti e le politiche fiscali dei paesi membri. Non prevedono ancora l’automaticità delle sanzioni in caso di non rispetto

Fiscal Compact

Varato il 2 marzo del 2012 dovrebbe trasformarsi in Trattato Europeo in un tempo di 5 anni. Introduce la regola del bilancio di deficit annuo per il singoli Stati (rapporto deficit/PIL massimo 0,5%). Molti stati introducono questa regola nella Costituzione (come l’Italia). Si danno maggiori poteri alla Corte di Giustizia Europea e le sanzioni diventano automatiche quando il rapporto deficit/PIL supera il 3%. Per i paesi che hanno il rapporto Debito/PIL>60% si deve attivare un meccanismo che diminuisca ogni anno il debito di un decimo del totale.

Conclusione: Verso il polo imperialista. Tendenze e controtendenze
La crisi economica che stiamo vivendo in questi anni parte sostanzialmente dal 2001 con il crollo di Wall Street in contemporanea all’attacco delle torri gemelle in USA. E’ una crisi che ha tante facce, segnali di ripresa interni e successive ricadute. All’interno si evidenziano molte strategie globali contrapposte e il ruolo della finanza internazionale. Dobbiamo però sgomberare il campo da una ipotesi che va per la maggiore nella propaganda dei media mainstream: la crisi non è una crisi finanziaria ma si innesta all’interno di cause economiche di fondo. L’idea che esista una finanza cattiva in contrapposizione ad un sistema produttivo buono è assolutamente inesistente. Non solo per i rapporti diretti presenti tra le holding finanziarie e quelle della produzione ma soprattutto perché il ciclo della crisi segue un andamento preciso che, partendo da una sofferenza finanziaria, si propaga poi all’economia reale. Non ci sono dubbi sul ruolo giocato dalla finanziarizzazione dell’economia dagli anni ottanta ai nostri giorni: le liberalizzazioni in ambito bancario sono il canale con il quale gli investimenti finanziari e le speculazioni hanno potuto girare liberamente per il mondo con gli effetti a catena che partendo dagli USA hanno spostato la crisi verso l’Europa ed in parte anche verso i paesi emergenti. Ma la crisi finanziaria si è subito trasformata in crisi commerciale e poi sociale con ricadute su tutti i lavoratori. L’ultima parte della crisi ha avuto effetti devastanti in Europa partendo dai paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna a cui si aggiunge l’Italia) e lambisce anche il centro del polo europeo con la situazione francese in bilico e una situazione tedesca che pur rimanendo diversa è preoccupante soprattutto per i lavoratori.
Il ruolo egemone della Germania in Europa deriva da cause storiche dovute alla politica mantenuta dal ’45 ad oggi con i passaggi che sono stati spiegati in precedenza. La differenza è evidente soprattutto se analizziamo i valori del Debito riferito al PIL. La Germania ha un surplus commerciale che condivide a livello globale con il Giappone ed i paesi BRICS. Fortissimo invece il deficit commerciale degli altri paesi UE e degli USA.
A livello globale è in atto un accordo tra i paesi BRICS e le grandi e storiche economie capitaliste. L’accordo prevede lo spostamento delle attività manifatturiere nei paesi emergenti (sfruttandone soprattutto il basso costo della manodopera). Le merci seguono poi le rotte dell’export perché per motivazioni diverse i paesi emergenti hanno interesse a tenere basso il costo dei salari nel loro paese e ad investire il surplus nei paesi del centro. Il meccanismo è tale che nel centro non si investe e i salari rimangono bassi creando stagnazione.
La quota dei salari sul reddito nazionale sostanzialmente decresce nei paesi capitalisti dalla metà degli anni 70 sintomo di una preoccupante perdita dei poteri delle classi subalterne. Negli anni 70 era cresciuta (assieme all’inflazione) a causa delle lotte sociali, poi decresce a causa della reaganomics e della politica della Thatcher e poi dagli anni 90 ai giorni nostri per effetto della globalizzazione.

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Quota salari sul reddito nazionale

La situazione USA è influenzata dall’elevato debito (che, per inciso, dipende fortemente dalle spese militari con cui gli Stati Uniti tengono ben saldo il ruolo di gendarme globale del capitalismo) creato con l’intervento diretto della FED che ha diritto di signoraggio. La Germania fa assumere all’Unione Europea Europa un ruolo completamente diverso avendo come obiettivo la creazione di una moneta forte per strappare la supremazia monetaria al dollaro. In questo senso gli altri paesi UE sono stretti nella morsa delle mire imperiali della Germania, mire tra l’altro condivise dalla borghesia industriale degli altri paesi. All’interno di questo meccanismo occorre considerare altre mire imperiali (ad esempio quelle della Cina). Per il momento la presenza di un crescente polo imperialista europeo a guida tedesca è in parte compatibile con una tendenza globale dell’economia che divide sempre di più i paesi del centro (che mantengono molti privilegi sui brevetti, sulla ricerca e sviluppo e sulla proprietà delle multinazionali) dalle periferie dove però cresce numericamente una fortissima classe operaia sfruttata. Le mire imperiali europee sono ancora possibili e vengono perseguite poiché le politiche di deflazione salariale, privatizzazione, precarietà ed abbattimento del welfare si riversano tutte sui lavoratori ma accrescono i profitti. Il meccanismo finanziario globale però potrebbe avere mire diverse tendendo ad una unificazione degli imperialismi.
Appare comunque evidente come le dinamiche di classe negative nei paesi del centro riproducano le dinamiche tra paesi ricchi e paesi poveri. Le condizioni di lavoro dei lavoratori in Europa tendono sempre di più ad assomigliare alle condizioni dei salariati in fortissimo aumento e concentrazione nei paesi emergenti. In questo senso le lotte durissime all’interno dei settori industriali in quei paesi rappresentano ad oggi qualcosa di molto di più rispetto al passato. Sta in questa dinamica, e non nella reiterazione di politiche socialdemocratiche oramai inutili, la speranza per il sovvertimento del sistema di sfruttamento globale che si chiama capitalismo.
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